Aut Persona aut nihil: su Edith Stein*
*Articolo pubblicato sulla Rivista Quaerite, Anno II, n°1, Caserta, settembre 2011.
Introduzione
L’antropologia filosofica di Edith Stein presenta due vantaggi: 1) espone con chiarezza, e in un linguaggio formatosi in una delle più importanti correnti della filosofia moderna - la fenomenologia trascendentale -, la visione perenne della persona umana così come ce l’ha trasmessa la Tradizione; inoltre, recependo tutte le sollecitazioni della filosofia cristiana di matrice tomista; 2) in più, si presenta come estremamente valida per smontare tutte quelle antropologie dell’immanenza che riducono la persona umana o ai rapporti economici o al nulla. Per questi motivi una presentazione della sua antropologia, sia pure in maniera riassuntiva, è estremamente importante in questo scorcio di secolo in cui l’attacco al cristianesimo avviene, diciamo così, dal fuoco “amico”, cioè da quelle filosofie che si presentano come dialoganti con esso ma che invece tentano di introdurre nel cristianesimo stesso elementi incompatibili con esso che sono appunto sempre di matrice o materialistico - dialettica o nichilista.
Quella heideggeriana è una di queste tentazioni. La moda heideggeriana, infatti, imperversa nei nostri Atenei e nelle nostre scuole, il suo pensiero viene ritenuto essere la panacea degli errori del nostro tempo, il modello dei modelli, il punto di incontro di una impossibile, quanto vana, sofistica acrobazia di conciliazione del Cristianesimo con la modernità, e quindi di superamento della crisi secolare di valori che affronta l’Occidente da diversi secoli oramai, senza tener minimamente conto degli esiti irreligiosi insiti in questa stessa filosofia. Il secondo Novecento è stato, infatti, per lo più permeato dal pensiero di questo nichilista il cui unico scopo altro non è stato che quello di riportare il pensiero Occidentale agli albori presocratici, spacciando il balbettio di quei proto-filosofi, come lo definì Aristotele nel libro Alpha della sua Metafisica[1]per la vera visione dell’essere, non contaminata dall’oblio dell’essere, come invece Heidegger ritiene sia accaduto, e come egli stesso affermava nella sua Einfhǘrung in die Metaphysik[2], e perciò non corrotta dal riduzione dell’essere all’ente.
A seguito di ciò, e sull’onda di questo mito dei miti nel vano, quanto errato ed inutile, sogno della de-ellenizzazione della teologia cattolica si è invocata e tuttora si invoca la filosofia heideggeriana dell’essere[3] come novello “quadrifarmaco” contro la metafisica; metafisica per troppe volte data per spacciata, tanto che verrebbe voglia di ripetere con Nicolàs Gòmez Dàvila: «La Metafisica è stata seppellita talmente tante volte che vien fatto di giudicarla immortale»[4]. Contro la metafisica, dicevamo, platonico – aristotelica – agostiniana – tomista, ritenendo essere i presocratici i veri conoscitori di un essere che si annuncia come physis e che poco o nulla ha a che vedere con i tà physikà di Aristotele[5]. Va da sé che questa ultima maschera del nichilismo trova molti proseliti e propugnatori nelle nostre scuole, forse perché ritraduce con nuovo linguaggio, la filosofia dell’età della tecnica nella sua inequivocabile liquidità prospettica, priva di ogni tèlos e di ogni senso che non venga ridato ogni volta dall’interno stesso del labirinto.
Il presente scritto ha, dunque, come obiettivo dichiarato quello di mostrare l’incompatibilità della ontologia heideggeriana con il cristianesimo e, perciò, il rischio che ne deriva per ogni teologia che velatamente o dichiaratamente voglia rifarsi al pensatore tedesco, penso per esempio alla teologia della demitizzazione di Bultmann, alle teologie della morte di Dio o della secolarizzazione. A tale scopo si dovrà enucleare l’antropologia insita nella sua ontologia, rivelarne la matrice profondamente “gnostica” e dunque anticristiana e denunciarne l’inconciliabilità con il Kerigma cristiano. Per meglio raggiungere questo obiettivo riteniamo necessario partire dall’analisi dell’antropologia di Edith Stein che proprio perché, come Heidegger, proveniente dalla scuola husserliana può, meglio di ogni altra, evidenziare proprio il rischio presente nello sviluppo heideggeriano della fenomenologia trascendentale. L’articolo sarà dunque diviso in due sezioni: nella prima parte si cercherà di esporre in maniera sintetica l’antropologia cristiana della Stein, nella seconda, invece, si evidenzierà la matrice gnostica del pensiero heideggeriano e quindi la sua incompatibilità con il cristianesimo.
2.1 La struttura della persona umana
2.1a Presupposti husserliani e agostiniano - tomisti alle tesi della Stein
Quali sono i presupposti della sua antropologia filosofica? Indubbiamente provengono dalla sua adesione alla scuola husserliana, ma soprattutto nell’aver saputo coniugare – nella continuità – questi insegnamenti con la sua adesione al tomismo, senza operare rispetto alla fenomenologia quella rottura – per certi aspetti gnostica – operata invece dall’altro illustre discepolo di Husserl: Heidegger appunto. Infatti, già Husserl, nel II volume delle Ideen, sez. III, intitolato La Costituzione del mondo spirituale[6], dedica il paragrafo 50 alla “persona come centro di un mondo circostante”. Qui scrive: «Come persona io sono quello che sono ( così some ogni altra persona è quello che è) in quanto soggetto di un mondo circostante. I concetti di Io e di mondo circostante sono inseparabilmente in un rapporto reciproco»[7]. A ogni persona inerisce un mondo circostante, è in relazione col mondo circostante, lo intenziona. Nell’apprensione il mondo si presenta come utilità, e qui emerge anche la dimensione intersoggettiva. Riguardo poi alla dimensione plurale della persona, ovvero a quella concezione secondo cui nel concetto di persona deve necessariamente essere incluso la sua apertura all’altro, al “Tu” ed al “tu” la Stein è debitrice di ciò che Husserl stesso andava formulando nel paragrafo 51 dove affronta il tema della persona nella collettività delle persone. Qui Husserl sottolinea come «nel suo mondo circostante tuttavia, il soggetto trova coscienzialmente non soltanto cose, trova anche altri soggetti; esso li vede come persone, operose nel loro mondo circostante»[8]. Più avanti Husserl sottolinea una punto estremamente importante: «Chi vede ovunque soltanto natura, natura nel senso e con gli occhi delle scienze naturali, è cieco per la sfera dello spirito, per il peculiare dominio delle scienze dello spirito. Non vede le persone, non vede gli oggetti che attingono il loro senso a operazioni personali»[9]. Quindi nell’esperienza attraverso cui comprendiamo l’esistenza dell’altro, senz’altro l’altro come soggetto personale, e definiamo comunicativo quel mondo circostante che si costituisce nell’esperienza dell’altro, nella comprensione reciproca e nell’accordo; ben prima di Heidegger, dunque, Husserl aveva concepito l’io in una relazione inscindibile col mondo da lui stesso costituito. Per inciso, va notato che il concetto di persona rimane presente nella Stein, ma scompare totalmente dalla riflessione heideggeriana.
La Stein attinge indubbiamente tale concetto anche dalla tradizione Cattolica, in modo particolare dalla lettura dell’opera di S. Agostino e da quella di S. Tommaso di cui, appena dopo la conversione, tradusse in tedesco dal latino il De Veritate. Questi rimandi sono presenti nel suo capolavoro Essere finito Essere eterno[10], proprio quando si tratta di tematizzare la dimensione religiosa della persona umana.
2.1b La struttura personale
“Che cos’è l’uomo?”, “Qual è la sua natura?”.
Domande come queste, ritenute obsolete da una certa filosofia – che si predica al plurale come “filosofie”, e che oggi si ritiene l’unica cui competa il dire filosofico, che deride e bolla come infantile ciò che non rientra nei suoi schemi, la cui antica matrice è Eraclito, mentre la moderna faccia sono il nichilismo, il relativismo, il pensiero dialettico che ha rinunciato alla sintesi, quel pensiero che rifiuta, insomma, i fondamentali della logica, quali il principio aristotelico di “Identità” e di “non-contraddizione”, le filosofie del conflitto senza posa, del mare che si oppone alla terra e al cielo, tanto per essere chiari ed inequivocabili, intelligenti pauca – domande come queste, invece, dicevamo, conservano per noi tutta la loro importanza e sono l’inizio della nostra ricerca.
Noi, dunque, ci opponiamo in modo deciso a quelle forme di pensiero che ritengono che la coscienza dell’uomo derivi dalla materia, che derivi cioè dai rapporti di produzione dati in una data società, tanto per intenderci. Per noi l’essenza precede l’esistenza, e nell’essenza non vi è nessuna situazione eraclitea di “coincidentia oppositorum”.
«Quando noi parliamo di natura dell’uomo intendiamo l’essenza dell’uomo in quanto tale e in essa è incluso il fatto che egli è persona»[11]. Questa affermazione di Edith Stein - che facciamo nostra – comporta due domande: cosa si intende quando si parla di “essenza”[12] e cosa debba intendersi per “persona”. L’essenza è il quid, il “che cos’è?”, ciò che fa si che un ente sia quell’ente e non un altro; riportato all’uomo ciò equivale a porsi la domanda: «Che cosa conviene all’essere uomo dell’uomo e in che senso si può dire che egli “porta” il suo essere uomo?»[13]. L’essere dell’uomo è corporeo e vivente, animato e spirituale, la sua essenza è spirito, il che significa che è relazione, uscire da se stesso verso se stesso e verso l’altro, e in quanto spirito è persona. Inoltre, «l’anima dell’uomo – anima che Aristotele[14] definisce come l’atto di un corpo che ha la vita in potenza – in quanto spirito si innalza sopra se stessa nella sua vita spirituale»[15]. Ma l’essere spirito dell’uomo è condizionato dall’essere spirito incarnato, intimamente legato alla materia di cui è forma, e cioè affondato nella sua struttura materiale che esso anima e forma dandole la sua forma corporea, ovvero la vita. Dunque, la persona umana porta e comprende il suo corpo e la sua stessa anima, e allo stesso tempo è portata e compresa in essi, come giustamente nota Edith Stein. In più, «l’intera vita cosciente non si identifica col mio essere, assomiglia alla superficie illuminata di un abisso oscuro, che si manifesta attraverso questa superficie»[16]. Non ci resta che penetrare in questo abisso se si vuole comprendere appieno la struttura dell’essere della persona umana. Si dice “persona umana”, perché per l’uomo si può parlare di persona in maniera analogica a partire dalla Persona per eccellenza – anzi dalle tre Persone – che è Dio; ma Persona è Dio, persona è l’essere angelico e persona è l’essere umano, e ognuno lo è in modo specifico e peculiare. Dio possiede pienamente l’essere persona nella sua UniTrinità, la creatura angelica e quella umana lo possiede in maniera finita ed imperfetta, in quanto creatura, così come possiede, del resto, l’essere in maniera analogica, possedendolo solo Dio pienamente poiché Egli è l’Essere cui nulla manca per essere ciò che è: Dio è Atto puro, esattamente come lo definisce la teologia tomista.
Nella sua vita cosciente lo spirito umano si dirige verso l’interno e verso l’esterno, laddove il dirigersi-verso della coscienza è definito dalla fenomenologia trascendentale come “intenzionalità”; per mondo esterno bisogna intendere sia tutto ciò che non appartiene all’uomo, inclusa la vita interiore d’altri, sia come solo ciò che è accessibile alla percezione esterna. Con mondo interiore non si intende solo la vita cosciente dell’io «ma ciò che non è immediatamente cosciente, e da cui sale la vita cosciente»[17]. Husserl ha definito l’esperienza di questo mondo, che si presenta alla coscienza come fenomeno, “percezione interna”; questa fa parte della mia vita, è un mio vissuto, un Erleben. Non bisogna però incorrere nell’errore di cogliere questo Io umano - soggetto dell’atto intenzionale percepente – come Io puro, «non è solo un Io spirituale, ma anche un corpo vivente»[18]. È un essere corporeo vivente, ovvero un corpo animato, un Leib e non un Körper come lo ha giustamente definito la fenomenologia husserliana e così la stessa Edith Stein sulla scorta del maestro[19]. La differenza, allora, sta tutta nel fatto che le forme viventi possiedono una forza superiore alla materia, una capacità di dare forma alla materia stessa, e in questa capacità vanno inseriti sia i processi vitali sia l’attività spirituale vera e propria, intesa in senso lato come pensiero e conoscenza. Questa «è in grado di mettere insieme una molteplicità di formazioni materiali già presenti e di trasformarle formandone un tutto che riceve l’unità formale conseguente alle continue mutazioni della materia e le perfeziona»[20]. La vita è l’essere di questo Io, e questa consiste proprio nello strutturare la materia sia nella generazione sia nella formazione di sé e sia nella trasformazione della materia costitutiva. L’anima dell’essere umano non è solo il punto di partenza e il centro di questo “dare forma”, ma è anche il luogo in cui l’ente è sbocciato verso l’interno, «in cui – cioè - la vita non è più un solo un dare forma alla materia – come negli altri viventi – ma un essere in sé; ogni anima è un mondo interiore in sé»[21], anche se strutturalmente unito al suoi corpo vivente. La vita dell’Io è il gioco dell’essere sollecitato e del rispondere, ma è anche il luogo della coscienza di sé.
È nell’anima che la vita interiore diviene cosciente; essa è un essere cosciente in cui l’Io è un occhio spirituale sveglio e aperto verso l’interno e verso l’esterno. Questo poter essere dell’anima umana ne fa anima personale e libera, il cui Io è persona, e in cui la sua libertà è libertà condizionata. Una chiarificazione va fatta: «la divisone in tre parti, in corpo, anima e spirito non deve essere intesa nel senso che l’anima dell’uomo è un terzo campo tra gli altri due, sussistente senza di essi e indipendente da essi[22]: in essa si incontrano e si mescolano la spiritualità e la sensibilità […]. L’uomo non è un animale, e neppure un angelo, è l’uno e l’altro insieme»[23].
