La Storia della Filosofia come problema*

 

   * Articolo pubblicato sulla Rivista Quaerite, 11 - 12,  Anno VI, n° 1-2, dicembre 2015, Saletta dell'Uva, Caserta.

        I paladini della inevitabilità della secolarizzazione, come destino ultimo ed esito ineludibile della modernità, intendendo per secolarizzazione quel processo culturale in cui la ragione, in quanto ragione, si appropria dei valori religiosi, sino al completo assorbimento dei primi nella seconda, i paladini della secolarizzazione, così intesa, dicevamo, si sono dovuti misurare con il fatto che ciò che ciò che è accaduto non è affatto la fine della religione, ma la sua persistenza. Da qui il cambio di strategia, coerente con quella che possiamo definire la “volontà di egemonia” del pensiero secolarista. Mi riferisco cioè al tentativo di svuotamento del “Kerigma”, della sua lettura debole, agendo sulla prassi, non a caso da tale pensiero ritenuto l’essere stesso, se così posso esprimermi. Che il pensiero della secolarizzazione abbia dovuto far i conti con l’irriducibilità del religioso, è emerso già da tempo; difatti, sia Habermas e sia l’allora Cardinal Ratzinger, nella famosa conferenza di Monaco del 2004, i cui Atti sono stati pubblicati da Marsilio a cura di Giancarlo Bosetti, convenivano sulla necessità di introdurre il concetto di “post secolare” come tratto caratteristico del nostro tempo, intendendo con questo concetto proprio la persistenza del religioso in una società irreligiosa.

            Il cambio di strategia del secolarismo, se così possiamo esprimerci, consiste nel fatto che questi ha posto in atto un tentativo di svuotamento dall’interno del pensiero religioso stesso. Con ciò si intende dire che nell’età post secolare il pensiero laico, nell’interrogarsi sul religioso, tende a definire dall’interno il paradigma stesso dell’autocomprensione del pensiero religioso, quando con questo si intende il filosofare nella fede. Mentre il processo della secolarizzazione era caratterizzato dal paradigma dialettico della contraddizione – negazione – superamento; questo pensiero laico post secolare mi sembra caratterizzato dal concetto della “stasis”, ovvero del conflitto irrisolto di tesi – antitesi, privo di sintesi: la “dialettica inconclusiva”.

1.1 lo status quaestionis

Se per S. Tommaso, come riconosce giustamente Etienne Gilson, «né la ragione, quando ne usiamo correttamente, né la Rivelazione, poiché ha Dio come origine, potrebbero ingannarci»[1], come mai si assiste allo spettacolo di una filosofia che ragionando giunge a conclusioni opposte alla sua stessa natura (negazione della verità e di Dio) e ad una teologia che il più delle volte svuota la rivelazione giungendo a negare se stessa? Subito potremmo rispondere perché la ragione non è usata correttamente e la teologia nega surrettiziamente la rivelazione. Ma il problema è un po’ più complesso di come appare a prima vista. Si è creata una certa confusione. La teologia spesso ha sposato gli esiti del pensiero postmoderno che ha già in sé il germe della confusione di cui risente la filosofia contemporanea. Infatti, mentre la filosofia - meglio sarebbe dire la “non-filosofia” – richiamandosi alla non-ragione o anti-ragione, rifiuta completamente ogni richiamo alla trascendenza, in virtù della sua opzione fondamentale, la teologia stessa, sulla scorta della non-filosofia, non si appella più al Principio di Autorità e Tradizione (sia pure coniugato come Principio di Partecipazione) e legge il dato rivelato a partire dagli esiti stessi della modernità. Perciò il problema non è solamente filosofico, ma, in un certo senso, riguarda anche la teologia. Dal punto di vista filosofico ciò comporta, riguardo alla teologia, una critica della filosofia di Duns Scoto e di Guglielmo d’Ockham. Può sembrare inutile tutto ciò, ma ritengo invece che sia molto utile, perché è proprio lì che inizia la crisi profonda della modernità.

Un altro aspetto da tenere in considerazione, anche questo legato alla modernità, è l’assorbimento - liquefazione della filosofia nelle scienze. Questo è certamente un paradosso che opera in ambito filosofico e che viene da una filosofia antimetafisica di matrice anglosassone – anche se Kant ne è il più chiaro esponente – la cui origine va indubbiamente ricercata  nel pensiero di Ockham. Questo movimento di pensiero ha preparato la via alla rivoluzione scientifica del Seicento.

La filosofia moderna ha, se così posso esprimermi, il vizio di origine di essersi pensata, e di aver poi elaborato i suoi problemi, nell’orizzonte metafisico delle scienze moderne della natura. Ed è questo organizzarsi all’interno di questo orizzonte che l’ha condotta alla crisi di cui parla Husserl nella sua ultima opera La Crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale. Kant stesso si è pensato come il Newton della filosofia, elaborando una filosofia entro l’orizzonte della fisica matematica, intesa come metafisica della critica ad ogni metafisica e, dunque, come critica della pura ragione. La Ragione kantiana, quindi, è la versione moderna dell’intelletto universale nella soluzione averroista. Ciò è valido però, solo per la Ragion Pura teoretica, mentre, in ambito morale emerge la concezione deista, pietista e illuminista della sua formazione.

