LA MISSIONE DEL POETA

Quale compito ha da assumere la poesia in questa epoca? Quale il suo destino e la sua missione? Finora, mi sembra, che in genere la poesia italiana e non solo, si sia limitata ad una descrizione disincantata e fenomenologica - nel migliore dei casi - del reale, rinunciando così alla sua più antica e vera missione: quella, appunto, profetica. Se teniamo a mente la poesia di Dante, il più alto esempio di poesia in volgare, ci accorgiamo che essa, nella Divina Commedia, giunge proprio a questo altissimo livello. Raramente la poesia in lingua italiana ha conservato questo suo peculiare aspetto, che nella sua giovane età aveva così felicemente manifestato. I tempi moderni, caratterizzati dal fenomeno della secolarizzazione, iniziato nel XV secolo con il rifiuto dello status naturae lapsae, e con la conseguente riduzione di questa dimensione decaduta a condizione naturale dell’uomo, hanno visto la scomparsa di questo aspetto fondamentale dalla poesia. È iniziato così quel lungo percorso che, dalle lodi per Laura, passando per il Secretum, fino al “meriggiare pallido e assorto” e a “spesso il male di vivere”, ha condotto la poesia italiana alla mera descrizione del reale, della sola sfera dell’immanenza, e della trascendenza orizzontale. Questi sono, indubbiamente, gli effetti sia del rifiuto della “Seconda navigazione”, di cui Platone parlava nel Fedone sia della Metafisica di Aristotele, con la conseguente trasformazione della filosofia seconda, ovvero della fisica, a filosofia prima, ovvero a Metafisica. Ciò ha comportato che le questioni essenziali, quelle che riguardano le questioni ultime e il senso stesso della vita, siano state allontanate dal campo delle scienze e ricondotte ad uno spazio altro dalla realtà, ad un mondo parallelo di emozioni, sentimenti e fantasia, ma del tutto privo di ragione. Questo processo di allontanamento ed esilio trova il suo punto più alto nella Critica del Giudizio di Kant e poi in Hegel. Sono stati Husserl, con la Crisi delle scienze europee e Gadamer con Verità e metodo ad evidenziare questo processo, sia pure per scopi legati alle loro ricerche puramente filosofiche. Le conquiste di questi due grandi filosofi del Novecento possono dare un grande contributo alla rinascita della dimensione profetica della poesia.  Ecco che si prefigura un nuovo grande compito per il poeta, un nuovo e allo stesso tempo antico orizzonte si staglia dinanzi al suo sguardo, ora definitivamente libero dalle illusioni del nichilismo. Ecco giungere il tempo della rivincita di Socrate su Nietzsche, di Orfeo sulle forze dell’Ade, di Apollo su Dioniso. Il Minotauro dell’immanentismo può esser nuovamente vinto da un Dedalo o, meglio ancora, da un novello Teseo che faccia di nuovo scorgere l’orizzonte dell’eternità ai mortali attraverso le immortali parole della poesia. La poesia ha a che fare con la scienza; la poesia è scienza, nel significato più alto del termine, che essa ancora conservava con Dante.

E visto che è stato più volte citato il sommo Poeta, qualche breve riflessione riguardo a lui va fatta. Questi conserva un posto di preminenza nella poesia italiana da nessun altro poeta mai raggiunto, quasi che, al sorgere stesso della poesia nel volgare italiano, si stagliasse alla sua origine, come monito severo, indicando ad essa la sua vera natura e il suo destino. Infatti, il fastidio che Dante, e in generale la sua poesia, provoca sia negli intellettuali illuministi e giacobini, secolarizzati e decadenti, dalle più alte sfere degli intellettuali di regime dell’egemonia culturale, docenti universitari, intellettuali organici di area, sino ai minuscoli professori di lettere dei licei, testimonia la sua grandezza. Tutt’al più, costoro, quando proprio non possono non tenerne conto o lo ridimensionano o lo storicizzano, utilizzando il concetto di modernità in modo assiologico. Costoro, sono talmente vincolati al loro paradigma e ai loro pre-giudizi che non si rendono conto di quanto siano miopi le loro analisi.  Ma Dante li sovrasta tutti con la sua poesia e la sua poetica, come un gigante nel paese di Lilliput.