Ma l’uomo non è pienamente e totalmente se stesso, egli ha un compito determinato dalla sua stessa libertà, quello di formare se stesso. In che senso, allora, si chiede la Stein[24], va compresa questa responsabilità che l’essere umano ha verso se stesso? Ovviamente che egli può e deve formare se stesso. Ma cosa significano questo “egli”, “ se stesso”, “potere” “dovere” e “formare”? Egli è un essere che di sé dice “io” e sappiamo che nessun animale può farlo. Quando due esseri umani si guardano, un io sta di fronte ad un altro io. E questo incontro accade a varie profondità d’essere. Lo sguardo dell’ uomo dice. Un io padrone di sé , vigile mi vede e il suo vedermi dice a me qualcosa, mi interroga. Quando ci riferiamo all’io diciamo: persona spirituale libera. Ed essere persona vuol dire proprio essere libero e spirituale, l’essere umano è una persona e questo lo differenzia da ogni altro ente naturale, dove per spiritualità si intende vigilanza ed apertura.
Non solo io sono, ma io vivo e sono consapevole del mio essere ne tutto questo accade in un atto unico. Ci si domanda, dunque, con la Stein tre cose: «1) Cos’è l’essere di cui io sono consapevole?; 2) Che cos’è l’io che è consapevole del suo essere; 3) Che cos’è quel moto dello spirito, in cui io mi trovo e in cui sono consapevole di esso in quanto mio e in quanto moto? E tutto accade in un unico atto»[25]. Va detto che la forma originaria del sapere, propria della vita spirituale è come una luce da cui la vita spirituale viene illuminata. Una prima interpretazione della spiritualità può essere sintetizzata così: essa è un sapere originario circa l’altro da sé, e ciò significa tendere al mondo che ti si pone di fronte e con cui si è in relazione.
La coscienza di sé è apertura verso l’interno quella dell’altro è apertura verso l’esterno, come abbiamo già detto, ed è libertà; la libertà ha a che fare con l’io posso. In quanto io vigile il mio sguardo penetra in un mondo di cose che non mi si impone, le cose, invece, mi invitano e, se rispondo all’invito, esse si aprono a me, se non vi rispondo il mondo rimane per me frammentario. Qualcosa nelle cose mi attrae e risveglia in me il desiderio di impossessarmene, l’essere umano però non è abbandonato, come l’animale, al gioco stimolo – risposta, egli può ostacolare ciò che appare in lui, opporre resistenza o dare assenso, in breve: è libero. Nell’essere umano,quindi, non solo si realizza una trasformazione dell’impressione in espressione o reazione; egli stesso in quanto persona è al centro e ha i comandi, o meglio può averli in quanto libero. Il termine “egli” è inteso dalla Stein nel senso della spiritualità personale. Ad essa appartiene il “potere” in quanto libertà. Dal potere nasce il “dovere”. L’io libero, che può decidere di fare o meno qualcosa, si sente chiamato nell’intimo a fare una cosa piuttosto che un’altra. Potendo percepire le esigenze e potendo assecondarle, egli è capace di porsi degli scopi e di realizzarli agendo. «Potere e dovere, volere e agire sono interiormente connessi»[26]. L’essere vivente è in un continuo processo di sviluppo, in un continuo cambiamento che presuppone un nucleo, un primum movens testimoniato dalla presenza di una forza vitale. La vita dell’essere umano consiste nel fatto che il nucleo si autodetermina, ed Edith Stein precisa che fra nucleo ed io non vi è un’identità, infatti, negli esseri umani l’io si colloca nel nucleo, ma non coincide con esso[27].
L’io personale è quello che si delinea a partire dalla corporeità, con una base di pre–datità che si può definire psichica, ma esso si configura come persona, realmente unitaria in un senso superiore, in quanto soggetto delle prese di posizione della volontà, delle azioni e del pensiero, in una parola come io libero[28]. L’io puro è lo specchio e, quindi, la via d’accesso ad una realtà corporea, psichica e spirituale, che costituisce l’io personale. Il nucleo, essendo il momento unitario dell’essere umano, ha una connotazione psichica e una spirituale, in corrispondenza con le due dimensioni fondamentali, delle quali l’essere umano stesso è costituito. La Stein[29] afferma che la vita spirituale di un individuo è determinata dalla singolarità di questo nucleo, tuttavia il nucleo è qualcosa di nuovo rispetto alla stessa vita spirituale e neppure una conoscenza completa della vita spirituale o di quella psichica sarebbe sufficiente per coglierlo nella sua interezza. Il nucleo sembra coincidere piuttosto con l’anima, perché entrambi, il nucleo della persona e l’essere dell’anima, determinato da tale nucleo, non mostrano capacità di sviluppo alcuna, mentre possono svilupparsi sia le capacità psichiche sia quelle spirituali. La distinzione tra sviluppo dell’anima e maturazione appare particolarmente significativa per comprendere il risveglio o la latenza dell’anima e i diversi livelli di profondità alla quale può vivere, la sua possibilità di essere assorbita dai vissuti periferici o di entrare nelle profondità, e qui è fortissima l’influenza che S. Teresa d’Avila ha esercitato sulla concezione dell’essere persona dell’uomo della Stein.. in modo particolare il Castello Interiore della Santa Carmelitana ha contribuito tantissimo alla definizione della stratigrafia dell’essere persona nel Commento della stessa Stein all’opera della Carmelitana scalza. Ma il rimanere alla superficie dei vissuti non è sentito come una mancanza perché l’essere umano non conosce le sue profondità personali, tale conoscenza è possibile solo se l’io scende nelle profondità. La personalità umana, osservata come un tutto, ci si presenta come un’unità di caratteristiche qualitative formata da un nucleo, da un principio formativo. Essa è costituita da anima, corpo e spirito, ma l’individualità si imprime in nodo del tutto puro, privo di qualsiasi commistione, soltanto nell’anima. Il sé è da identificarsi con le capacità corporee e psichiche dell’essere umano che sono date, ma debbono essere formate. L’io e il sé sono e non sono la stesa cosa. Sono la stessa cosa, data l’unità dell’essere umano stesso, non sono la stesa cosa perché l’unità rivela al suo interno, una complessità, che si manifesta nell’impossibilità di ridurre un elemento all’altro. La centralità dell’io è ribadita; portando a compimento l’unione semantica e sostanziale fra i risultati delle analisi fenomenologiche e i contributi del pensiero medievale, la Stein giunge alla seguente definizione: l’io è proprio quell’ente il cui essere è la vita, una vita che non è in lui sorgiva, ma che gli viene di volta in volta donata. Esso abita nel corpo e nell’anima, ed è presente in ogni punto del corpo e dell’anima (anche se dice che si concentri come punto dietro gli occhi) Questo io, che è cosciente di sé, percorre l’anima dalla superficie alla profondità e si manifesta come vivente, personale e spirituale. Con un linguaggio attinto da Tommaso, l’io diventa la forma che ha bisogno di una “materia”, di una “pienezza” e la pienezza è costituita dalle forze che sonnecchiano nella sua anima e la sua vita è l’attualizzazione delle sue forze. Nella parte interiore dell’anima si manifesta lo spirito. Qui la Stein unifica Tommaso e Agostino. In sintesi la Stein intende l’anima dell’essere umano esattamente come una forma, cioè come una struttura umana e personale. Questo significa che in ogni singolo uomo si deve necessariamente parlare di un’unica forma cui competa le molteplicità delle funzioni assunte da ogni forma più complessa, sul modello aristotelico – tomista, ed inoltre, che ogni singolo uomo è persona ed in quanto tale dotato di dignità infinita, è un essere unico ed irripetibile, immagine del Creatore. Questo è un tratto caratteristico ed unico della filosofia occidentale che ha la sua matrice nel cristianesimo, e lo si trova tanto nella filosofia di matrice cristiana quanto nella secolarizzata filosofia laica che, in quanto nata all’interno delle a civiltà cristiana, ne conserva gli assunti fondamentali. In altre civiltà, in quelle civiltà che non si sono formate dall’incontro con i cristianesimo questi concetti sono del tutto assenti.
Il discorso intorno alla specie porta la Stein a rifiutare decisamente la posizione darwiniana[30] che parla di una possibile evoluzione delle specie. Nello sviluppo dell’analisi intorno alla struttura della persona umana la Stein giunge alla definizione dell’anima individuale intesa come forma individuale dell’essere umano. «La ragione della sopravvivenza delle anime individuali […] non potrebbe esser fondata sul valore proprio della loro individualità. La possibilità di una sussistenza dell’anima senza il corpo (così come esige la fede) viene fondata da Tommaso sul fatto che l’anima è sostanza per se stessa»[31]. Qui si fonda anche la radicale differenza tra filosofia cristiana e filosofia araba nella sua forma averroista che, rimanendo troppo fedele all’aristotelismo, non riesce a concepire l’immortalità dell’anima individuale. «L’anima è allora il centro della persona umana, essa inoltre, determina ampiamente l’aspetto corporeo, ma non lo fa in maniera esclusiva; essa inizia la sua esistenza in un corpo già esistente e rimane, per tutta la durata del suo essere, sottomessa alla legalità del corpo, che in parte entra la servizio della formazione spirituale e in parte la ostacola»[32]. È indubbio che il mio corpo vivente è inserito pienamente nel mio essere persona, nella sua stessa unità. Questo è un dimorare di natura diversa dallo stare in casa propria, dalla quale si può uscire quando si vuole, è un dimorare incarnato che forma ed è formato dal corpo. E. lo ripetiamo, non è affatto un caso che la Stein trovi piena conferma delle sue analisi fenomenologiche nell’opera di S. Teresa d’Avila. «L’anima spirituale entra nell’unità della natura umana occupando un posto centrale e dominante. Essa conferisce al tutto il carattere della personalità e dell’autentica individualità e attraversa così tutti i livelli»[33]. La spiritualità dell’anima sta nel suo essere spirito inteso come intelletto, mente e spirito propriamente detto. Spirito che conosce, e dunque cultura in senso lato, spirito che giudica il suo stesso giudizio, capacità di azione dovuta al suo libero arbitrio, come aveva già notato lo Stesso S. Tommaso d’Aquino nel De Veritate[34] e apertura e capacità di Dio, tensione mistica all’unione con Dio, come ha più volte descritto la mistica carmelitana. visite in realtà una netta unione tra corpo vivente ed anima spirituale, quest’anima è dotata di una forza che è il suo essere e l a sua vita e questa forza è limitata, finita[35]. Ma l’anima umana ha anche un compito nei confronti di se stessa e della sua persona: portare a compimento il suo stesso esse, in breve formarsi.
2.1c “Io” e “Sé”
A questo punto la Stein si domanda: «che cosa significa che io devo formare me stesso? L’io e il Sé sono la stessa cosa? Sì e No. Nel sé si trova riflessività. Ma ciò che forma e ciò che viene formato non coincidono perfettamente. […] È tutta la natura animale che l’essere umano dovrebbe formare. Il risultato di tale formazione sarebbe il pieno sviluppo e la formazione in quanto persona»[36]. In che modo la natura animale assume una nuova forma nell’essere umano? Già la natura psichica ha una struttura completamente diversa, infatti, i nostri dati psichici sono sempre già inseriti in un ordine in cui rivelano qualcosa, mentre il nostro sguardo spirituale si dirige, attraverso questi, verso un mondo oggettivo, accessibile ai sensi. Inoltre, constatare le sensazioni è qualcosa di diverso dal semplice sentire, dal semplice “essere colpiti”, in più se dirigiamo lo sguardo verso le nostre sensazioni esse si trasformano per noi in stati del nostro corpo vivente. Ecco il carattere fondamentale della nostra vita psichica: l’intenzionalità, che dev’essere intesa come un dirigersi verso l’oggetto della coscienza intenzionale[37]. Il mondo cade sotto i nostri sensi e il modo in cui vi cade implica una nostra motivazione, tanto che la struttura e il corso degli atti percettivi, la struttura regolata della vita intenzionale corrispondono a quella formale del mondo degli oggetti. Percepire gli oggetti significa percepire unità oggettive formate in maniera determinata. Lo spirito, che con la sua vita intenzionale ordina il materiale sensibile in una struttura e, nel farlo, guarda dentro un mondo di oggetti, si chiama ragione o intelletto. La percezione sensibile è il primo e più basso livello, di più può riflettere, ovvero comprendere il materiale sensibile e gli atti della propria vita. Può “astrarre”, ovvero prelevare la “struttura formale delle cose”. E lo può perché è libero[38].
L’io che conosce, l’io intelligente, che legge dentro le cose, questo significa appunto intelligere, sperimenta le motivazioni che provengono dal mondo degli oggetti, le afferra e le segue usando la libera volontà. Allo stesso tempo è necessariamente un io che vuole e dalla sua situazione spirituale volontaria dipende ciò che egli conosce. Lo spirito è, insieme, ragione e volontà; conoscenza e volontà sono in rapporto di reciproca dipendenza, l’essere umano sente desiderio e repulsione di fronte a determinate cose che gli appaiono, perciò piacevoli o spiacevoli. Potere ha molti significati, anche i valori richiedono una penetrazione più profonda; io posso aderire ad essi o meno, posso farlo nell’una o nell’altra delle diverse direzioni possibili. I valori motivano non solo un avanzamento nel campo conoscitivo, né solo una determinata risposta dei sentimenti. Essi sono motivi, ancora, in un senso nuovo, esigono una determinata presa di posizione della volontà ed un’azione che le corrisponde. La struttura dell’io come tale conferisce alla vita psichica un determinato ordine e senso, che non è ancora riconducibile all’agire libero dell’uomo, cioè la forma dell’intenzionalità ed il poter essere libero di agire. Ora, l’essere psichico non si esaurisce nell’attività dell’io, abbiamo identificato, infatti, come fondamento ontologico della vita psichica attuale, l’anima stessa con le sue potenze e i suoi habitus ciò che viene attualizzato è decisivo per ciò che dalle potenze viene trasformato in habitus. L’essere umano, nella sua totalità, viene plasmato mediante la vita attuale dell’io e costituisce “materia” per la formazione attraverso l’attività dell’io. Proprio qui siamo di fronte al sé, che può e deve essere formato dall’io, ogni decisione crea una disposizione a decidere nuovamente nello stesso senso. L’essere umano con le sue capacità corporee e psichiche è il sé che io devo formare. Ma che cos’è l’io? L’abbiamo chiamato “persona spirituale”, libera, e gli atti intenzionali sono la sua vita.