 Il problema dei problemi, come aveva già evidenziato Del Noce, diventa allora la storia della filosofia moderna. Ma cosa significa dire che la storia della filosofia è  il problema filosofico del nostro tempo? Innanzitutto, significa decifrare una crisi, anzi la crisi delle crisi; e non basta descriverla, al crisi va risolta. Ciò significa che bisogna dare una risposta completa al problema. Alasdire MacIntyre, in Enciclopedia Genealogia e Tradizione, afferma che «se elimina l’illuminazione divina dallo schema agostiniano, rimane un intelletto nella condizione ritratta da quel “solipsizzato” tardo-agostiniano che era Cartesio, mentre ovviamente dal punto di vista aristotelico i problemi non si pongono»[2]. Il rifiuto della Metafisica aristotelica, susseguito al rifiuto della stessa fisica aristotelica, avvenuto sulla scorta della rivoluzione scientifica ha comportato il rifiuto della filosofia tommasiana insita nella sua stesa teologia. L’equilibrio tra ragione e fede, mirabilmente realizzato dall’Aquinate è venuto meno, determinando quella frattura, tipica della modernità, tra scienza della natura e metafisica. MacIntyre definisce Cartesio come un “solipsizzato” tardo-agostiniano, cioè come un pensatore che ha già rifiutato l’apporto del pensiero aristotelico alla sua fisica, e che ha eliminato dalla filosofia agostiniana, che era parte integrante invece del pensiero di S. Tommaso, l’ultimo elemento teologico che vi era, l’illuminazione divina nell’ambito gnoseologico.

La modernità si presenta come il progressivo rifiuto, fino alle estreme conseguenze, della seconda navigazione, introdotta da Platone nel Fedone[3]. Questo rifiuto comporta non solo il rifiuto del modo in cui questa “deuteros plous” è stata presentata da Platone stesso, ma anche dalla versione che questa ha poi assunto nel pensiero di Aristotele e nel Medioevo. Insomma, si tratta del rifiuto di una Metafisica intesa come dottrina dell’essere e della trascendenza, fondata sulla ingiustificata affermazione di una presunta ingenuità degli antichi ed ei pensatori medievali da cui, finalmente, l’età moderna ci avrebbe liberato. Da questo rifiuto, particolarmente grave nei confronti del sublime livello cui, con San Tommaso, era giunta la Metafisica, ne consegue la decadenza della modernità, intesa come età delle rivoluzioni dall’umanesimo del Quattrocento all’era attuale della post modernità; intesa come età del non è più possibile pensare in termini di trascendenza verticale. Questo rifiuto è già avvenuto in seno al Medioevo con le critiche di Duns Scoto e Guglielmo d’Ockham a S. Tommaso d’Aquino.

Tornando alla modernità, rimane indubbio il fatto che la cancellazione della metafisica dè stata coeva alla battaglia per la nuova scienza; così facendo, però, ci si è trovati nella condizione in cui la filosofia seconda, ovvero la fisica – e per essa e con essa la scienza in genere – si è sostituita alla filosofia intesa come filosofia prima e perciò come metafisica. Questo ribaltamento ha avuto conseguenza non solo nell’ambito della filosofia, ma anche in quello della logica propriamente detta. Al culmine dell’età moderna, infatti, con la nascita di una ontologia che non ha più nessun legame con la teologia si ha un ribaltamento della originarietà dei principi logici; conseguenza questa di quel processo che ha portato alla rivoluzione copernicana di Kant. È il Principio di non-contraddizione, infatti, ad essere originario, e non il Principio di identità come volevano Wolff, Kant e gli idealisti, in quanto l’identità di un ente discende dalla sua definizione e non viceversa.