Ma torniamo a noi, torniamo alla missione del poeta, sebbene questo excursus non sia per niente emarginale e veniamo al concetto di profezia. In che senso, dunque, deve essere intesa questa dimensione profetica della poesia? Qui profezia non è da intendersi come vaticinio o visione del futuro, sebbene questa dimensione inerisca profondamente al compito del poeta; qui profezia va intesa come lettura del presente alla luce dell’eternità, come esistenza e storia alla luce della parola di Dio. In questo senso la poesia italiana è collegata non solo alla filosofia ma anche alla teologia, alla Tradizione della Chiesa cattolica, dai santi Padri fino al Magistero. Ma qui si deve parlare di una teologia cattolica cristocentrica piuttosto che dipendente dalla cosiddetta “svolta antropologica”, Ireneo di Lione piuttosto che Karl Rahner, del quale Cornelio Fabro ha recentemente evidenziato tutti i limiti e la sua dipendenza da Heidegger, per il quale vale sempre il motto di Edith Stein che lo definiva “la cattiva coscienza del pensiero filosofico”.  Mi si dirà che così facendo non riconosco il Vaticano II? Non sia mai detto, poiché il Concilio non è Rahner né Rahner è il Concilio. Molti altri sono stati con lui i padri conciliari tra i quali lo stesso Ratzinger, cui ci sentiamo vicini per prossimità di pensiero, sia pur preferendo S. Tommaso ai suoi maestri.

La poesia, dunque, non può essere intesa come la Musa delle emozioni e dei soli sentimenti; la poesia accoglie le istanze della ragione, divenendo il luogo in cui l’uomo ritrova la sua umanità cristificata. Perciò il Canto della poesia è oggi un controcanto, un dire irriverente rispetto al dogma laicista imperante. Tutto questo fa del poeta un combattente della, e per la, verità, un suo servitore, così come lo furono i poeti e i profeti biblici. Nel silenzio assordante e monotono di questa cultura dell’immanenza e del transeunte imperante, la poesia non può che prendere a calci Nietzsche ogni qualvolta lo incontri. All’aforisma nietzschiano del “Socrate morente” va opposito lo scenario desolante e deludente che si presentò agli amici e parenti di Nietzsche quando giunsero a Torino a prelevarlo, ormai demente e completamente istupidito dalla sua follia, vera e propria prova del nove e degna conclusione della sua filosofia. Al Nietzsche rimbambito – fatto su cui troppo spesso si è sorvolati e su cui la filosofia non si è ancora a fondo interrogata – in preda alla sua follia, il Socrate morente appare il vero eroe, l’uomo che dalla roccia della sua dialettica, come Mosè sulla cima del Pisga, ha guardato la terra della Metafisica, che dopo di lui Platone, novello Giosuè, avrebbe varcato, indicando all’umanità la terra promessa della seconda navigazione. Aristotele e Tommaso ne furono i veri conquistatori, coloro che gettarono le fondamenta della Filosofia, sulle cui basi ha da risorgere la poesia. Questo non significa però che il poeta e con lui la poesia, vengano ridotti e meri trascrittori di concetti; la poesia non è filosofia in senso stretto né teologia, poiché diverso è il suo timbro e il suo discorso. La poesia ha il suo linguaggio specifico, ma non c’è poeta, che in quanto uomo, non sia anche pensatore, il che sta a significare che il poeta, poetando, accede comunque all’ambito del pensiero, attinge indubbiamente i suoi versi  da quella stessa fonte, in breve: non c’è  poesia senza poetologia; non c’è poesia che non attinga ad un universo inespresso di concetti. Il poeta non vive al di fuori del suo tempo, ma è chiamato a prendere posizione rispetto ad esso; anzi, egli è la coscienza della propria generazione. Ma non vi è tempo che non debba misurarsi e prendere posizione rispetto all’eternità e all’Eterno, manche quando la ritenga inutile ed ininfluente o, peggio ancora, quando lavori contro di essa.