Questo io libero, personale, come tale, sta al di fuori della natura corporea e psichica che deve formarlo col suo agire o appartiene ad esso, ne è la forma interiore? Il fatto che io debbo formare me stesso pare includerlo in tale unità reale. Io sono quest’essere umano; abbiamo parlato di persona umana. La personalità, la forma dell’io, appartiene alla natura umana; ora, si può determinare il posto che occupa in essa? Io non sono il mio corpo vivente, io ho e domino il mio corpo vivente. Oppure: io sono nel mio corpo vivente. Posso idealmente allontanarmene ed osservarlo dall’esterno, ma non posso individuare il punto nel corpo in cui l’io avrebbe la sua dimora. L’io non è una cellula celebrale; ha un senso spirituale che è accessibile solo nei nostri vissuti. La localizzazione vissuta dell’io non deve essere determinata fisicamente. Ora, coi si chiede: in quale rapporto l’io è con l’anima?Io sono la mia anima? Evidentemente non lo si può dire. Io sono un essere umano ed ho un corpo vivente personale ed un’anima personale. Secondo S. Tommaso l’anima umana, come quella vegetale e animale del resto, è forma corporis; essa è ciò che possiede potenze, habitus, e una vita attuale. Inoltre, essa è anima spirituale o anima razionale e, come tale, una sostanza spirituale che non è più necessariamente legata al corpo.
L’obiettivo della Stein è, dunque, quello di partire dalla vita dell’io – atteggiamento questo tipico della fenomenologia husserliana – per giungere all’anima. Per far ciò bisogna applicare l’epochè fenomenologica e chiedersi: prescindendo da tutta l’esperienza esterna, in cui gli esseri viventi si presentano come dotati di corpo e anima, se mi ritraggo in ciò che vivo interiormente, cosa significa “io” e cosa significa “anima”? L’esempio della Stein sull’esperienza della concentrazione è qui quanto ami chiarificatore. Esiste un campo visivo spirituale, ed in esso esiste un prestare attenzione fissando, e un percepire alla periferia. Il campo visivo spirituale non è parte dell’io, è qualcosa di oggettivo, che appartiene all’io, è il mondo oggettivo, nella misura in cui, ogni volta, viene abbracciato dalla coscienza. L’attenzione centrale dell’io al suo tema di percezione e la percezione periferica sono diverse modalità della coscienza. Questa contrapposizione di centro e di periferia non ha estensione, non indica alcuna spazialità dell’io. L’io è il punto da cui partono i raggi della vita intenzionale che sono poi i vissuti stessi dell’io, ricordare, credere, sentire, volere etc. Se però ci riferiamo a ciò che sta in fondo all’anima non ci basta l’io puro husserliano. Ciò a cui sono orientato mi colpisce solo in superficie. Il fondo dell’anima, in cui vive ogni preoccupazione, non viene raggiunto. Da ciò che vive nel profondo parte un impulso. Se lo assecondassi, se la tensione della mia volontà, con cui trattengo nella mente il tema a cui sto pensando, diminuisse, subito la preoccupazione si impossesserebbe di me in maniera totale. Il corso del mio pensiero si interromperebbe ed il problema presto sparirebbe totalmente dal mio campo visivo. Oppure, può accadere che un problema mentale mi prenda interiormente, mi catturi e mi riempia in maniera tale che tutto il resto scompare. A noi interessa il contrasto tra superficie e profondità. Ecco è qualcosa che riguarda me stesso, è in me stesso. Indica una spazialità interiore. “In me”, o per meglio dire, “nella mia anima”. La mia anima ha estensione e profondità, può essere riempita da qualcosa, qualcosa può penetrare in essa. In essa io sono a casa, in modo totalmente diverso da come lo sono nel mio corpo vivente. Nell’io, io non posso stare a casa. Ma anche l’io stesso, finché viene inteso come “io puro”, non può sentirsi a casa. Solo un io che ha l’anima può sentirsi a casa e, a partire da ciò, si può anche dire che si sente a casa quando è in se stesso[39]. Allora anima ed io si avvicinano totalmente tanto che non ci può essere un’anima umana senza l’io, ad essa appartiene la struttura personale; tutto significa che l’io umano deve essere anche un io che ha l’anima, non può affatto esistere senza anima. Ma gli atti che compie si caratterizzano come superficiali o profondi, hanno cioè una radice in una maggiore o minore profondità dell’anima e questo in relazione alla posizione occupata dall’io nell’anima. Infatti, a seconda degli atti in cui, di volta in volta, l’io vive, esso occupa una posizione nell’anima.
Ma esiste un punto nello spazio dell’anima in cui l’io trova il suo luogo proprio, il luogo della sua pace, questo luogo va cercato, esso è il luogo più profondo dell’anima, solo qui l’anima può raccogliersi, solo qui può abbracciare totalmente se stessa. Io devo prendere decisioni, etc. questo io personale che, allo stesso tempo, è un io animato, che appartiene a questa anima e in essa ha la sua dimora, si può dire che la sua anima? E quest’anima è una forma? L’io ha il suo luogo proprio nell’anima, ma può anche essere in altri luoghi, e ciò dipende dalla sua libertà. Ed è il luogo dove esso si trova che ha importanza per la configurazione dell’anima. Chi vive, infatti, prevalentemente o solo alla superficie, non possiede ciò che appartiene agli strati più profondi, essi sono presenti, ma non sono attualizzati, non così come potrebbero o dovrebbero. Il che significa che la persona non si possiede, nel senso di aversi in mano, non vive completamente la sua vita, anzi finché non si inoltra nel profondo, non è in grado di confrontarsi con ciò che accade in esso e che non può provare in maniera attuale non si troverà mai veramente e pienamente. “Cercare se stessa”, discendere nella propria profondità, da cui comprendersi come una totalità e possedersi nel senso di aversi in mano, è una questione di libertà. Perciò è colpa della persona se l’anima non giunge alla pienezza del suo essere e della sua forma. Ora ci chiediamo con la filosofia di Breslavia: l’anima ha il significato di una forma? Essa ha una determinata struttura essenziale a noi nota in alcuni tratti fondamentali: ha una differenza tra superficie e profondità e un processo di unificazione, muovendo da un punto situato più in profondità, che è il luogo proprio dell’io personale. Proprio perché è un io personale, la sua vita attuale ha la forma fondamentale della intenzionalità, ovvero è caratterizzata dall’essere coscienza-di e, dunque, direzione intenzionale dell’io verso l’oggetto intenzionato e, per questo, essa è distinta dalla vita meramente animale. In virtù della sua personalità, l’uomo ha la possibilità di formarsi da sé. Il modo in cui essa si presenta dipende sia dalla struttura della singola anima (poiché le anime si differenziano, per ampiezza e profondità che ad esse sono date per natura) sia per dalla libertà, da quanto si espanda e da quale profondità si riconduca a se stessa ed accolga ciò che le viene incontro. L’anima possiede, inoltre, una certa forza interiore, secondo cui si determina la pienezza e la vitalità della propria attività. La sua ampiezza, la sua profondità e la quantità della sua forza descrivono il suo modo di essere, la sua individualità. Questa conferisce una specifica impronta all’anima e a tutto ciò che da essa proviene. È questa struttura essenziale dell’anima che può essere considerata come una vera e propria forma interiore. Ciò che per mezzo di essa viene formato è la sua vita attuale, e quindi il suo carattere, che è la configurazione abituale dell’anima intesa come nesso tra attualità, potenzialità e abitualità[40].
2.1d Anima come forma e come spirito
L’anima dell’essere umano è una forma e lo è in virtù della sua struttura umana e personale e ciò deve essere inteso sia come forma corporis sia come forma formante di tutto ciò che l’uomo è in quanto essere animale. Difatti, il corpo vivente e le parti inferiori dell’anima subiscono qui una nuova formazione, assumono una nuova forma. L’unità della forma sostanziale prevede, però, la riduzione della stratigrafia umana ad una sola forma sostanziale. È ciò che la Stein si propone di dimostrare ora. Questo essere stratificato della persona umana si racchiude nel concetto di specie umana che non per questo diviene qualcosa di composto, ma conserva la sua struttura semplice, è negli uomini, cioè che si realizza una struttura stratiforme. Confrontandosi con la tradizione sorge la domanda se questa relazione “essere vivente” ed “essere umano” vada vista come una relazione tra genere e specie. La Stein ritiene che ciò sia possibile solo dal punto di vista logico, mentre dal punto di vista ontologico ciò non è possibile in quanto i due ambiti dell’essere rimandano a due idee generiche aventi lo stesso ambito d’essere. Dal punto di vista ontologico la specie va intesa come ciò che dà la forma in senso proprio, ovvero che determina la struttura e le specifiche qualità dell’individuo reale. Nell’individuo umano, per evitare di confondere la specie umana con qualcosa di universale che eliminerebbe la sua specificità ed unicità, la Stein, sulla scorta di S. Tommaso, ritiene che si debba parlare di sostanza individuale per quanto riguarda l’anima. Infatti, «l’individuo umano [...] è determinato da una forma sostanziale propria e unica che va intesa come specificazione dell’idea di genere»[41] .
Se l’anima umana va intesa come forma sostanziale ci si chiede: qual è la sua materia? Dato che l’anima umana va intesa come centro della persona e visto che il tutto che si definisce persona umana trova in essa il suo specifico centro ne consegue che la sua materia è già una materia strutturata cui essa contribuisce a dare nuova forma. Per tale materia si deve intendere l’essere umano psicofisico nella sua totalità di essere animale, umano dotato di un corpo animato. Bisogna però considerare il corpo come formato dall’anima. Bisogna considerare, infine, l’anima personale spirituale quale forma determinante l’aspetto anche corporeo, seppure non totalmente, poiché pur essendo forma, inizia la sua esistenza in un corpo già determinato, che in parte ostacola ed in parte risente della formazione propriamente spirituale. Corpo ed anima sono strettamente legati al punto che il corpo vivente è inserito nell’unità della mia persona. L’io, infatti, dimora nel corpo vivente, e questo dimorare implica un radicamento dell’io spirituale nell’anima e di questa nel corpo vivente.
È proprio questo fatto che ci induce a definire l’anima come forma del corpo, tanto che senza l’anima il corpo perde la sua vita e diventa pura materia inerte, mentre l’anima in quanto forma vivificante il corpo vive anche separata dal corpo dopo la morte. Ciò significa che «il corpo umano senza l’anima non è una sostanza e che l’essere umano nella sua interezza è una sostanza»[42]. L’anima spirituale entrando nell’unità della natura umana vi occupa un posto centrale e dominante. È l’anima che conferisce al tutto umano il suo carattere specifico, la sua unica individualità che attraversa l’intera stratigrafia dei livelli.
2.1e La persona nella sua dimensione sociale
L’altro aspetto che deve essere trattato riguarda la dimensione comunitaria dell’essere della persona umana. È questo un tema decisivo, in quanto proprio oggi ci si trova di fronte a vari tentativi di presentare questo tema in conflitto ed in contrasto con il concetto cristiano di persona, la Stein, invece, ci dimostra quanto l’uno e l’altro concetto siano non solo tra loro collegati, ma si illumino a vicenda, impedendo cadute materialistico – dialettiche al concetto di comunità. La Stein affronta questa tematica in modo approfondito proprio ne La Struttura della persona umana cui facciamo riferimento, qui nel capitolo VIII viene tematizzata proprio la dimensione sociale della persona a partire da una riflessione sul significato di sociale, poi di popolo e di comunità[43].
Il tema è ritenuto scottante dalla stessa Stein in quanto «oltre a quella puramente oggettiva, una grande rilevanza per i nostri tempi. Oggi è molto diffusa la tendenza a considerare l’essere umano come determinato esclusivamente dalla sua appartenenza ad un insieme sociale e a negare la personalità individuale. Questo ci spinge a compiere una verifica seria»[44]. La Stein, in verità in modo quasi profetico, si rende conto già all’inizio del Novecento quale sia la crisi che si prefigurerà poi: il declino dell’unità della persona sotto l’attacco del nichilismo, del relativismo e del materialismo dialettico nelle sue odierne mutate forme ma non contenuto. Solamente dopo aver fatto questa premessa è possibile comprendere appieno l’analisi della dimensione sociale della persona umana fatta dalla Stein senza cedere alla tentazione di ridurre l’essere della persona umana ai rapporti sociali di produzione
Fatta questa introduzione possiamo dire che l’esistenza isolata dell’uomo, per la filosofa di Breslavia, è un pura astrazione, la sua esistenza è esistenza nel mondo e la sua vita è in comunità[45]; difatti, per la Stein noi troviamo sempre l’essere umano già inserito all’interno di un mondo umano; il che significa che nella riflessione sulla persona – e non a caso si sceglie questo termine in ambito fenomenologico – viene abbandonata la concezione moderna dell’individuo come individuo isolato, tipica sia di un certo liberalismo individualista di matrice lockeiana sia di una concezione atomista dell’essere della persona umana che emerge profondamente dalle istanze stesse dell’Umanesimo - Rinascimento. Ciò che l’essere umano è nel mondo sociale non determina da solo, ma contribuisce a determinare la forma di tutto il suo essere psicofisico, allora la struttura della persona umana non può essere compresa se si prescinde da questo aspetto così importante. Ma la Stein, ribadiamo nuovamente il concetto a scanso di fuorvianti equivoci, critica quelle concezioni a lei contemporanee, e purtroppo non solo a lei, che miravano a comprendere la struttura della persona umana solo a partire dalla dimensione sociale, abdicando alla sua intima e profonda dimensione essenziale quale quella di essere unico ed irripetibile nella sua stessa essenza già metafisicamente data, nel suo intimo essere creatura di Dio[46]. I concetti sociali fondamentali che emergono dalle sue analisi sono: 1)Atti sociali; 2) Rapporti sociali; 3) Forme sociali, intendendo così la comunità quale forma peculiare dell’essere sociale della persona umana[47]. Le forme più importanti sono le comunità, queste sono formazioni nella cui struttura giocano un ruolo importante le persone, i loro atti sociali, i loro rapporti sociali. Se ne parla quando i rapporti sociali sono come unità all’interno delle quali le persone sono legate un noi. Allora, con il termine comunità la Stein intende una formazione duratura, caratterizzata da legami permanenti e liberi, «parlo di comunità nel senso stretto del termine – dice laddove esiste una comunità di vita permanente tra le persone, che le afferra sin nel profondo e dà loro un’impronta duratura»[48].
Una comunità non si fonda solo su rapporti passeggeri legati al presente, ma anche su legami sovra-personali, che ha una sua propria legge di formazione secondo sui si realizza e si sviluppa, al pari di una persona umana individuale. Alla base di ogni comunità esiste una comunità universale che le abbraccia tutte: l’umanità. Le comunità sorgono involontariamente o sulla base di condizioni di vita simili e di stili di vita comuni (vicinanza classe scolastica) o sulla base di un legame originario (famiglia, stirpe, popolo, ceppo) etc. Il singolo essere umano come membro della comunità incarna un tipo sociale. Ha un quid che lo accomuna agli altri membri e lo differenzia dai membri di altre comunità. E ha qualcosa di tipico[49] suo ovvero la sua posizione nella comunità di riferimento.