Il fatto che Wolff, Kant e gli altri abbiano optato per il Principio di identità, definendolo originario, e di qui porre il Soggetto come originario, perché su questo si poggerebbe l’originarietà del Principio di identità, e da questo poi discenderebbe quello di non-contraddizione, è una conseguenza logica di uno dei percorsi possibili della modernità: quello della rivoluzione antropocentrica. Ma è ovvio che tale cambiamento logico presuppone una diversa, se così posso esprimermi, ontologia. Difatti, solo a partire dalla modernità, che nella rivoluzione copernicana di Kant trova la sua più piena e chiara formulazione, è possibile concepire il principio di identità come originario, cioè, è solamente a partire dalla opzione egocentrica della modernità che si può immaginare originario il soggetto e, dunque, originario il Principio di identità. In un orizzonte cosmo-centrico e teocentrico, in cui i trascendentali sono proprietà dell’ente e non forme a-priori del soggetto è il principio di non-contraddizione ad essere originario. Il ribaltamento realizzato dalla metafisica dell’immanenza di stampo idealista sta proprio nel sostituire il Soggetto come azione all’essere come ente. Ecco perché per gli idealisti è vero. “esse sequitur operari”, mentre per la metafisica classica è vero il contrario: “operari sequitur esse”. Se è vero, come sottolineava Del Noce che l’ateismo è il termine conclusivo di un processo opzionale alla cui origine c’è il rifiuto per lo “status naturae lapsae[4], rimane da vedere in che modo il ribaltamento egocentrico ha cancellato la dimensione creaturale e, dunque, la lettura teologico-filosofica della physis. Questo ribaltamento, in un certo senso, è stato preparato dalla visione dell’uomo come homo faber, e da qui dalla visione della scienza della natura come scienza pratica, come opera e attività del Soggetto.

È indubbio merito del Cristianesimo, che con S. Agostino e di S. Tommaso raggiunge il massimo della chiarezza, l’aver posto l’attenzione della filosofia sulla incontestabile unicità e dignità di ogni singolo uomo, in virtù della dottrina della immortalità dell’anima individuale e dell’anima come imago Dei. L’aver sempre più marginalizzato S. Tommaso, già a partire dalla fine del Medioevo, rientra in quel progetto opzionale di emancipazione dell’uomo da Dio. Il passo successivo è consistito nel sostituire l’errore al peccato, intendendo la mortalità come dato naturale e non conseguenza del peccato, il Rubicone è stato superato; così, di fronte ad una natura non visata più come creatura, nell’abito della conoscenza, l’homo faber si è pensato sempre più come novello Prometeo. Di questa stessa natura, l’uomo si coglieva ad un tempo parte e artefice.

Per quanto riguarda i fondamenti filosofici della rivoluzione scientifica basta guardare all’utopia baconiana per rendersi conto dei limiti della modernità stessa. Oltre ai punti emersi dalla critica di Hans Jonas al baconismo[5],   va tenuto presente anche un altro punto. Il cuore della Nuova Atlantide di Bacone è l’idea che la scienza della natura possa costruire un mondo a dimensione umana dove la tecnica liberi e affranchi definitivamente l’uomo dalla fatica e lo renda felice. Ma l’assurdo della utopia baconiana sta nel non aver considerato il problema da un punto divista anche etico e morale e, in definitiva, metafisico e teologico. La condizione umana è essenzialmente una condizione di peccato minata, fin nelle sue basi, dalla chiusura e dalla prevaricazione, dalla ybris del «diventereste come Dio», insomma. Non basta perciò la tecnica, quasi fosse una nuova innocenza, a rendere umano il mondo (non è, infatti, l’esistenza che precede l’essenza; ma, al contrario, l’essenza che precede l’esistenza). Anzi, quanto maggiore è la potenza che l’uomo riceve dalla tecnica, come ha dimostrato Jonas, tanto maggiore è il problema etico e metafisico. E questo nelle condizioni normali di sviluppo tecnologico, in cui sia l’economia di mercato sia il comunismo minacciano l’esistenza stessa dell’uomo sulla terra. In più, il marxismo – aggiunge Jonas – resta il miglior esecutore dell’utopia baconiana, in quanto non rifiuta lo sviluppo della tecnica, ma solo la sua dimensione privata[6]. L’alienazione, infatti, per Marx non sta nello sviluppo della società industriale, ma nel modo del sistema di produzione, il marxismo, cioè è interno allo sviluppo della modernità, essendone uno degli esiti, come dimostrato ampiamente da Del Noce[7]. Il marxismo è frutto del baconismo di cui si considera, come dice appunto Jonas l’esecutore; vi è nel marxismo «quel che va veramente  al di là dell’atteggiamento borghese-liberale […]: la fede quasi religiosa nell’onnipotenza, in senso normativo e positivo, della tecnica»[8] afferma il Nostro.

1.2  Ulteriori puntualizzazioni

            Aristotele affermava che qualora non sussistesse altra sostanza oltre quelle fisiche la fisica sarebbe stata la filosofia prima, ovvero ci sarebbe stato l’abbandono della seconda navigazione platonica. In breve, si potrebbe dire che nel caso in cui fosse stato rifiutato alla Metafisica lo statuto e di scienza, di scienza delle scienze, allora la fisica, filosofia seconda, sarebbe divenuta la filosofia prima[9].  In effetti, e in sintesi, questo è ciò che è avvenuto all’alba dell’età contemporanea, la radice di questo rifiuto va colta nel rifiuto della seconda navigazione di cui Platone aveva, come ricordato sopra, parlato nel Fedone, appunto. Questo rifiuto ha comportato un radicale cambiamento di prospettiva, un madornale errore, che va collegato all’antropocentrismo moderno, alla sua opzione per l’aseità e al rifiuto della condizione dell’uomo come condizione di peccato, di dipendenza in termini metafisici. Ritenere che sia stato lo sviluppo della tecnica, preso come fenomeno a sé, la causa del rivoltamento della modernità non è corretto. Ci domandiamo: perché l’uomo opta per l’autosufficienza? Nel rifiuto del Medioevo c’è, in verità, il primo accenno al rifiuto del concetto della “dipendenza” dell’uomo.