Per quanto riguarda il linguaggio, preferiamo un ritorno all’endecasillabo e alla rima, sebbene sia prevalso, nella poesia italiana del secondo Novecento, il verso libero, spesso tendente alla prosa e, sulla scorta di T.S. Eliot e Montale, il correlativo oggettivo, riteniamo che un ritorno alla misura e la metro esalti la dimensione musicale del verso, favorendo l’esercizio della memoria, da troppo tempo surclassato e abbandonato. La musicalità del verso riflette l’ordine e conferisce ordine. Ed è proprio di un ritorno all’ordine e alla misura che ha bisogno la poesia italiana. Esistono già, nella nostra poesia, sostanziosi esempi di ritorno alla misura, al verso e alla rima, ma sono tutti privi di quell’afflato profetico di cui si è parlato sopra. Noi, dunque, ci troviamo dinanzi ad un nuovo inizio, ed è proprio questo che il poeta deve tenere presente, ma perché questo accada è necessaria una vera e propria periagoghè, una conversione ad “U” che, dal mito della rivoluzione gnostica, illuminista e giacobina, passi alla Controrivoluzione sanfedista. In questo senso, la missione del poeta è altamente “politica”, nel senso che Platone diede a questo termine quando definì Socrate l’unico vero politico di Atene. Ciò sta a significare che la poesia non può né deve declinare la sua alta missione “civile”, ma sempre alla luce dell’eternità, dinanzi alla quale ogni epoca storica va misurata. Se allora facciamo nostro il motto con cui MacIntyre conclude il suo Dopo la virtù: “Stiamo aspettando: non Godot, ma un altro San Benedetto, senza dubbio molto diverso”, possiamo felicemente concludere che il Poeta è questo nuovo San Benedetto, il quale ha la missione e il compito di forgiare nuovamente la lingua e con essa aprire i cancelli di un nuovo mondo. La poesia è il mantello con cui Elia separò il Giordano della confusione e del caos per dirigersi verso l’Horeb, dove il sussurro di Dio gli avrebbe rivelato la pedagogia dell’Altissimo.  Compito immane e poderoso è quello che spetta al poeta in lingua italiana, oserei dire unico nel suo genere, come unico è il destino e la missione della lingua italiana, quel volgare con cui le genti italiche oggi si esprimono, quando volendo superare i loro limiti regionali, comunicano tra loro, una lingua che nel tempo è cresciuta e che ben si presta allo scopo.  Ma la poesia, così concepita, è ancora in grado di sostenere il verso? E più ancora: chi è in grado oggi di cogliere e seguire un simile discorso, qualora si sia trovata la formula esatta per esprimerlo? Oramai, da tempo immemore, prevale il genere del romanzo che ha praticamente sostituito la poesia, ed è questo il genere che meglio si addice alla en sensibilità e alla cultura dei moderni. Ma la poesia è ad un livello superiore e non è detto che non si possa di nuovo concepire un poema in versi in grado di realizzare questo compito e, allo stesso tempo, trovare il favore del pubblico.

Il Poeta, dunque, descrive o, meglio, traccia un nuovo sentiero che riconduce al mondo e non alle sperdute radure dell’essere. Egli, attraverso il canto, come Ofreo, ci riporta dall’Ade ma, a differenza di Orfeo, non deve voltarsi a contemplare la sua opera prima che questa sia conclusa, se vuole che non si trasformi o, peggio, rimanga ombra. Non ha nessun compito redentivo, in quanto la poesia non redime, nemmeno lo stesso Poeta; eppure, riconducendo la sua generazione al mondo, svolge la stessa funzione profetica di Giona. Così, la poesia non ci porta in altri mondi, alternativi a questo, semplicemente ci permette di leggere questo stesso nostro mondo in modo nuovo e, quindi, ci impone delle scelte rispetto ad esso: ecco la sua profonda valenza etica e civile, politica, nel senso platonico del termine. Da questo punto di vista il poeta somiglia a Socrate e la sua poesia alla dialettica socratica del domandare, dello spingere il lettore e l’uditore a porsi delle domande e a rispondere ad esse con le sue scelte, cioè con la sua stessa vita.

Profetico, qui sta per “pro-effatà” ovvero, nell’aprire gli occhi, nel far vedere di nuovo le cose nel loro primigenio incanto di creature. Il modello perfetto è, perciò, il Cantico delle creature di S. Francesco d’Assisi. Ricondotte al loro incanto originario, le cose, attraverso la parola poetica, vengono illuminate nuovamente e, come le cose, senza la luce, non hanno colore, così, attraverso la poesia il mondo riceve nuovamente la luce di Dio. In questo senso va letta quella affermazione platonica, contenuta nel Fedro, secondo cui “poeta è chiunque chiama le cose dal non-essere all’essere”, la luce dell’essere intesa come parola. Parola e luce sono legate tra loro fin dagli esordi della creazione. La Bibbia, infatti, già nel primo capitolo, le collega tra loro, quando lo scrittore sacro ispirato  dice: “E Dio disse: sia la luce e la luce fu!”. È il primo atto costitutivo di Dio, che nel tempo stesso creato, collegava la Sua incerata parola alla luce creata e, creando creava il tempo e nel tempo. Perciò, alla poesia è richiesta la fedeltà al suo tempo storico, inteso come Kronos, ed è sempre per mezzo della parola poetica che il tempo-Kronos diventa Kairòs, tempo etico della scelta e della responsabilità.  Come si può allora affermare, come fanno certuni, che la poesia è puro sentimento e semplice emozione? Proprio l’atteggiamento di costoro ha condotto la poesia al chiacchiericcio in cui si è impantanata. E come si può affermare che la poesia non ha nulla a che fare con la fede? Proprio questo atteggiamento ha condotto la poesia al mutismo profetico. Ben a ragione Reiner Maria Rilke li rimprovera dicendo: “Maledizione dei poeti che piangono anziché dire…”. Poesia, filosofia e teologia formano, dunque, un tripode, sono inscindibilmente legate tra loro, sono le tre grazie di cui parla da sempre la letteratura Occidentale.