In questo senso il tipo ha anche il significato di qualcosa di già formato. Esistono dei tratti formatisi nel tempo che dall’interno dirigono verso scelte consimilari. Importanza dell’ambiente formativo nella determinazione del tipo. Ciò che l’essere umano diventa, nel trasformarsi in un nuovo tipo, non subentra semplicemente a ciò che era, né, tanto meno, ciò che era scompare completamente. Ciò che era viene trasformato di nuovo da ciò che ora lui riceve e dalla posizione che assume. Va considerato anche il patrimonio innato come elemento costitutivo del tipo sociale. Non va inteso come una materia prima. Lo si intende come qualcosa che accomuna l’individuo ad un ristretto gruppo di individui, alla famiglia, alla stirpe, al popolo, alla razza, e lo differenzia dagli individui al di fuori di questo gruppo. Ereditario ed innato qui significano la stesa cosa?, si domanda la filosofa di Breslavia. L’anima individuale, personale e spirituale, avuta sin dalla nascita direttamente da Dio non è ereditaria, tuttavia essa penetra nell’essere che deve la sua vita all’atto generativo, ma non è comprensibile solo a partire da esso. A fondamento di ogni formazione sociale del tipo, come patrimonio innato vi è l’essere dell’uomo inteso come qualcosa di creato individualmente e personalmente e distinto nel tipo in virtù della discendenza.
Il concetto di comunità esposto dalla Stein nella sua opera non si concilia per niente con quello spersonalizzante elaborato dal marxismo, e ciò in virtù della diversa ed inconciliabile antropologia che regge le due filosofie: personalista quella cristiana dell’allieva di Husserl e sociale quella marxista e perciò contraria alla concezione essenzialista cristiana. Inoltre, la comunità cristiana nasce da un appello che è la chiamata di Dio, è Sua, infatti, l’iniziativa; quella marxista, invece, nasce dalla dimensione sociale del lavoro e mira alla distruzione di quanto il cristianesimo afferma essere l’esenziale per l’uomo: la sua relazione personale e duale con Dio stesso.
2.1f Relazione del singolo con il popolo[50]
Il singolo nasce come membro di un popolo. È questo un altro aspetto importante trattato dalla stein che val la pena di sottolineare. Fin dalla sua nascita, infatti, la comunità di popolo lo abbraccia e, accogliendolo spiritualmente, gli dà un’impronta che corrisponde al carattere del popolo stesso. La comunità di popolo non coincide ovviamente col legame di sangue, ma lo comprende; vi è, infatti, una partecipazione ereditaria alla natura del popolo come alla famiglia, per esempio: una famiglia di emigranti che rimane legata e chiusa al popolo di origine ha una scarsa modificazione del carattere, se c’è apertura al popolo di accoglienza e alla sua cultura, invece, c’è quindi una sorta di koinè che trasforma. Esiste anche un carattere tipico di fedeltà di un popolo al proprio modo in essere in relazione all’ambiente in cui viene a trovarsi di volta in volta. Distaccarsi da un popolo di origine ed integrarsi in un nuovo popolo.
L’essere membro di un popolo è avere una relazione biunivoca col carattere del popolo stesso, in questo senso si è membri di un popolo. Tutti lo sono?, è possibile che “Tizio” non nasca da una comunità di popolo già esistente, per esempio Adamo ed Eva. Ognuno, comunque, è chiamato ad essere membro di un popolo perchè questo non abbraccia solo i viventi di volta in volta in essi, ma ha una storia che rimanda all’inizio e alla sua fine, agli antenati e agli ultimi discendenti. A questo punto va fatta una considerazione: Cristo è nato da un popolo, capo dell’intera umanità ha vissuto in questo popolo e lo ha eletto, ciò è la prova del significato ineliminabile del popolo per l’umanità. Esiste, all’interno di un popolo, qualche vita umana che non ha alcuna partecipazione cosciente alla vita del popolo per es. bambini, primitivi in genere etc. ed esiste appartenenza quando vi sono canali di comunicazione ed di influsso sulla vita del singolo. Si appartiene anche quando non si realizza nulla che ci sopravviva, ma quando si partecipa dei valori di un popolo. La Comunità è qualcosa di prezioso quanto più sono alti i suoi valori fondativi, esiste perciò una responsabilità del singolo per il suo popolo, ma esiste ancora un criterio superiore: con la coscienza dell’appartenenza ad un popolo inizia per l’individuo la responsabilità verso se stesso e verso il suo popolo, questa ha come presupposto un ordine oggettivo, in base a cui vanno giudicati il senso ed il valore della vita umana, il giudizio assoluto spetta a Colui che tutto abbraccia: Dio. Questa responsabilità individuale che si possiede rispetto al proprio popolo di appartenenza presuppone che si sappia cosa vuol dire vivere coscientemente come membro del popolo, occorre, dunque, possedere una piena maturità spirituale. Come al bambino, che comprende il noi a partire dalle relazioni familiari e con i suoi coetanei, così si comprende il “noi” a partire dalla relazione con gli altri popoli, laddove è presente la coscienza del proprio modo di essere, solo qui possiamo chiamare il popolo “Nazione”; dove, infatti, il proprio modo di essere è vissuto come valore proprio, si parla di sentimento nazionale e questo vivere non è ancora una conoscenza del valore chiara ed oggettiva.
È profondamente legato ad un popolo chi conosce il suo popolo, chi ha interiorizzato i suoi tesori; ma tutto ciò che sono dipende dal mio popolo? Nessun popolo è solamente ciò che riceve da altri popoli, ognuno è qualcosa di “unico ed irripetibile”, anche nel suo modo di assimilare elementi stranieri che possono contribuire a costituirlo.
Il popolo, dunque, per la Stein dipende nel suo più profondo essere da Dio, il che significa riconoscere che un popolo non è affatto un’associazione che nasce per la volontà individuale, ma deve la sua esistenza ad un’unica idea. Ciò che l’essere umano è lo deve solo a Dio. Tutto ciò che la comunità terrena è lo deve indirettamente a Dio, l’essere umano deve a Dio tutto ciò che è grazie a Dio è inserito nelle comunità in cui si trova e Dio stabilisce la misura degli obblighi che ha verso di esse. La responsabilità propria della persona umana rimanda a Dio. La responsabilità che ho rispetto agli altri e rispetto al popolo rimanda al giudizio di Dio e alla mia coscienza, al profondo di essa, all’intimo della mia anima, dell’io indivisibile, conferma Edith Stein[51].
Per inciso, tutto questo discorso della Stein ripropone fortemente la questione della “sovranità”, tema che non può essere svolto in questo contesto, ma che ci riproponiamo di sviluppare in un altro scritto.
2.1g passaggio alla considerazione teologica
Questo discorso rimanda alla dimensione puramente religiosa per cui la considerazione filosofica necessita di un approfondimento teologico. C’è una evidenza ontologica della dipendenza del finito dall’infinito, non intesi come categorie filosofiche ma metafisiche. L'analisi ontologica ha messo in gioco questioni che rimandano all’essere finito ed infinito, ovvero alla analogia entis.
Esistono domande che non trovano risposta né con l’aiuto dell’esperienza, della scienza, né con l’aiuto dell’evidenza filosofica. L’essere umano è in un continuo sviluppo che ha un telos Necessita il rimando, per le questioni irresolubili, ad uno spirito che ci sovrasta, a Dio, Esistono delle verità rivelate sull’essere umano che il pensiero umano no può cogliere da sol, ma che riceve per rivelazione da Dio, queste verità sono indispensabili anche per l’azione educativa. In modo particolare le verità eucaristiche possiedono un irrinunciabile valore pedagogico da cui non si può prescindere se si vuole comprendere appieno l’essere dell’uomo: Sacrifico della croce, sacrificio della messa e salvezza personale. In effetti l’evento eucaristico è un vero evento pedagogico, anzi è l’atto pedagogico essenziale in cui si evidenzia e si realizza la collaborazione tra Dio e l’uomo il cui risultato è il conseguimento della vita eterna. La sua rilevanza pedagogica sta nel fatto che esso pone l’educatore dinanzi al compito di condurre l’allievo ad essere persona partendo dal fatto che è persona.
3. Il confronto con lo gnosticismo antropologico di Martin Heidegger
3.1 Lo smascheramento ad opera di Hans Jonas dell’esistenzialismo gnostico di Heidegger
In un interessante articolo, contenuto in Organismo e libertà[52], Hans Jonas affronta un problema che riteniamo essere di capitale importanza per la comprensione della perdita del senso del concetto di persona nell’antropologia contemporanea. Facendo i conti con il pensiero di Heidegger, il filosofo che più di ogni altro ha influenzato il panorama filosofico europeo, e non solo, dal II dopoguerra ad oggi, ne evidenzia la matrice gnostica, di quello gnosticismo che del Noce ha definito “antropologico” per distinguerlo dal vecchio gnosticismo di tipo cosmologico. Il capitolo in questione si intitola – ed è un titolo decisamente emblematico – Esistenzialismo e nichilismo. La tesi centrale che Jonas sostiene è che la filosofia dell’esistenza (e checché ne dica Heidegger la sua è una filosofia dell’esistenza, in quanto pur ponendosi come una ontologia dell’essere avendo cancellato in partenza la differenza ontologica e a vendo ridotto l’essere all’essere dell’EsserCi la sua ricerca non può concludersi che in una filosofia nichilista) non è che una forma di gnosticismo.
La sua critica si basa su di una sua profonda conoscenza sia del pensiero gnostico sia di quello heideggeriano di cui lo stesso Jonas fu allievo. Non nel senso che la filosofia di Heidegger ne sia una pedissequa rielaborazione, ma che tra le due filosofie esistono degli elementi fondamentali riscontrabili in entrambe, tanto che da far avanzare a Jonas la suddetta tesi. Il saggio del filosofo ebreo tedesco, da noi citato, potrebbe sembrare un mero esercizio accademico, una serie di chiose jonasiane intorno al suo maestro da cui qui prende definitivamente le distanze. Anche perché oggi la filosofia heideggeriana sembra, e dico sembra, avere poco seguito nel panorama culturale italiano, mentre invece si trova a fondamento del pensiero di molti autori italiani. Invece, siamo convinti che un confronto con gli esiti della Wirkungsgeschicthe heideggeriana vada fatto, soprattutto in virtù del profondo legame di questi con Nietzsche. Del resto, solo prendendo le distanze da Heidegger, alla luce soprattutto delle critiche mossegli dalla Stein, si può oggi riproporre in modo costruttivo la questione dell’essere. A tale scopo sarà utilissimo analizzare proprio le critiche di Edith Stein ad Essere e tempo contenute in un arguto saggio che doveva concludere, insieme al commento del Castello Interiore di S. Teresa d’Avila, in qualità di Appendice, il suo magistrale Essere finito e Essere Eterno.
Aveva pienamente ragione Ethienne Gilson quando diceva in L’ateismo difficile[53]: «proprio perché l’esistenza di Dio mi pare spontaneamente certa, sono curioso delle ragioni che altri possono avere per dire che Dio non esiste. Per me è la non – esistenza di Dio che è un problema»[54]. Ci pare che la filosofia di Heidegger, ponendosi come critica della metafisica, impedisca nel nostro tempo una corretta formulazione della questione dell’essere, e ciò in modo particolare perché il filosofo di Marburgo non tematizza affatto l’analogia entis di cui parla S. Tommaso. In più, esiste una sorta di distorsione ermeneutica che caratterizza l’industria culturale e le politiche didattico – editoriali del nostro tempo. Per fare solo qualche esempio, ci sia concessa la breve ma importante digressione, come mai, ci domandiamo, quando viene trattato, mi riferisco ai manuali scolastici, il pensiero per esempio di Karl Popper ci si limita al solo pensiero scientifico, mentre nulla si dice del suo pensiero politico? E come mai, sempre negli stessi manuali, si dà molto spazio ad Heidegger e solo qualche cenno a Gadamer che pur rappresenta un nodo di svolta del nostro tempo? A questo punto, qualcuno mi potrebbe obiettare che Heidegger è morto da un bel po’ mentre Gadamer da molto meno. Argomento non valido, in quanto spesso, se non sempre, si dice poco di Edith Stein che ha tematizzato ed affrontato la questione dell’essere con altrettanto rigore scientifico e chiarezza filosofica. Inoltre, un filosofo del calibro di Augusto Del Noce è pressoché completamente ignorato. E così con molti altri esempi. Ma questi bastino! Intanto, va detto che la risposta è semplice: esiste una dittatura culturale, ma non sarebbe giusto nemmeno chiamarla così, che impedisce che ai nostri giovani vengano presentate alcune tematiche filosofiche. In realtà queste vengono sminuite per lasciar pensare e credere - soprattutto credere – che non esistano più. Mi pare questo il campo di una poderosa battaglia delle idee dalla quale non possiamo, né vogliamo, esimerci.
«Io sostengo – afferma Jonas – che esistenzialismo e gnosticismo abbiano qualcosa in comune e che questo qualcosa sia tale per cui la sua individuazione, per somiglianza come per differenza, può condurre ad un reciproco chiarimento di entrambi»[55]. Sia Del Noce che Jonas, per vie diverse, sono concordi nell’affermare che la crisi dell’uomo moderno ha un carattere che ha lontane origini, fin dagli albori stessi della modernità. Infatti, «gli inizi della crisi risalgono al XVII secolo, quando prende forma la situazione spirituale dell’uomo moderno»[56]. Uno degli aspetti caratterizzanti questa crisi è indubbiamente la solitudine dell’uomo moderno; è come se questi cogliesse, sia pure a livello ancora non pienamente cosciente, l’esistenza di una frattura fra sé e l’universo intero, fra la sua storia attuale e quella precedente, all’interno della quale egli si coglie come nullità, fragile nullità pensante. «Estraniato dalla comunità dell’essere in un tutto, proprio la sua coscienza lo rende estraneo al mondo e testimonia in ogni atto di vera riflessione esattamente questa estraneità»[57]. Questa estraneità della natura le fa perdere la dimensione del destino inteso come destinazione; essa viene destituita della categoria del “telos” per apparire nella sua anodina indifferenza, nella sua ottusa matericità. In breve: essa non è più creatura, e non è più nemmeno il luogo della prima rivelazione di Dio. « L’indifferenza della natura significa che essa non ha rapporto con dei fini. Con la eliminazione della teleologia dal sistema delle cause naturali la natura, essa stessa priva di obiettivi, e di fini, ha cessato di dare ai possibili fini umani una qualsiasi sensazione»[58].