Il Medioevo non è stato privo di sviluppi tecnici, o di accenni al rapporto tra matematica e descrizione dei fenomeni naturali; basti qui ricordare Roberto Grossatesta, Ruggero Bacone, Nicola d’Horesme, Nicola Buridano, solo per citarne qualcuno[10]; o, addirittura, le stesse posizioni ipotetiche del Cardinal Bellarmino circa il caso Galilei. Infatti, i cinque secoli di storia che precedono la rivoluzione scientifica sono caratterizzati da continui progressi tecnici in tutti i campi. E, allora: perché la modernità assume questo carattere progressivo di rifiuto delle sue radici cristiane? Se, sviluppo delle tecniche e Cristianesimo non si escludono a vicenda, come mai la modernità si caratterizza con la categoria del rifiuto? La modernità, dicevamo, si presenta come il progressivo rifiuto, fino alle estreme conseguenze, della seconda navigazione introdotta da Platone nel Fedone. Ebbene, questo rifiuto comporta, non solo il rifiuto del modo in cui questa “deuteros plous” è stata presentata dal Platone, ma anche nella versione che questa ha assunto nel pensiero di Aristotele e in quello Medievale. Insomma, si tratta del rifiuto di una Metafisica, intesa come dottrina dell’essere, e dell’essere trascendente. Da questo rifiuto, particolarmente grave nei confronti del sublime livello cui era giunta con l’Aquinate, ne consegue la decadenza della modernità, o meglio, di quella linea della modernità che si è imposta come suo destino, modernità intesa come età delle rivoluzioni dall’Umanesimo alla postmodernità.ma questo rifiuto è avvenuto già in seno allo stesso Medioevo con le critiche di Duns Scoto e di Guglielmo d’Ockham a S. Tommaso. Il punto della svolta si concretizza poi in Cartesio. Una ulteriore integrazione alla nostra ricerca può venire dalla riflessione su Nietzsche. Nell’aforisma n° 340 della Gaia Scienza, intitolato “Socrate morente” esprime sinteticamente la sua negazione della trascendenza nel criticare l’espressione di Socrate: «Critone, ricordati che siamo in debito di un gallo ad Asclepio»[11]. A quanto detto, va però aggiunto quanto segue. Non si comprenderà mai bene quanto il pensiero di Nietzsche sia nemico del Cristianesimo e, perciò, inconciliabile con esso, e non si capirà mai bene quanto il pensiero di questo filosofo sia ostile a tutto ciò che è cristiano finché non si sarà letto l’aforisma n° 135 della Gaia Scienza intitolato “Origine del peccato” [12], e , per inciso, a ciò va aggiunto che Nietzsche confonde la matrice con gli sviluppi ulteriori, quasi che modernità e Cristianesimo coincidessero. D’altra parte, è anche vero che la critica di Nietzsche al cristianesimo è confusa con la critica alla modernità, A. MacIntyre in Enciclopedia Genealogia e Tradizione ha ampiamente dimostrato che uno degli obiettivi di Nietzsche, oltre il Cristianesimo, era l’enciclopedismo illuminista[13]. Ebbene, in questo aforisma trova giustificazione anche il recupero della grecità e del tragico. Ma veniamo all’aforisma. Il filosofo di Röcken inizia definendo il peccato come «un sentimento ebraico e un’invenzione ebraica» e, visto che la civiltà Occidentale è frutto del Cristianesimo, Nietzsche osserva che il «Cristianesimo ebbe di mira l’ebraizzazione del mondo intero». E il segno di ciò sarebbe l’estraneità che in Europa incontra il modo di vivere degli antichi greci. Il  punto centrale dell’aforisma è, però, il seguente passo che vale la pena di leggere per intero. Afferma Nietzsche che «i greci al contrario [dei cristiani e degli ebrei] si avvicinarono al pensiero che anche il crimine potesse avere una sua dignità – persino il furto, come Prometeo, persino la strage del bestiame in quanto sfogo di una invidia insensata, come per Aiace: nella loro esigenza di attribuire al delitto dignità e di incarnarvela, essi hanno inventato la tragedia – un’arte e un godimento che all’ebreo, nonostante  tutte le sue attitudine per la poesia e la sua inclinazione al sublime sono estranei nella loro essenza più profonda»[14]. Centro della riflessione è, dunque, il peccato e, onticamente, la perdita di senso del peccato, che caratterizza la nostra epoca, come epoca postnietzschiana. Ma per comprendere quanto sia proprio questo il punto centrale di tutto il discorso basti tenere a mente che Nietzsche stesso riprende questo punto o, meglio,  lo aveva già implicitamente espresso ne La filosofia nell’età tragica dei greci»[15], quando aveva recuperato il detto di Anassimandro, come spiegazione dell’origine del male. L’attacco al Cristianesimo è l’attacco al concetto di peccato, ed in questa chiave va anche letto l’attacco a Socrate e a Platone e, quindi, alla Metafisica. Heidegger, [16] vero discepolo di Nietzsche, prosegue in tal senso l’opera del suo maestro nella filosofia del Novecento.