Ma c’è ancora un altro aspetto che non va dimenticato  affinché si possa comprendere a fondo la missione del poeta. Se finora, infatti, abbiamo parlato di parola e suono, dunque di parola – luce e musicalità della parola e del verso, non può essere dimenticata la dimensione plastica e, quindi, pittorica della parola poetica. Ed ecco che subito emerge un altro profondo legame: quello tra poesia e pittura e quello tra poeta e pittore. Prima si era parlato appunto di suono – parola e musica, quindi del legame tra il poeta – cantore e la musica; ora si deve parlare del rapporto parola – immagine, parola come evocazione e come plasmatrice di immagini, peraltro già anticipato da Platone nel detto appena citato dal Fedro. In questo senso, il poeta è anche pittore e, come il pittore nel dipingere e ritrarre non copia ma ricrea, così il poeta plasma nuovamente la realtà. Vale qui il concetto aristotelico di “mimesis”, intesa non tanto come copia ma, come suggeriva proprio Aristotele, quanto capacità di cogliere un ordine intrinseco alle cose non ancora manifestato. In questo senso il poeta è, in quanto artista, un novello Adamo; dinanzi ai suoi occhi le cose si manifestano come nel settimo giorno della creazione al primo uomo, cioè completamente diverso da come vengono colte usualmente. A questa nudità primigenia il poeta dona la parola, non crea ma riconduce le cose alla loro giusta dimensione, attraverso la parola poetica che è luce, colore, suono e melodia, ovvero “melos”.

Questa capacità rivelativa, evocativa, cioè profetica, non può essere separata dalla dimensione teologica. Alla dimensione di fede, di logos, che si apre al Theos, spetta il compito di illuminare la luce della creazione poetica. Si capisce subito quale sia la missione del poeta e quanto ci si debba attendere dalla sua parola illuminata. Ve detto che quando si parla di Logos non bisogna cadere nell’errore di concepire la ragione – logos come pura e semplice “ratio calcolante”; non bisogna cioè cadere nell’errore dell’obiettivismo moderno che riconduce il logos a semplice calcolo e misura. Questo errore, iniziatosi con Galileo e proseguito con Cartesio e la filosofia moderna, riconducendo la realtà conoscibile a quella sola matematizzabile, ai cosiddetti matemata, ovvero, ponendo l’uguaglianza tra vero e calcolabile matematicamente, ha generato il terribile dualismo “pensiero – materia”, dualismo che domina interamente la modernità e che ha escluso le arti dal campo della verità. Di questo errore è pregna la cultura contemporanea, la quale ritiene che solo le scienze abbiano la parola veritativa. In realtà, le scienze sono solo ipotetiche e predittive e nulla sanno della verità dell’ente, molto, perciò, può e deve dire la poesia. Essa, infatti, assunte le conoscenze teologiche e filosofiche, in virtù del suo stesso statuto ontologico, riempie il vuoto prodotto dal dualismo dell’obiettivismo moderno, appunto colmandolo di luce con la sua parola.

L’aridità del nostro tempo può essere vinta dalla titanica missione del poeta. L’orizzonte del mito, cui egli attinge, non è privo di logos ma è pregno di esso; non è quindi vero che la parola poetica e la filosofa a – logica, come vogliono alcuni filosofi del Novecento, sono più prossimi all’essere perché meta – razionali; vero è, invece, che proprio perché attinge al logos, a questa ragione che non è più la ratio dell’obiettivismo moderno, la poesia è in grado di illuminare nuovamente le cose e i nostri bui tempi. In questo senso, dunque, la poesia è profondamente filosofica; è quella musica di cui parlava Socrate nel Fedone.

È nella spietata registrazione della realtà che il poeta, paradossalmente, deve rivelare la sua missione profetica, poiché vi è modo e modo di manifestarla nel verso. Se il fondo da cui emerge la parola, infatti, è esso stesso privo della virtù teologica della speranza e, dunque, nemmeno il poeta vi riesce più a vedere dentro e oltre, la sua poesia ne risentirà e il suo verso trasmetterà sconforto, disillusione e morte. Se, invece, questi avrà attinto alla luce del Vangelo, la sua parola, anche se spietata nei confronti del reale, non smetterà di trasmettere verità e luce, anche quando quelle verità sono sottese al verso stesso. Certo, l’altra poesia sarà comunque sempre poesia e in molti casi, eccellente poesia, ma in essa mancherà proprio quell’elemento centrale di cui finora si è parlato. Sarà, insomma, sempre poesia novecentesca che si protrae come ombra sul nuovo secolo, impedendo alla poesia nuova di crescere e di svilupparsi.