La natura denudata della sua creaturalità ha perso anche la sua vocazione a richiamare l’uomo alla sua condizione di natura e, dunque, alla sua creaturalità, condizione che automaticamente rimandava al Creatore come Principio. Un universo così fatto non offre più la sponda al mondo dell’etica umana. A questa etica l’uomo di oggi oppone la sua etica – laddove propone ancora un discorso etico – prometeica e nichilista fondata sulla volontà di potenza. All’uomo è stato strappato lo specchio della natura, specchio in cui l’uomo, guardandosi, incontrava le vestigia di Dio e perciò della trascendenza. Questo processo di emancipazione che culmina nella filosofia di Kant e nell’illuminismo è una fondazione mitica , la creazione di un grande racconto mitico che illude l’uomo facendolo credere autosufficiente.
In questo contesto il senso delle cose non è più “trovato” per mezzo di una ermeneutica della restituzione del senso, o della scoperta del senso (a nostro modesto parere si può e si deve rifondare intorno al principio di partecipazione), ma è dato appunto dalla Wille zur macht. A ragione Jonas sottolinea che «il valore non viene percepito più nella visione dell’essere oggettivo, bensì posto come atto della valutazione»[59]. Nell’epoca della cosiddetta morte di Dio, l’epoca del nichilismo compiuto,la visione dell’essere viene sostituita dalla creazione dei valori da parte della volontà di potenza; in breve: l’essere, se è, è perché è voluto dalla volontà di potenza dello Übermensch nietzschiano. Il tentativo del secondo Heidegger, come vedremo più avanti, di sostituire al nichilismo la dimensione dell’uomo inteso come EsserCi, come pastore dell’essere, basata sull’ascolto dell’essere, ci appare più come una prosecuzione, in altri termini, della stessa posizione nichilista che un vero ristabilimento dell’essere come credeva lo stesso Heidegger.
Nella prima fase dell’età moderna l’uomo pascaliano, sì spaesato da questo slittamento del cosmo verso l’universo, del finito verso l’infinito, poteva ancora fare affidamento alla fede. «La contingenza dell’uomo – osserva infatti Jonas – è ancora una contingenza secondo la volontà di Dio», ma già l’uomo si comincia a cogliere come volontà e il tutto diviene il luogo in cui questa volontà di potenza viene dispiegata. La tesi di Jonas sta nel ritenere – e a ragione – che proprio questo cambiamento nell’immagine della natura è alla base degli esiti nichilisti ed esistenzialistici del nostro tempo. Se è così, si domanda Jonas, cioè «se l’essenza dell’esistenzialismo è un certo dualismo, un estraniamento fra uomo e mondo con la perdita dell’idea di cosmo affine – che diviene però un acosmismo antropologico – allora non è necessariamente solo la moderna scienza naturale a poter creare una tale condizione»[60]. Potrebbe sembrare azzardato il paragone che Jonas pone tra gnosticismo ed esistenzialismo, ma in realtà non è così, poiché possiamo dire senza eccedere che lo gnosticismo è comunque una forma di esistenzialismo antico e l’esistenzialismo una forma di gnosticismo moderno. Aggiungo, di passaggio, che anche Augusto Del Noce ha trovato molti elementi gnostici nel concetto di rivoluzione[61], concetto tipicamente moderno, e difatti tali elementi gnostici si trovano anche nel marxismo, mentre Karl Jaspers li riscontrava nel freudismo.
Ritornando al tema della nostra riflessione è interessante osservare quanto il Becchi sottolinea nella Presentazione all’opera jonasiana citata; qui egli scrive che «interpretato in questo modo a partire dalla cioè dalla scissione uomo – cosmo l’antico gnosticismo diventa l’analogo dell’esistenzialismo, o meglio, quest’ultimo diventa una sorta di sua secolarizzazione e, dopo che l’analitica esistenziale di Heidegger era servita a spiegare la gnosi, ora è proprio la gnosi a consentire di scorgere l’esisto fatalmente nichilistico di Sein und Zeit e di buona parte della filosofia contemporanea»[62]. Molti critici, tra i quali lo stesso Becchi, ritengono per aderti aspetti la ricerca di Jonas quasi un gesto titanico, destinato però a soccombere. Non siamo affatto d’accordo. Dal canto nostro riteniamo, invece, che esista una possibilità per la civiltà europea di uscire dal nichilismo, per cui, mentre conveniamo con Becchi riguardo al fatto che «nei primi secoli dopo Cristo la teologia riuscì a sconfiggere il primo nichilismo gnostico con una sintesi totalizzante fra fede cristiana e platonismo», non siamo d’accordo con lui quando ritiene che «l’attuale nichilismo è troppo corazzato per venir sconfitto dal ritorno di una metafisica quasi aristotelica dell’essere». E meno che mai possiamo convenire con lui quando conclude dicendo che «se è vero che oggi […] nessun Dio può salvarci, è forse altrettanto illusorio pensare di puntare tutto come fa Jonas, sulla carta di una ritrovata ontologia»[63]. Il Becchi stesso si muove troppo all’interno della rivoluzione copernicana per potersi accorgere dei limiti oggettivi del pensiero heideggeriano.
Qui non ci interesseremo dello sviluppo della filosofia jonasiana , ma ci limiteremo alla sola presa di distanza del pensiero di Hans Jonas da Heidegger. Detto questo, bisogna indubbiamente riconoscere quanto il vecchio nichilismo gnostico sia diverso, per certi aspetti, da quello contemporaneo: il nichilismo compiuto, appunto. Il primo cosmocentrico, il secondo antropocentrico. Questo nichilismo, pur nato dalla scienza moderna, per quel suo rifiuto di misurarsi con la condizione iniziale di peccato dell’uomo resta malato e bisognoso di una profonda critica alla radice atea che lo ha generato.
In questo senso, dunque, non si può non concordare con Jonas quando afferma che «la gnosi è una delle sfaccettature» che ci permettono di capire il nichilismo contemporaneo pur così diverso dall’antico in quanto essenzialmente «irreligioso, ovvero postcristiano, come Nietzsche definisce il moderno nichilismo»[64]. Dunque, nello gnosticismo antico l’uomo è convinto di poter superare la frattura inconciliabile tra uomo e mondo, attraverso la vera gnosi, conoscenza di una presunta verità da cui discenderebbe la sua salvezza. «Nel suo aspetto teologico, questa dottrina dice che il divino è estraneo al mondo e non partecipa all’universo fisico»[65] e dunque, il nuovo gnosticismo antropologico, ovvero la filosofia heideggeriana, solo per citare la più importante corrente del pensiero contemporaneo, presuppone una inconciliabilità tra Dio e la storia umana. Questo a-cosmico cosmo non conserva più nemmeno l’aspetto sacro e divino che pur conservava il cosmo greco. Il cosmo per lo gnostico è «ancora cosmo, ordine, ma un ordine tirannico, non affine all’uomo»[66]; la storia per il neognostico è un luogo che non ha niente a che fare con Dio, un luogo in cui regna sovrana una tirannia. L’uomo sballottato in questo cosmo ostile non prova che angoscia, Angst, l’esistenzialistica Angst, così l’uomo contemporaneo, non prova altro che angoscia di fronte alla storia. Infatti, prosegue il filosofo ebreo tedesco «angoscia come risposta dell’anima al suo essere-nel-mondo è un tema ricorrente della letteratura gnostica»[67]. Constata la situazione, il Nostro a questo punto si pone un interessante interrogativo che ci permette di gettare maggior luce sul problema. Ecco ciò che si chiede: «Se non sono state le scienze e la tecnologia, che cosa allora ha causato a quel tempo, per i gruppi in questione, il crollo della classica devozione verso il cosmo, su cui si fondava tanta parte dell’etica antica?»[68]. Egli ritiene che uno dei punti centrali di tale crisi vada riscontrato nel crollo dell’ontologia classica secondo cui la parte è organica al tutto, e per cui la parte esiste e ha senso nel tutto. Di tutto ciò la polis greca era stata l’esempio vivente. Finché l’uomo antico è riuscito a pensarsi come parte di questo tutto, di cui la polis antica era il modello, l’ontologia antica ha conservato la sua valenza fondativa. Infatti, Ethienne Gilson nella sua monumentale Filosofia del Medioevo annota che «l’universo stoico non è che per una metafora una città perché esso è un fatto fisico, cioè il tutto stesso, dato quale esso è, le cui parti sono legate necessariamente dalla legge, contemporaneamente naturale e divina, dell’unità di pensiero, armonia o solidarietà che le riunisce».[69] Ben diversa fu, invece, la situazione di quella parte del mondo antico che non risentì affatto della cultura greco-romana. Perciò «le masse nuove e atomizzate del regno mondiale, che non avevano mai preso parte a quella nobile tradizione, poterono reagire anche diversamente – degli ellenisti greco-romani o romanizzati – ad una situazione in cui si trovarono passivamente coinvolte».[70] L’uomo gnostico cercava l’autenticità del suo esistere e non aspirava più ad interpretare la parte assegnatagli dal tutto. Ora, l’uomo, soggetto ad una legge estranea di cui non comprende più la ratio, non partecipando più a quella cultura che l’aveva generata, cominciava a pensarsi estraneo o, almeno, a pensarla come insignificante per il suo destino. Proprio su questo punto si hanno convergenze decisive con il nichilismo contemporaneo, non tanto sul piano cosmico, quanto su quello antropologico ed etico, e ciò sta proprio nell’aver «minato l’idea di legge, di nomos» facendoci giungere a quello che Jonas definisce «l’antinomismo gnostico» che consiste nella «negazione di ogni carattere vincolante della legge». Sta di fatto che allo gnostico e nichilista esistenzialismo moderno, di cui Heidegger, suo malgrado, è il padre ed uno dei maggiori esponenti, mentre nell’antico gnosticismo «quel che è stato liquidato è l’eredità storica di mille anni di civilizzazione antica»in quello moderno, apparentemente portatore di epocali novità, ma in realtà rinnovata ed aggiornata copia dell’antico, «si aggiungono duemila anni di metafisica cristiana come sfondo dell’idea di una legge morale»[71]. A conferma di quanto si va sostenendo basti tener presente come Heidegger liquidi frettolosamente la tradizione metafisica medievale e cristiana di matrice latina in qualche breve sporadica nota nella sua pur poderosa opera sulla questione dell’essere[72]. Difatti, né l’antico concetto di natura, fondativo dell’etica antica, né quello della rivelazione cristiana hanno più valore per il nichilismo compiuto. Inutilmente si batte e si dibatte Nietzsche nel volere un ritorno allo spirito tragico dei presocratici, in realtà ciò di cui parla il filosofo del nichilismo compiuto non è che una rilettura, in chiave moderna, dello gnosticismo antico. Fremiamoci un po’ su Nietzsche prima di confrontarci con Heidegger. per Nietzsche l’affermazione della morte di Dio non è solo la svalutazione dei valori supremi[73], ma anche l’avvio della scristianizzazione del continente europeo felicemente salutato da lui come l’aurora di un tempo nuovo in cui lo Übermensch, il superuomo, vivrà la dimensione tragica dell’esistenza. In un certo senso Heidegger tenta di sorvolare sulla dimensione decisamente anticristiana presente nel pensiero di Nietzsche affermando appunto che «le espressioni “Dio” e “Dio cristiano” sono usate nel pensiero di Nietzsche per indicare il mondo soprasensibile in generale. “Dio” è il termine per designare il mondo delle idee e degli ideali»[74]. Vero ma solo in parte, in quanto Nietzsche ha di mira soprattutto il mondo cristiano e in relazione a questo il trascendentalismo platonico – aristotelico del pensiero antico, e sulla scorta di questo, anche di quello teologico medievale.
Così facendo, però, si elide la questione essenziale e cioè che senza la fede in Dio, anche se secolarizzata, come nell’etica kantiana per esempio, non c’è nessun valore condivisibile, ma solamente l’inversione antropocentrica iniziata nell’Umanesimo e culminata nel nichilismo. La trascendenza istituita dallo gnosticismo antico e dal suo epigone contemporaneo è una trascendenza irrelata. Infatti, come giustamente osserva Jonas «il dio gnostico, differente dal Demiurgo, è totalmente altro, estraneo, sconosciuto […]. Questo dio ha in sé più del nihil che dell’ens. Una trascendenza senza relazione normativa con il mondo è simile a una trascendenza che ha perso la sua forza reale»[75]. Il superuomo nietzschiano, o oltreuomo come alcuni preferiscono definirlo tanto per creare una distanza dalla vecchia interpretazione che Nietzsche stesso diede del suo pensiero, è l’implosione esistenziale di una trascendenza impossibile poiché auto-privatasi di Dio che è la Trascendenza che rende possibile ogni trascendenza.
La croce di Cristo non è soltanto il legno su cui fu crocifisso durante l’impero di Tiberio l’ebreo figlio di Dio Gesù di Nazareth, ma anche il simbolo e la struttura ontologica di ogni possibile trascendenza, dialogo e relazione. La croce è il luogo metafisico, l’unico luogo, in cui e per cui è possibile ogni possibile apertura all’essere. Essa è l’incrocio tra la verticale: la trascendenza dell’Appello di Dio ricolto all’uomo e la trascendenza dell’uomo verso l’altro uomo e verso il mondo. Essa è lo Shemà Israel scolpito nella radice profonda dell’essere cristiano, l’archetipo di ogni possibile relazione. Tra l’altro, concordiamo pienamente con Martin Buber che, in Ich und Du, concepiva la relazione io-tu costitutiva dell’io, e la concepiva in base alla originaria relazione io-Tu come Dio. Questo schema cruciato è fondativi della verità dell’essere dell’uomo; dico verità, in quanto l’uomo ne può perdere il senso se, liberamente, si chiude al Tu originario che è Dio. Esistere però è già essere stati chiamati da Dio all’essere; dunque, quando l’essere che l’uomo, ovvero l’io che io sono, si chiude al Tu originario, che è Dio, ne scade anche la relazione con l’altro tu e si perde il senso dell’altro che ci si manifesta come vocazione nella luce sorgiva del suo essere che è il volto.