Per meglio comprendere la posta in gioco, bisogna rifarsi alle ricerche di Augusto Del Noce. Per il filosofo torinese, Nietzsche è uno dei due esiti del razionalismo moderno, essendo Marx l’altro[17]. Ovviamente, qui, con Del Noce, “razionalismo” va inteso non in senso puramente gnoseologico, legato cioè al problema della fondazione della scienza dal punto di vista filosofico, tema che ha interessato la filosofia moderna fino a Kant come il problema dei problemi; ma, va inteso come quell’atteggiamento filosofico di una parte della modernità che si manifesta come ingiustificato rifiuto dello staus naturae lapsae e, di conseguenza, nel rifiuto della seconda navigazione. Da questo rifiuto del peccato ne consegue il rifiuto di Dio e, perciò, l’ateismo di Settecento e Ottocento, dopo l’esperienza elitaria del libertinismo del Seicento, l’irreligione contemporanea. Da qualunque partesi voglia partire, o dal vissuto e, dunque, dall’analisi della situazione di fatto, o dalla storia della filosofia come problema, emergerà sempre la necessità di un ritorno alla Metafisica, come l’orizzonte fondativo di ogni discorso oggi possibile.

Il problema, però, non è quello di scrivere una nuova Metafisica, perché una Metafisica c’è già, ed è quella di S. Tommaso, ma si tratterà di preparare una via per il ritorno a la Metafisica, vista l’urgenza del nostro tempo di un pensiero metafisico veramente detto. Detto ciò, qui si ribadisce che una Metafisica, come discorso intorno all’essere  e alla verità, non è un discorso nemico della libertà, poiché solo nella verità c’è libertà. La modernità, nel suo rifiuto della trascendenza e nel suo porre l’uomo al centro del cosmo, di fatto si pone come negazione dell’essere. La domanda intorno all’essere, non può esser evasa, ma la fisica, che si presenta oggi come filosofia prima, non è in grado di dare una risposta a questa domanda. E ciò perché identità e uguaglianza non sono la stessa cosa; la fisica ci dice, o tenta di dirci, a cosa è uguale una certa x, ma non ci può dire cosa essa è, quale cioè è il suo essere, non sa rispondere a tale domanda. Ciò compete alla Metafisica, intesa come filosofia prima. Ma, che risposta può dare questa metafisica alla crisi del nostro tempo? Che risposta della sua profonda decadenza? Del Noce diceva che il compito epocale della filosofia nel nostro tempo è quello della “decifrazione di una crisi”. Anche Husserl, nella Krisis aveva compreso l’urgenza di questo compito e conferiva alla filosofia la missione di trascendere ilo naturalismo per ridare all’umanità europea il suo telos. Possiamo dire che Husserl e Del Noce, pur senza essersi mai confrontati, colgono entrambi, nella definizione del senso della storia della filosofia, la cifra di questa stressa crisi. Dunque, con Del Noce, si pouf affermare che la storia della filosofia è, in filigrana, la questione della crisi dell’Umanità europea e la necessità della ricerca del suo senso. Ma questa questione, non può non tener conto della incidenza del Cristianesimo per il senso dell’Europa stessa. Ma cosa significa porsi il senso della storia della filosofia se non riflettere sulla secolarizzazione? Infatti, è vero che la storia della filosofia nasce come prova del nove, ci sia concessa la metafora, del sistema hegeliano, ed ora, nel contesto della egemonia culturale giacobina, serve, come archeologia del potere, a giustificare questo presente come destino stesso dell’umanità europea. Si sa che l’egemonia culturale giacobina ha varie tappe e si diversifica nei diversi paesi in cui storicamente ha operato, ma ha come denominatore comune la cancellazione del Cattolicesimo in primis e del Cristianesimo, in generale, dal panorama dell’Europa e del mondo.

Quella che Husserl ne La Crisi delle scienze europee chiamava la filosofia in lotta con la non-filosofia, si sono scontrate sempre con le varie forme di nichilismo e di relativismo che di volta in volta si sono manifestate.