Tornando al tema che stiamo trattando bisogna apprezzare l’arguta profondità del pensiero di Jonas in merito alla dimensione gnostica della filosofia heideggeriana quando ci fa notare che «nel suo scritto Lettera sull’Umanismo Heidegger obietta alla definizione tradizionale dell’uomo come animal rationale» perché ritenuta – sottolinea – limitativa in quanto basata sulla differenza dell’interno del genere animal. Il problema o, meglio, l’errore heideggeriana sta nel fatto che impedendo in tal modo la definizione dell’uomo a partire infondo dalla sua “natura”, si giunge non solo a definirlo in base ad un concetto pseudo-gnostico «un’esistenza transessenziale” che si progetta liberamente»[76], ma , ancor più, eliminata la natura, ridotta alla Wille zur macht, si elimina anche il nomos e l’uomo è nella illusoria terra del nulla.
Nel sottoparagrafo 5 intitolato Temporalità senza presente, partendo dall’analisi di un frammento valentiniano, Jonas passa ad un confronto serrato con la filosofia di Essere e Tempo riscontandovi fondamentali uguaglianze e convergenze. Il frammento di Valentino, gnostico dei primi secoli dell’era cristiana, è ripreso da Jonas dagli scritti di Clemente Alessandrino e recita così: «Quel che ci rende liberi è conoscere che eravamo, che cosa siamo diventati, dove eravamo, dentro cosa siamo stati gettati, verso dove corriamo, ciò da cui veniamo liberati; cos’è la nascita e cosa la rinascita»[77]. A questo punto ci viene fatto notare l’impianto dualistico dei termini, «la tensione escatologica fra essi, con la loro irreversibile direzione dal passato al futuro»[78]. Inoltre, non vi è nessuna affermazione dell’essere, ma solo dell’accadere,m la conoscenza è sapere di uno sviluppo di eventi, di una storia. Insomma, appare quella che Heidegger chiamerà la Geworfenheit, ovvero la gettatezza, tanto che lo stesso Jonas è costretto a riconoscere che «fra questi concetti di movimento vi è qualcosa di estremamente familiare. […]. Per quanto ne so il termine è originariamente gnostico»[79]. E questo carattere della gettatezza è tanto costitutivo della filosofia di Heidegger che la dimensione del futuro è concepita come un pro – getto, ovvero come un nuovo gettarsi oltre la gettatezza da cui proveniamo, il passato appunto. Il presente, invece, come vedremo viene completamente svalutato dalla filosofia haideggeriana. Questa concezione è di derivazione gnostico – valentiniana.
Rimane però una sola differenza tra lo gnosticismo antico e il nichilismo gnostico contemporaneo. Secondo la gnosi antica l’essere gettati è una gettatezza dall’eterno e va verso l’eterno; mentre, il nichilismo contemporaneo è decisamente irreligioso ed immanente e, dunque, le gettatezza è dal nulla e va verso il nulla. Se ci concentriamo, con jonas, su Essere e Tempo notiamo che vi sono profonde concordanze con lo gnosticismo. Infatti, qui Heidegger parla di categorie dell’EsserCi che preferisce chiamare esistenziali, intendendole non alla stregua di funzioni della soggettività trascendentale che articolano l’oggettività – come accadeva in Kant - , ma come strutture del divenire temporale dell’interiorità del tempo interiore. Gli esistenziali, dunque, contengono gli orizzonti delle tre dimensioni temporali: passato, presente e futuro, che emergono solo in relazione a questi esistenziali[80] . Jonas nota che ordinando in una tabella le categorie heideggeriana del DaSein si scopre che «la colonna dal titolo “presente” rimane pressoché vuota, per lo meno nella misura in cui si prendono in considerazione i modi dell’esistenza autentica»[81]. Il presente della situazione non ha consistenza ontologica, semplicemente è costituito dalla relazione passato – futuro e dai suoi reciproci rimandi, privo di permanenza autonoma, semplice cesura tra due abissi. «Non resta alcune presente, in cui il vero esserCi, potrebbe permanere, solo la crisi fra essere, passato e futuro, l’ultimo inaspritosi sul filo del rasoio della decisione la quale spinge in avanti»[82]. A questo punto, non possiamo no chiederci con Jonas quale metafisica sostenga un tale discorso heideggeriano. La risposta a questo quesito è di una semplicità e profondità sconcertanti: «la vittoria incondizionata del nominalismo sul realismo»[83]. E noi aggiungiamo, è il ritorno dell’antica sofistica di cui Nietzsche è l’emblema, anzi Nietzsche è il Gorgia redivivo ed Heidegger il Protagora. Accade in Heidegger che i valori non vengono colti più nell’orizzonte dell’essere, ma posti dalla volontà di potenza sullo sfondo del nulla, e questo proprio sulla concezione gnostico – nichilista della temporalità di Heidegger. in questo caso «l’esistenza è effettivamente condannata alla continua futurità con la morte come meta»[84].
Alla luce di quanto detto ci viene alla mente una considerazione. Applicando questo schema alla condizione dell’uomo del nostro tempo se ne deduce che, dal punto di vista del suo vissuto medio, egli giace sulla dimensione di un presente vuoto che affonda sul nulla in quanto eroso dalla dialettica passato – futuro. Ma periste ancora, al livello della natura, pur nel comune dualismo delle sue condizioni, una differenza costitutiva secondo cui, mentre l’uomo gnostico è gettato in una natura antidivina, creata da un dio minore ed ostile, l’uomo del nostro tempo vive in una natura indifferente ed è gettato in una storia ostile. Quello antico è uno gnosticismo cosmologico, mentre quello contemporaneo uno gnosticismo antropologico, come ha giustamente notato Augusto –Del Noce. «ciò rende il moderno nichilismo infinitamente più radicale e disperato di quanto sia mia potuto essere il nichilismo gnostico con tutto il suo orrore del mondo»[85]. Sebbene sia al livello della frattura uomo – natura che si concentra l’attenzione di Jonas conveniamo pienamente con lui quando afferma che «la frattura fra uomo ed essere totale è alla base del nichilismo»[86]. Attraverso il pensiero di Heidegger la gnosi si propaga nel pensiero del Novecento sia filosofico e sia teologico. Ma la filosofia in questione è la causa o la cartina tornasole di un fenomeno culturale ancora in espansione che ha caratterizzato il secolo appena trascorso, fenomeno in cui possiamo inserire anche il concetto di “rivoluzione” che deriva dalla stessa matrice gnostica? Per rispondere a questa domanda diviene necessario ora confrontarsi con la critica che la Stein muove alla filosofia heideggeriana e in particolare ad Essere e Tempo.
3.2 Le critiche ad Heidegger dall’interno della stessa scuola fenomenologica: Edith Stein
Per una forma, diciamo così, di distorsione storiografica, certamente voluta, sembrerebbe non solo che l’unico a riproporre la questione dell’essere nell’ambito della filosofia novecentesca sia stato il solo Heidegger con il suo monumentale Sein und Ziet, ma anche che questa filosofia sia l’unica forma di fenomenologia che l’abbia posta. In verità non è così. Contemporaneamente allo sviluppo della fenomenologia husserliana nel cantiere herideggeriano che avrebbe prodotto Essere e Tempo anche un’altra allieva ed assistente, sia pure in un tempo precedente, di Edmund Husserl, Edith Stein, appunto, andava elaborando la questione dell’essere. Questa volta però nell’incontro della fenomenologia del maestro con il pensiero tomista. In genere la storiografia filosofica e la manualistica ignorano o passano in second’ordine questa diversa via dando ad Heidegger uno spazio che ci pare quantomeno eccessivo, se non completamente esagerato. Riteniamo, invece, estremamente interessante la via indicataci dalla Stein per il superamento anche delle aporie interne al soggettivismo ed idealismo dello stesso maestro della fenomenologia, nonché del superamento del nichilismo ontologico di Heidegger. e ciò proprio a partire dalle posizioni e dai suggerimenti della filosofa tedesca[87].
Tornando alla Stein, l’articolo in questione intitolato La filosofia esistenziale di Martin Heidegger, scritto che risale al 1936, e che originariamente doveva essere, secondo il progetto stesso della Stein, una delle due appendici alla sua opera fondamentale: Essere finito ed Essere eterno, fu pubblicato postumo negli Edith Steines Werke al volume VI. Qui non si tratta solamente di una questione soltanto bibliografica ma squisitamente filosofica. Infatti, l’intenzione della Stein di pubblicare in Appendice alla sua opera fondamentale, in cui affrontava ella stessa la questione dell’essere, questo scritto rivela tutta la sua preoccupazione per gli esiti devastanti che la filosofia del marburghese poteva comportare ed inoltre, alla critica all’antropologia di Heidegger faceva da contr’altare il commento al Castello Interiore di S. Teresa d’Avila, della quale evidenziava la totalmente diversa antropologia. Lo diciamo chiaramente: la filosofia di Heidegger non è affatto la riproposizione della questione dell’essere che giunge ad una conclusione positiva del concetto di essere, ma la sua semplice abdicazione al nulla. Questi, infatti, pone sì la questione dell’essere ma per eluderla nella sua effettiva realtà e per sminuirne la portata. In virtù della cancellazione della differenza ontologica l’essere di cui parla Heidegger si riduce all’orizzonte della physis, ma in virtù del suo nichilismo la stessa physis si è ridotta alla volontà di potenza che qui diviene mondo e progetto dello stesso DaSein. Invece, «una dottrina generale dell’essere – conferma la Stein – non può limitarsi all’essere creato, ma deve prendere in considerazione la differenza tra l’essere creato e quello increato e il rapporto che intercorre tra essi»[88]. La stessa osservazione, ma più approfondita, la ritroviamo in nota in Essere finito e Essere eterno. In nota al testo la Stein sintetizza quali sono i limiti della ricerca heideggeriana. Li riportiamo per intero. Ella scrive: «Heidegger non ha rigettato la vecchia definizione della Metaphysica generalis come dottrina dell’ente in quanto tale, ma soltanto ha sottolineato che era necessario chiarire il senso dell’essere. E in questo siamo d’accordo con lui. Ha quindi un ulteriore passo, sostenendo che per comprendere il senso dell’essere, si deve indagare sulla comprensione dell’essere propria dell’uomo. poiché trovò il fondamento della possibilità della comprensione dell’essere nella finitezza dell’uomo, vide nell’approfondimento della finitezza dell’uomo il compito assegnato a una fondazione della metafisica. Qui si devono sollevare osservazioni da due punti di vista. In metafisica si tratta del senso dell’essere in quanto tale, non solo dell’essere dell’uomo. Chi sorvola sulla questione del senso dell’essere, risiedente nella stessa comprensione dell’essere, e, non curandosi di ciò, “progetta” la comprensione dell’essere dell’uomo; incorre nel pericolo di tagliarsi fuori dal significato dell’essere; Heidegger è appunto incorso in questo pericolo. Seconda riflessione: la comprensione dell’essere non appartiene alla finitezza in quanto tale, poiché vi sono enti finiti cui non è propria la comprensione dell’essere. Questa appartiene a ciò che distingue un essere spirituale e personale da un altro essere. Si dovrebbe perciò distinguere la comprensione umana dell’essere da quella degli altri spiriti finiti, e ogni comprensione finita dell’essere da quella propria dell’essere infinito (divino). Che cosa sia la comprensione dell’essere in senso assoluto, non si può vedere prima che venga chiarito che cosa sia il senso dell’essere. Così il problema fondamentale per la fondazione della metafisica resta il problema intorno al senso dell’essere».[89] Perciò in Heidegger,[90] checché egli stesso ne dica, la questione dell’essere viene posta solo a livello antropologico (sebbene il suo sia un tentativo, per altro non riuscito, di determinare una ontologia dell’essere dell’esserci, alla fine ben si addice alla sia filosofia la definizione di esistenzialismo) e per nulla ontologico in relazione alla questione dell’essere. Egli critica la metafisica ma alla fine ne produce egli stesso una, sia pure una metafisica del non-ente e dell’essere ridotto alla temporalità dell’esserci. E ciò perché egli si rifiuta di discutere la questione del senso dell’essere a prescindere dalla questione dell’essere dell’esserci. È per via della matrice gnostica del suo pensiero che il marburghese non pone correttamente tale questione. Dunque, dopo aver concordato con l’eretico assistente di Husserl circa la necessità di riporre la questione del senso dell’essere la Stein nota che questi non fa che porre la questione dell’essere a livello dell’essere dell’uomo, o meglio alla comprensione dell’essere propria dell’uomo. Il passo successivo è quello di trovare il fondamento della metafisica nella comprensione della finitezza dell’uomo.
Nell’articolo dedicato allo studio della filosofia heideggeriana la Stein, dopo una fedele esposizione del pensiero del filosofo tedesco, ne valuta il senso e la portata. A noi interessa in modo particolare questa analisi in quanto non solo vengono evidenziati i limiti di tale filosofia, poiché ne vengono messi in luce i fraintendimenti costitutivi, ma anche perché rappresenta una critica alla filosofia di heidegger che gli viene mossa dall’interno del movimento fenomenologico di cui i due filosofi, pur nelle loro differenze fanno parte. La Stein nota che in essere e Tempo, intendendo con l’essere dell’esserCi l’essere umano «si dice chiaramente che l’essenza dell’uomo è l’esistenza. Ciò non significa nient’altro che per l’uomo si rivendica ciò che secondo la philosophia perennis è riservato solo a Dio: la coincidenza di essere ed esistenza». Qui però l’uomo non viene sostituito a Dio, EsserCi, infatti, non è l’essere in quanto essere, «ma un particolare modo di essere che si contrappone agli altri modi d’essere».[91] L’eccezionalità dell’esserCi nella posizione dell’eretico assistente sta nel fatto che è l’unico cui si possa porre la domanda sul senso dell’essere e questo ne fa di lui un «piccolo dio»[92] come nota giustamente la Stessa Stein. Il problema è che riducendo l’uomo all’esserCi, e il suo essere all’essere dell’esserCi, ci si priva di uno studio della sua dimensione corporale e di una dottrina dell’anima, come sottolineato dalla filosofa carmelitana scalza. La filosofia di Heidegger è una filosofia autolimitantesi ed incongruente, soprattutto sul versante razionale, eppure è una filosofia che l’occidente ha fatto propria, dando ad essa il suo assenso e pensandosi nei termini da essa definiti. Ciò conferma, a nostro modesto parere, che esiste una opzione fondamentale, meglio una Risposta Costitutiva che precede il pensiero stesso, da cui la modernità ha pensato se stessa, risposta che va verso la scristianizzazione stesa dell’Occidente e in cui la filosofia di Heidegger giganteggia come vera e propria icona.