Altro dato interessante, colto si da Del Noce che da Husserl, è che questa crisi «non è un oscuro destino, non è una situazione impenetrabile»[18], ma è frutto di una «opzione fondamentale», per cui all’inizio della modernità l’Europa, l’uomo europeo, di fatto, rifiuta la sua condizione di peccato[19]. Ed è proprio questo fatto, apparentemente marginale, ma in realtà centrale, a far sì che la riflessione debba tener conto del dato teologico ed ecclesiale. Sta di fatto che ora la battaglia tra senso e non senso dell’umanità, tra filosofia e non-filosofia, avviene anche all’interno della stessa comunità credente.

Supponiamo, infatti, per assurdo, e solo per assurdo, che nei fatti, la prassi di alcuni credenti negasse il Kerigma della fede, in relazione, per esempio all’aborto al finis vitae, al gender etc., accadrebbe che questi credenti, rispondendo in modo opposto alla Chiesa primitiva alle stesse problematiche da Essa allora definite, negherebbero, nei fatti la loro stessa fede, contraddicendo appunto la fede millenaria della Chiesa espressa nella tradizione del Magistero. Profetica, dunque, l’affermazione di Del Noce, secondo cui «dal punto di vista secolarizzato e laico non era ipotizzabile la fine del Cristianesimo se non nella precisa forma i n cui i teologi della secolarizzazione intendono, quale sia il loro grado di consapevolezza realizzarla»19 bis  ovvero come antropologia.

 

1.3 Un caso esemplare: la questione dello Erscheinung kantiano nelle traduzioni italiane di Giovanni Gentile, Giovanni Lombardo – Radice e di Giorgio Co

           Ritornando alla questione previa e propedeutica circa il senso della storia della filosofia, un breve excursus può esserci di molto aiuto. Nella traduzione della Critica della  Ragion Pura di Kant, divenuta oramai un classico nel panorama filosofico italiano, Giorgio Colli rende in italiano il termine “Erscheinung” kantiano con “apparenza”, prendendo così le distanze dall’uso, orami invalso, di tradurlo con “fenomeno”. La rottura con la tradizione neoidealista italiana era, dunque, consumata. Perché Colli rende il termine kantiano con l’italiano “apparenza”? Come lo giustifica?

Del resto, la traduzione classica della I Critica kantiana, quella di Giovanni Gentile e di Giovanni Lombardo-Radice, per intenderci, pure nella revisione del 1974 di Vittorio Mathieu[20], conservava la scelta del termine italiano fenomeno. E ciò era giustificato da Mathieu, nella nota n° 5, relativa proprio all’introduzione di questo termine, all’inizio dell’Estetica Trascendentale dice espressamente: «Il testo ha Erscheinung = apparizione o parvenza. Ma tanto l’uno quanto l’altro di questi termini dicono in italiano qualcosa di troppo particolare dell’Escheinung kantiano, che è, come egli dice altrove, l’oggetto della percezione. Quindi preferiamo tradurlo con “fenomeno”, adoperando egli infatti, adoperando egli infatti, promiscuamente Erscheinung o Phaënomenon»[21].  Dall’altra parte, nella premessa alla terza edizione della sua traduzione, Giorgio Colli, contesta proprio questa risoluzione operata in ambito neoidealista. Seguiamo il suo ragionamento: «L’opera di revisione di Mathieu merita un commento. Mathieu stesso la minimizza, ricordando da un alto che la traduzione di Gentile e Lombardo-radice è “ormai divenuta classica” ed “eccellente”, e dall’altro lato che i suoi interventi di revisore, “anche se piuttosto frequenti” sono stati “quasi tutti di minima entità”. Non dice di aver tenuto conto di 120 errori e imprecisioni»[22]  Colli, insomma, osserva come l’intervento di Mathieu sia stato incisivo e autonomo da un parte, mentre dall’altro sia molto cauto nel dare il giusto peso ai suoi interventi di revisore, circa gli errori di traduzione di Gentile e Lombardo-Radice; quasi a voler lasciar passare l’idea che quella traduzione abbia qualche “errore” filosofico e non solo terminologico, errore cui lo stesso Mathieu aderisce.  A sostegno della sua diversa traduzione Colli cita l’articolo dello studioso bulgaro Zeko Todorv che ammira la traduzione colliana proprio per la sua chiarezza e precisione. In risposta a Mathieu, Colli, sempre nella stessa Premessa dice: «Mathieu respinge le risoluzioni terminologiche della nostra edizione: i suoi argomenti, per dirla brevemente, consistono nell’affermare che sono preferibili i termini usati da Gentile e Lombardo – Radice. Così, anche dopo la revisione, rivediamo confermato che Gemüth significa “spirito”! Forse perché in Italia – si domanda ironicamente il Colli – Kant dev’essere compreso attraverso Hegel? In ogni caso questa mediazione è operante, quando si respinge la nostra traduzione di Erscheinung con apparenza»[23] Questo dato di fatto, sapientemente portato alla luce da Giorgio Colli, assume un valore decisivo per il discorso che andremo a fare, e non è tutto. Infatti, Colli rimprovera tanto Mathieu che Chiodi di aver trascurato la critica testuale dell’opera kantiana. Infine, Giorgio Colli fa notare quanto la sua traduzione renda giustizia anche del peso che ha la I edizione della Critica della Ragion Pura di Kant, proprio quella grandezza rivendicata da Schopenhauer[24]. Questo il punto della situazione, punto che cercheremo di approfondire.

Vero è che altra è l’interpretazione, circa l’inizio del nichilismo di Cornelio Fabro[25] e Hans Jonas[26], rispetto a quella di Del Noce. Entrambi, infatti, vedono in Cartesio l’inizio di quel dualismo che condurrà al nichilismo. A tal riguardo così si esprime Fabro: «Il principio di immanenza, nell’espressione iniziale e radicale da esso avuta nel cogito cartesiano, porta necessariamente e inevitabilmente all’ateismo»[27]; Fabro vede qui la spaccatura del pensiero moderno in spiritualismo assoluto e materialismo scientifico. Jonas, dal canto suo, soprattutto in Organismo e libertà, afferma che «la nuova metafisica della scienza raccolse i frutti di un dualismo che nel suo lungo percorso aveva svuotato la natura dei suoi contenuti spirituali e Vitali, aggiungendo a questo percorso l’ultima tappa, creando cioè la propria versione del dualismo»[28], quella cartesiana appunto.

Il nocciolo della questione rimane però, a nostro avviso, la persistenza della lettura hegeliana di Kant dopo Hegel, ovvero la persistenza della lettura di Kant entro l’orizzonte dell’hegelismo. E da ciò, la questione del senso filosofico della storia della filosofia dopo Hegel, in relazione sempre al fatto che in Kant il problema delle origini del nichilismo si presenta nella sua più piena completezza.  Ne è testimonianza proprio la vexata quaestio dell’Erscheinung cui va aggiunta la tradizione di Gemüth, che letteralmente va reso in italiano con il la parola “animo”, con spirito. A parte l’aspetto squisitamente ermeneutico della questione, quello della lettura del senso dell’opera kantiana, ciò che qui ci interessa sottolineare è un altro aspetto, tipico della manualistica italiana, quello appunto della persistenza dell’impianto idealistico nella costruzione dei manuali scolastici dei licei. Questo aspetto della questione, evidenziato da Colli, sia pure con puri intenti di ermeneutica del pensiero kantiano e della sua corretta recezione nel panorama culturale italiano, per quanto ci riguarda, rimanda ad un altro aspetto: quello del senso della storia della filosofia, evidenziato da Augusto Del Noce nei suoi scritti. La domanda che ci poniamo è la seguente: se la storia della filosofia è nata come controprova del sistema hegeliano, oggi quale ruolo svolge, visto che oramai Hegel è stato superato?

Se, dunque, Kant viene letto a partire da Hegel ciò è perché si vuol rendere l’Erscheinung kantiano anziché come apparenza, come fenomeno, hegelianamente inteso; ma, così facendo, si attribuisce alla sola “apparenza” lo statuto di “realtà”. Invece, solo conservando il significato di “apparenza” per Erscheinung si riesce a comprendere la parabola che da Kant, attraverso Schopenhauer, giunge prima a Nietzsche e poi ad Heidegger. Emerge, così, grazie a Giorgio Colli, il profondo legame che c’è tra Kant e il nichilismo. Inoltre, proprio nell’intenzione di rendere in italiano “Erscheinung” con fenomeno, come fecero Gentile e Lombardo-Radice fino a Mathieu e ai nostri manuali scolastici, si dà alla scienza lo statuto di verità, secondo  il progetto scientista e  neoilluminista, cosa che la scienza non possiede affatto. Visto che qui è in gioco l’egemonia culturale, che si presenta come volontà di potenza, e perciò stesso mistificante, non si tratta solamente di uno slittamento ermeneutico, ma di una operazione culturale ben precisa.

La messa in evidenza di questo tema lascia emergere il “cattivo pregiudizio”, in senso gadameriano, che il paradigma ermeneutico della filosofia italiana ha come suo dato di fatto. Del resto è questo un fenomeno che caratterizza tutta l’età contemporanea e che, in Italia, trova in Gramsci e nella politica della secolarizzazione del dopoguerra, appunto con l’operazione Gramsci, voluta da Togliatti, la sua più piena teorizzazione e realizzazione: la lotta per l’egemonia culturale. Il senso della storia della filosofia, senso voluto e nietzscheanamente o gramscianamente imposto, il che è lo stesso, consiste proprio in questo: giustificare la conquistata egemonia, attraverso un’opera di “archeologia del potere”. Ecco il senso vero della storia della filosofia oggi: essa si presenta come archeologia del potere, ovvero come quel procedimento che consiste nel ricostruire il passato in funzione della conquistata egemonia culturale, come preparatorio e giustificante dello stesso. Tutto ciò avviene se e solo se si rimane nella concezione della storia come processo necessario, mentre se si rimane nella categoria della libertà, la storia della filosofia moderna, come insegna Del Noce, presenta diversi percorsi dei quali non tutti conducono all’ateismo. Il compito dell’intellettuale cattolico, e pensatore nella fede, credo consista proprio in questo: percorrere la modernità nell’orizzonte della fede e del dialogo senza smarrire la propria identità e la propria storia, né declinandola per comodità di facili e quietistici laisser vivre.