Edith Stein pur riconoscendo la magistralità di Heidegger nell’individuazione dei modi di autentico ed in autentico dell’esistenza - ma forse le è sfuggito che proprio questi termini rimandano alla matrice gnostica del suo pensiero, come ben evidenziato dallo Jonas - come costitutivi dell’essere dell’Esserci, però si chiede: «Ma tale costituzione fondamentale è analizzata nel modo migliore in vista di una chiarezza ulteriore dell’essere umano?»[93]. Il concetto della gettatezza, la Geworfenheit, di cui già abbiamo ampiamente parlato prima, esprime con chiarezza il fatto che l’uomo esiste senza sapere come sia giunto all’esserci. Il problema sta non solo nel fatto che questo concetto è di matrice gnostica, ma anche nel fatto che Heidegger non individua in questa gettatezza la creaturalità dell’uomo. questa critica viene mossa ad Heidegger non solo dalla Stein, ma anche dal filosofo ebreo-polacco Abraham J. Heschel[94]. La prima scrive appunto che la gettatezza si rivela come creaturalità, mentre il secondo sottolinea che il mio esistere non dipende da me e che la gettatezza presuppone un ordine, un esisti!, appunto, come radice del mio esistere. Esistere è già rispondere ad un appello, dunque, come abbiamo già evidenziato nella II Ricerca sulla Risposta Costitutiva. Da quanto emerge, invece, da ciò che lo stesso heidegger dice riguardo alla deiezioni al par. 38 di Sein und Zeit, in cui afferma che «l’interpretazione ontologico esistenziale non ha la pretesa di formulare giudizi ontici sulla corruzione della natura umana; e ciò non perché ne manchino le prove, ma perché la sua problematica si pone al di qua di qualsiasi giudizio sulla corruzione o sulla non corruzione degli enti» risulta un rifiuto dell’accettazione della dimensione della temporalità in senso alla questione dell’essere, e tale appunto viene proprio da colui che ricuce la questione dell’essere al tempo? In verità mi sembra troppo poco, perché Heidegger incorre nell’errore di considerare la questione della corruzione o non corruzione dell’ente come una questione meramente morale, mentre è invece una questione decisamente ontologica. Perciò, ha pienamente ragione la Stein quando afferma che «bisogna dire che l’insegnamento della Chiesa che riguarda il peccato originale è la soluzione dell’enigma che emerge dalla descrizione di Heidegger dell’Esserci deietto»[95]. In più si può trovare conferma di ciò nella brillante analisi che fa Del Noce ne Il problema dell’ateismo quando dice che «l’ateismo si presenta come momento terminale di un processo di pensiero condizionato all’inizio da una negazione senza prove della possibilità del soprannaturale», come rifiuto dell’iniziale status naturae lapsae . Infatti «le concezioni del mondo si formano in relazione ad una iniziale risposta al problema del peccato originale»[96]. Ed Heidegger l’ha decisamente accantonato. A questo punto Edith Stein si chiede da dove provenga ad Heidegger la conoscenza di un essere autentico da lui presupposta. La risposta non la si può trovare che nel concetto appello, chiamata, che ogni essere riceve attraverso la voce della coscienza. ma colui che chiama all’autenticità [97] non può essere lo stesso che è chiamato come presuppone ingenuamente proprio Heidegger. Per questi il passaggio dalla condizione in autentica dell’Esserci a quella autentica avviene nell’essere-per-la-morte intesa come comprensione della morte e un «anticiparsi per la morte»[98] . E quanto sia gnostico questo concetto lo abbiamo appena dimostrato. La Stein, giustamente, rileva che «se il senso ultimo dell’esserci deve essere l’essere-per-la-morte, allora attraverso il senso della morte dovrebbe essere chiaro il senso dell’Esserci. Ma come è possibile ciò se della morte non si dice altro che è la fine dell’esserci?». E aggiunge argutamente «non è un circolo vizioso?» [99].
La sezione B è intitolata Considerazioni ed è strutturata in tre parti che nascono dalle seguenti domande che ella si pone: 1) Che cosa è l’Esserci?; 2) L’analisi dell’esserci è fedele?; 3) Essa è un fondamento sufficiente per porre adeguatamente la questione del senso dell’essere? Circa la prima questione , ovvero: Che cosa è l’esserci?, Edith Stein ne individua subito il nucleo centrale quando afferma che «Heidegger con il termine Esserci intende l’essere umano»[100] , me rimane il fatto che per Heidegger, come già prima sottolineato, ma è il caso di ribadirlo, «l’essenza dell’Esserci consiste nella sua esistenza»[101]. Ma ciò rimanderebbe ad una natura divina dell’essere umano che non sussiste affatto. L’uomo però non è sostituito da Heidegger completamente a Dio poiché, con l’esserci, non viene inteso l’essere in quanto tale, ma un particolare modo d’essere contrapposto ad altri, l’essere utilizzabile, l’essere semplicemente presente. resta il fatto che per il filosofo tedesco «l’uomo è considerato come un piccolo Dio, in quanto l’essere umano è ritenuto come un essere eccezionale al di sopra di tutti gli altri e come l’essere dal quale si può sperare l’unico chiarimento sul senso dell’essere»[102]. Di Dio si tace o se ne parla in Essere e Tempo in modo marginale o in qualche nota allo scopo di escluderlo; l’essere di Dio è escluso a priori ed in modo ingiustificato dalla riflessione. Riguardo alla scelta del termine EsserCi per indicare l’uomo, Edith Stein ne individua due, una positiva e l’altra negativa. Quella positiva è dettata dal fatto che all’essere dell’esserci appartiene l’essere condizionato, ma questo tema era già comparso in Husserl prima ancora che Heidegger si avvicinasse alla fenomenologia e precisamente già nelle Ideen, il suo essere qui e il poter essere lì, ovvero ciò che in termini aristotelico – tomisti (termini che Heidegger rifiuta a priori) si può esprimere con il termine “potenza”. La motivazione negativa è dettata dal rifiuto della definizione dogmatica dell’uomo come composto di anima e corpo, anzi come «composto da due sostanza, una spirituale ed una corporea»[103]. A parte il fatto che la filosofia tomista, e sulla stessa linea si muoverà poi la Stein, non parla affatto di due sostanze come invece crede Heidegger confondendo Cartesio con la Scolastica medievale, ma di una sola sostanza. Certo, riconosce la filosofa tedesca, Heidegger non rifiuta all’esserci la nozione di corporeità, parlandone anzi a lungo. «Invece, il modo in cui si parla di anima non lascia intendere altro che questa sia un termine dietro al quale non c’è nessun significato chiaro»[104]. Sebbene egli voglia disfarsi di questa separazione di anima e corpo, egli on vi riesce pienamente; ciò è dimostrato «dal fatto che egli parla continuamente dell’essere dell’esserci: ciò - spiegala Stein – non avrebbe alcun senso se si fosse inteso con Esserci nient’altro che l’essere umano»[105]. Inoltre, quando in Essere e tempo si parla di essere-nel-mondo[106] il Chi dell’esserCi è separato dal mondo ma anche dall’in-essere, si ha come risultato che il termine EsserCi viene utilizzato per cose diverse, intimamente collegate, tanto da non poter stare l’una senza l’altra, pur essendo diverse. Ne consegue che «per Heidegger l’Esserci indica sia l’uomo (per questo motivo si indica il Chi o il Sé) sia l’essere dell’uomo (in questi casi scegli per lo più l’espressione essere dell’Esserci)»[107] inteso come esistenza.
Successivamente la filosofa di Breslavia risponde alla seconda domanda: l’analisi dell’esserci è fedele? Dopo aver costatato che l’influenza durevole del libro è dovuta all’analisi dell’Esserci quotidiano la filosofa tedesca affronta la questione centrale della sezione circa la deiezione, ovvero della gettatezza. Da questa analisi, come abbiamo già detto emerge che la deiezione può essere letta solo alla luce del concetto di creatura, in quanto appunto l’essere gettato presuppone un gettante. Il termine poi, come prima dimostrato con Jonas ha delle assonanze decisamente gnostiche e quindi è poco adatto a descrivere la dimensione della creaturalità. Il fraintendimento heideggeriano sta nella sua opzione fondamentale, della sua risposta costitutiva, di Heidegger come uomo e come filosofo appunto, a partire dalla quale la domanda intorno all’essere si riduce alla domanda intorno all’essere dell’esserci, questione da cui il filosofo tedesco non può più prescindere. Nel concetto do gettatezza sta proprio il limite della sua ontologia esistenziale. Infatti, quando gli si pone innanzi la domanda circa l’essere di questo esserci, la sua risposta non fa che approdare al nulla. La Stein riconosce all’assistente eretico di Husserl il merito della esposizione dei problemi notando però che gli manca la chiave per poterne comprendere appieno il senso in relazione all’Essere. E ciò, ci pare, emerga proprio per la dimenticanza della fondamentale e fondante “analogia entis”. Non solo, ma la Stein, a ragione, si domanda: «Heidegger non ha reso impossibile sin da principio la chiarificazione necessaria di questo ruolo eminente rifiutandosi di parlare di Io e di persona, invece di interrogarsi suoi possibili significati di queste parole?»[108]. Ovvero, Heidegger si è limitato a cancellare, senza argomentarlo, il contributo di tutta la filosofia medievale e cristiana apportato al pensiero Occidentale; o, quando lo cita lo fa semplicemente per decostruirlo. Insomma, è presente in lui, sia pure a livello latente, il pregiudizio illuminista e protestante nei confronti della tradizione latino-medievale. Anche nella tematizzazione del “Si impersonale” è, di fatto, presupposta una persona che vive questa condizione, mentre Heidegger lascia completamente nell’oblio questo aspetto.
A parte il fatto che questa filosofia si iscrive pienamente nella filosofia dell’eclissi di Dio o, meglio, della sua cancellazione opzionale e ciò perché anche qui il tema del peccato originale è completamente obliato, liquidato nel suo aspetto morale, e non considerato nella sua dimensione ontologica, soprattutto per quanto concerne la questione della “deiezione”, come osserva con profonda lucidità la Stein. Ella afferma che «bisogna dire che l’insegnamento della Chiesa che riguarda il peccato originale è la soluzione dell’enigma che emerge dalla descrizione di Heidegger dell’esserci deietto»[109] Quando poi questi definisce l’essere dell’esserci come essere-per-la-morte non fa che produrre un circolo vizioso perché «attraverso il senso della morte dovrebbe essere chiaro anche il senso dell’EsserCi. Ma come è possibile ciò se della morte no si dice altro che essa è la fine dell’esserci?»[110].
In questo senso la filosofia di Heidegger si iscrive pienamente nell’eresia della modernità che consiste proprio nel passaggio ingiustificato dalla trascendenza all’immanenza, questa, con la iniziale cancellazione della condizione di peccato dell’uomo, porta all’ateismo moderno e alla irreligione contemporanea.
[1]ARISTOTELE, Metafisica, 993, 11 – 25, Milano, 2000, 65 -66.
[2] HEIDEGGER M., Einfǘng in die Metaphysik, tr. it. Giuseppe Masi, Introduzione alla Metafisica, Milano, 1990, 36.
[3] La filosofia heideggeriana altro non è che una forma del nichilismo stesso e del pantecnicismo, una forma camuffata con la quale si cerca di farci ingoiare la pillola della necessità dello sviluppo della tecnica del suo inesorabile “Destino”, quando, invece, non è che il frutto di una deliberata scelta nell’utilizzo degli esisti stessi della tecnica. Insomma è dalle idee che proviene una gestione della tecnica e non dallo sviluppo della tecnica e del sistema produttivo che si forma una visione dell’uomo. Una tale idea dev’essere con solo rifiutata ma tenacemente combattuta in quanto è esssa stessa frutto di una opzione iniziale, di una opzione pienamente iscritta nella modernità, opzione che rifiuta lo status naturae lapesae dell’uomo, la suan iniziale condizione dio peccato, che è poi la ybruis di tutta la modernità.
[4] GOMEZ DAVILA N., In Margine ad un testo implicito, Milano, 2001, 41.
[5] Tutti gli scritti heideggeriani seguenti la famosa Khere seguono questa strada, strada che ha fatto scuola se pensiamo che tale concezione ha trovato applicazione nei più disparati campi delle Geisteswissenschaften dalla filosofia alla stessa storia dei concetti, cito per esempio l’interessante articolo di Patrice Loraux, L’invenzione della natura, in A.A. V.V. I Greci, Storia Cultura Arte e Società, vol. I Noi e i Greci, Torino, 1996, 319 – 342.
[6] Cf. HUSSERL E. Idee per una fenomenologia pura ed una filosofia fenomenologica, Milano, 2002, 189 – 193.
[7] HUSSERL E. Idee per una fenomenologia pura ed una filosofia fenomenologica, op. cit. 190.
[8] HUSSERL E. Idee per una fenomenologia pura ed una filosofia fenomenologica, op. cit. 194.
[9] HUSSERL E. Idee per una fenomenologia pura ed una filosofia fenomenologica, op. cit. 195.
[10] STEIN E., Essere finito Essere Eterno, Roma, 1999.
[11] STEIN E., Essere finito Essere Eterno, Roma, 1999, 386.
[12] Si deve indubbiamente alle ricerche husserliane l’aver riproposto come centrale il problema della descrizione delle essenze nel panorama della filosofia del novecento. Senza la riproposizione di questo problema la questione dell’essere non sarebbe riapparsa come centrale nella filosofia contemporanea e, dunque, non sarebbe stata tematizzata nemmeno da Heidegger.
[13] STEIN E., Essere finito Essere Eterno, op. cit. 386.
[14] ARISTOTELE, L’anima, 412 a, 20, Milano, 2001, 115.
[15] STEIN E., Essere finito Essere Eterno, op. cit. 386.
[16] STEIN E., Essere finito Essere Eterno, op. cit. 387.
[17] STEIN E., Essere finito Essere Eterno, op. cit. 388.
[18] STEIN E., Essere finito Essere Eterno, op. cit. 390.
[19] La differenza tra mero corpo (Körper) e corpo vivente (Leib) è determinata dall’anima presente nei viventi.
[20] STEIN E., Essere finito Essere Eterno, op. cit. 390.
[21] STEIN E., Essere finito Essere Eterno, op. cit. 390.