[1] E. GILSON, La filosofia nel Medioevo, Sansoni, Firenze, 2004, 603.

[2] A. MAC INTYRE, Enciclopedia Genealogia e Tradizione, Massimo, Milano, 1993, 161.

[3] Cf.   PLATONE, Il Fedone, op cit. 96 A – 102 A, BUR, Milano, 2007, 293 – 353.

[4] A. DEL NOCE, Il problema dell’ateismo, Il Mulino, Bologna, 1990, 356 .

[5] Cf. Hans Jonas, Il Principio Responsabilità, Torino, EINAUDI, 1979, 179 – 287.

[6] Il Cf. H. JONAS, Il Principio Responsabilità, op. cit. 199 – 209.

[7] A. DEL NOCE, Il problema dell’ateismo, op. cit. p. 348.

[8] H. JONAS, Il Principio Responsabilità, Einaudi, Torino, 1990, 198. Rimando al paziente lettura lo studio di questi passi jonasiani veramente profetici e chiarificatori dello spirito del marxismo, soprattutto la sezione cha ha per titolo Il marxismo in quanto esecutore dell’ideale baconiano, 182 183, Il marxismo e l’industrializzazione 183 185, Il culto della tecnica del marxismo 197 – 199 e la sezione V su L’utopia dell’uomo autentico 200 - 222.

[9] ARISTOTELE, Metafisica, E 1, 1026a 27 – 29, Milano, Bompiani, 2000, 273.

[10]Cf. R. STARK,La vittoria della ragione, come il Cristianesimo ha prodotto libertà, progresso e ricchezza, Torino, Lindau, 2006, 94 - 96.

[11] F. NIETZSCHE, La Gaia Scienza, Adelphi, Milano, 1973, Af. n° 340.

[12] F. NIETZSCHE, La Gaia Scienza, op. cit. Af. n° 135.

[13] Cf. A. MACINTYRE, Enciclopedia Genealogia e Tradizione, op. cit.63 – 95.

[14] F. NIETZSCHE, La Gaia Scienza, op. cit. Af. n° 135.

[15] Cf. F. NIETZSCHE, La Filosofia nell’età tragica dei greci, NCE, Roma, 1988, 49 -53.

[16] Cf. M. HEIDEGGER, Holzwege, Sentieri Interrotti, La Nuova Italia, Firenze, 1984, 299 – 348.

[17] Cf. A. DEL NOCE, Il problema dell’ateismo, op. cit. 348. Qui, infatti si legge: «Della filosofia classica tedesca, con le due forme assolutamente  opposte e inconciliabili di Marx e Nietzsche». Cit. 348.

[18] E. HUSSERL, La Crisi delle scienze europee, Il Saggiatore, Milano, 2002, 357.

[19] Cf. A. DEL NOCE, Il problema dell’ateismo, op. cit.  335 -375.

19 bis, A. DEL NOCE,  Verità e ragione nella storia, Antologia di scritti, Bompiani, Milano 2010, 328.

[20] I. KANT, Critica della Ragion Pura, Laterza, Roma – Bari, 1985.

[21] I. KANT, Critica della Ragion Pura, op cit. 65, ed. Laterza, Mathieu.

[22] I. KANT, Critica della Ragion Pura, Adelphi, Milano, 1976. XV,  edizione Adelphi, Colli.

[23] I. KANT, Critica della Ragion Pura, op. cit. XVI,  edizione Adelphi, Colli.

[24] Cf. I. KANT, Critica della Ragion Pura, op. cit. XVII,  edizione Adelphi, Colli.

[25] Cf. C. FABRO, Introduzione all’ateismo moderno, Studium, Roma, 1964, 341 – 342, dove  si legge: «Si può allora sostenere con ragione che proprio il dualismo metafisico di Cartesio fra res cogitans e res extensa fu il primo passo decisivo verso il naturalismo come materialismo ateo e verso l’idealismo come antropologismo ateo».

[26] Cf. H. JONAS, Organismo e libertà, Einaudi, Torino, 1999, Dio è un matematico?, 103 - 106 .

[27] C. FABRO, Introduzione all’ateismo moderno, op. cit. 341.

[28] H. JONAS, Organismo e libertà, op. cit. 103.