[22] Anche se ovviamente, come la stessa Stein in altri passi chiarisce, la condizione della vita immortale dell’anima per il tempo che intercorre tra la morte e il giudizio finale in cui avverrà la Risurrezione della carne ed ogni anima avrà il suo stesso corpo proprio, sia pure glorificato, se per la vita e terna, o in condizione dannata, se per la seconda morte, è una condizione possibile, determinata dalla volontà di Dio che però termina con la Risurrezione finale della carne stessa.
[23] STEIN E., Essere finito Essere Eterno, op. cit. 393.
[24] Cf. STEIN E. La struttura della persona umana, Roma, 2000, 123 -125.
[25] STEIN E., Essere finito Essere Eterno, op. cit. 73.
[26] STEIN E., La struttura della persona umana, Roma, 2000, 125.
[27] Per i fenomenologi la coscienza non va intesa come un “luogo” psicofisico, ma come una regione dell’essere, per cui l’essere da mostrare non è altro se non ciò che per motivi essenziali può venire indicato come “puri vissuti”, “pura coscienza” con i suoi “puri correlati” e, d’altra parte, il suo “puro io” abbraccia tutti i vissuti. L’essere cosciente deve essere inteso come una luce interiore che illumina il flusso del vivere e nel defluire stesso lo rischiara per l’io vivente senza che questo vi sia diretto. L’io puro e la coscienza sono lo specchio sul quale si riflettono i vissuti che provengono dalle realtà della psiche e dello spirito.
[28] Cf. STEIN E., La struttura della persona umana, Roma, op. cit. 125.
[29] Cf. STEIN E., La struttura della persona umana, Roma, op. cit. 130 – 132.
[30] STEIN E. La struttura della persona umana, op. cit. 99 - 118. Qui non ci dilungheremo sulla posizione della Stein, ma notiamo come il problema possa essere risolto anche a partire dalle critiche che Hans Jonas muove alla filosofia che è matrice del darwinismo per comprendere quanto questa non sia scienza, ma ideologia. Insomma, detto per inciso, la posizione della Stein si fonda sull’asserto che non si possa parlare di una evoluzione della specie in quanto il concetto di specie è strettamente legato a quello di forma, ed inoltre, ci si dovrebbe chiedere come mai questo processo si sia ad un certo punto interrotto. In più, proprio per come si è venuto a formare il discorso intorno alla struttura della persona umana, fondato sulla concezione aristotelico – tomista – husserliana dell’anima, non possa affatto comprendere in sé in un discorso di tipo darwiniano, che a ben guardare, si fonda su di una concezione tipicamente eraclitea. Successivamente ci prenderemo cura di analizza gli aspetti filosofici del darwinismo e di come si sia potuta dar strada nel pensiero occidentale un ideologia spacciatasi per scienza.
[31] STEIN E. La struttura della persona umana, op. cit. 143.
[32] STEIN E. La struttura della persona umana, op. cit. 145.
[33] STEIN E. La struttura della persona umana, op. cit. 147.
[34] Cf. TOMMASO D’AQUINO, De Veritate, Milano, 2005, q 24, a. 1 e ss. 1585 – 1607.
[35] Cf. STEIN E. La struttura della persona umana, op. cit. 156 - 163.
[36] STEIN E. La struttura della persona umana, op. cit. 125.
[37] Nell’atto intenzionale emergono tre aspetti: 1) l’io rivolto all’oggetto; 2) l’oggetto a cui esso è rivolto; e 3) l’atto in cui l’io, di volta in volta, vive e si orienta verso l’oggetto. È in questa struttura che la libertà occupa un posto.
[38] Cf. STEIN E. La struttura della persona umana, op. cit. 126 – 127.
[39] Cf. STEIN E. La struttura della persona umana, op. cit. 130 -131.
[40] Cf. STEIN E. La struttura della persona umana, op .cit. 133 -134.
[41] STEIN E. La struttura della persona umana, op .cit. 143.
[42] STEIN E. La struttura della persona umana, op .cit. 146.
[43] Cf. STEIN E. La struttura della persona umana, op. cit. 187 – 214.
[44] STEIN E. La struttura della persona umana, op. cit. 188.
[45] Qui il concetto di comunità non deve essere minimamente frainteso con quello elaborato dalle filosofie strutturaliste o relativiste del pensiero debole che predicano un ritorno, più o meno esplicito, dell’uomo al comunismo tribalista primitivo in cui l’individuo è sciolto nel collettivo – tribù, quanto piuttosto con “comunità” va inteso l’aspetto sociologico del concetto di “Chiesa”.
[46] STEIN E. La struttura della persona umana, op. cit. 190.
[47] In breve con questi concetti la filosofia tedesca intende: 1) Per atti sociali quegli atti per mezzo dei quali una persona si rivolge ad altre. Ad essi si aggiungono anche le prese di posizione (amore, rispetto, ammirazione etc.) risposta a valori personali che non determinano ancora un legame reciproco. Inoltre, vanno ritenuti essere atti sociali quegli atti che producono oppure annullano determinate realtà oggettive nel mondo sociale. Tutti gli atti sociali poi, presuppongono un contesto di comprensione esistente tra le persone; 2) I rapporti sociali non sono atti di una persona, ma qualcosa che esiste tra le perone e hanno come veicolo almeno due persone; 3) Forme sociali intese come comunità.
[48] STEIN E. La struttura della persona umana, op. cit. 189.
[49] Qui il significato di tipo, come sottolinea la Stessa Stein, ma deve essere inteso in diversi modi: 1. significato del termine tipo: typos in gr. Colpo, urto, ma anche ciò che è formato. Tipico per irripetibile; 2. condizioni interne ed esterne dei tipi. Assimilazione ad un modello esterno ed introiezione di norme; come 3. fondamento interiore del tipo sociale. Trasformazione di ciò che è già formato. Il tipo sociale è qualcosa determinato dall’esterno, cioè dalle condizioni di vita e dall’interno ovvero dalle sue scelte. Cf. STEIN E. La struttura della persona umana, op. cit. 192.
[50] La Stein elabora anche una approfondita analisi del popolo e dell’appartenenza al popolo in cui emergono alcuni punti interessanti: 1. Esclusione del problema della razza. Se è intesa come sangue, allora il sangue diventa la stirpe, così il concetto di razza si avvicina a quello di popolo 2. popolo inteso come comunità, nel senso più ampio del termine, cioè formazione sociale cui appartengono persone individuali. La prima considerazione da fare è che la vita di un popolo coincide con la sua storia, inoltre il popolo compie azioni e ha destini. Bisogna poi distinguere tra vita interiore e vita esteriore del popolo. Per vita esteriore si intende la relazione con gli altri popoli; per vita interiore di un popolo si intende invece la sua auto-configurazione, ovvero l’accrescimento numerico e i legami tra i membri; poi va considerata l’auto-conservazione cioè la produzione materiale dei beni, la regolamentazione della distribuzione dei beni, la cura della salute etc; infine, l’auto-espresione, intendendo con ciò la lingua, le arti, l’industria e la scienza. In breve tutto ciò che è cultura. I popoli hanno una loro vita, nascono e si estinguono. Da quanto detto ricaviamo che la comunità popolare può fondarsi sul legame di sangue, ma non lo presuppone necessariamente e che un legame di sangue non è sufficiente a fondare una comunità di popolo; ad essa si deve aggiungere una comunione spirituale. Inoltre il popolo e lo Stato non si identificano, di regola. Un popolo può sopravvivere al suo Stato. È possibile che la fondazione dello Stato preceda la nascita della popolazione e ne divenga il fondamento. Vi è popolo se c’è comunità di vita che tende ad abbracciare tutte le funzioni vitali dell’essere umano, vedi per esempio gli USA. Se ciò si verifica esiste allora una natura popolare e d un carattere popolare, al carattere popolare è connesso il tipo di popolo come tale per esempio l’italiano.
Comunità poi non vuol dire collettivo. Esistono dei punti inconciliabili tra il concetto di comunità e quello di collettivo. Il concetto di Collettivo sottintende l’individuo come parte del tutto, forma in cui il soggetto è sottomesso all’io collettivo (es. marxismo corporativismo etc.), la Comunità, invece, viene vista come il luogo costituente e costituito dalla persona. Vi è dunque l’impossibilità di una conciliazione tra marxismo e cristianesimo; impossibilità di qualsiasi compromesso di idee e strutture di pensiero, in virtù della inconciliabile antropologia che esiste tra loro. L’antropologia marxista si basa sull’idea dell’uomo sociale, intesa come negazione completa dell’idea platonico cristiana – sviluppata da S. Tommaso in particolare – della partecipazione. L’antropologia marxista rifiuta la categoria dell’interiorità, che in quanto coincide con quella del privato, è, nel marxismo, il fondamento della critica della proprietà privata. Esiste una inconciliabilità dell’antropologia cristiana con l’antropologia di tipo decostruzionista e strutturalista che riduce la comunità alla tribù, abolendo il concetto di famiglia monogamica come fondamento della società civile, inoltre, c’è una inconciliabilità dell’antropologia cristiana con le antropologia di tipo esistenzialista di derivazione nietzschiano heideggeriana e non che concepiscono l’uomo come esistenza che precede l’essenza. Inconciliabilità dell’antropologia cristiana con le antropologia contemporanee di derivazione postmoderna o derivate dal pensiero debole che si fondano sul relativismo ontologico ed etico. Nessuna possibilità di conciliazione con tutte quelle antropologia che rinnovano la filosofia antica sofistica di Protagora e di Gorgia.
[51] Cf. STEIN E. La struttura della persona umana, op. cit. 214.
[52] Cf. JONAS H., Organismo e libertà, Einaudi, 1999.
[53] GILSON E., L’athèisme difficile, Librairie Philosophique, Paris, 1979, tr. it. a cura di Angela Contessi, L’ateismo difficile, Vita e Pensiero, pubblicazioni dell’Università Cattolica, Milano, 1983.
[54] GILSON E., L’athèisme difficile op. cit. 13.
[55] JONAS H., Organismo e libertà, op. cit. 263.
[56] JONAS H., Organismo e libertà, op. cit. 265.
[57] JONAS H., Organismo e libertà, op. cit. 266.
[58] JONAS H., Organismo e libertà, op. cit. 260.
[59].JONAS H, Organismo e libertà, op. cit. 267.
[60] JONAS H., Organismo e libertà, op. cit. 268.
[61] Cf. DEL NOCE A., Il problema dell’ateismo, op. cit. pp. 59 – 211. Inoltre, Cf. Jaspers in Ragione e Antiragione nel nostro tempo, SE, Milano, 1999 . Si tratta di comprendere le radici di questo fenomeno che senza ombra di dubbio vanno ricercate nella contrapposizione antropocentrica Quattrocentesca a quella geocentrica del Medioevo.
[62] BECCHI P. Presentazione a H.JONAS, op. cit. XII.
[63]BECCHI P. Presentazione a H. JONAS, Organismo e libertà, op. cit. XIII.
[64] JONAS H, Organismo e libertà, op. cit. 269.
[65] JONAS H. Organismo e libertà, 270.
[66] JONAS J. Organismo e libertà, 270.
[67] JONAS H. Organismo e libertà, 272.
[68] JONAS H., Organismo e libertà, 273.
[69] GILSON E. La Filosofia nel Medioevo, Sansoni, 2004, 183.
[70] JONAS H., Organismo e libertà, 274.
[71] JONAS H., Organismo e libertà, 275.
[72] Di questo argomento dovremmo interessarcene in maniera approfondita nel prosieguo del saggio. Qui si può solo anticipare, in maniera decisamente poco esaustiva, dicendo che le motivazioni che lo stesso adduce a sostengo di questa liquidazione sono decisamente poco convincenti.
[73] Cf. il famoso aforisma 125 della Gaia Scienza, in NIETZSCHE F. La Gaia Scienza, tr. it Giorgio Colli, Adelphi, Milano, 1984, 129.
[74] HEIDEGGER M.., Holzwege, tr. it. Pietro Chiodi, Sentieri Interrotti, Firenze, 1984,198.
[75] JONAS H., Organismo e libertà, op. cit. 276.
[76] JONAS H., Organismo e libertà, op. cit. 278.
[77] Clemente Alessandrino, Excepta ex Theodato, LXXVIII,2, in JONAS, Op cit. p 279, grassetto nostro.
[78] JONAS H., Organismo e libertà, op. cit., 279.
[79] JOPNAS H., Organismo e libertà, 289 – 280.
[80] Gli esistenziali son appunto la situazione affettiva, il comprendere ed il parlare, come trattato da Heidegger in Cf. HEIDEGGER M. Essere e Tempo, tr. ti. P. Chiodi, Milano, 1976, pp168- 221.
[81] JONAS H., Organismo e libertà, op. cit., 281.
[82] JONAS H., Organismo e libertà, op. cit. 281.
[83]JONAS H., Organismo e libertà, op. cit. 283.
[84] JONAS H., Organismo e libertà, op. cit. 283.
[85] JONAS H., Organismo e libertà, op. cit. 283.
[86] JONAS H., Organismo e libertà, op. cit. 284.
[87] Un’altra cosa dev’essere messa in chiaro, ed è questa. Heidegger non avrebbe mai potuto riproporre in ambito filosofico la questione dell’essere se non fosse stato preceduto dalle ricerche di Husserl. È infatti solo a partire dalle ricerche d’essenza di Husserl che è possibile avere gli strumenti per poter porre la questione d’essere nell’ambito del pensiero moderno tutto teso alla fondazione dello statuto delle scienza e alla riduzione della filosofia a scienza. La stesa formazione giovanile di heidegger in ambito neokantiano non gli avrebbe permesso questo passaggio. Spetta dunque alle ricerche fenomenologiche dell’ambiente husserliano il traghettamento della filosofia contemporanea alla questione cruciale dell’essere. Del resto solo le ricerche intorno all’essenza di cui la fenomenologia trascendentale è la scopritrice in ambito moderno rendono possibile questo passo, poiché l’essenza stessa in quanto quid rimanda alla questione del suo essere e di conseguenza a quella generale dell’essere in quanto essere.
[88] STEIN E., La Struttura della persona umana, op. cit., 63.
[89] STEIN E., Essere finito e Essere eterno, Roma, 1999, 57- 58, in nota. Grassetto nostro, corsivo della stessa Stein.
[90] Cf. HEIDEGGER M. Essere e Tempo, Milano 1976, 65 – 75.
[91] STEIN E., La filosofia esistenziale di Martin Heidegger, in STEIN E., La ricerca della verità, Roma, 1999, 178.
[92] STEIN E., La filosofia esistenziale di Martin Heidegger, op. cit. 178.
[93] STEIN E. La filosofia esistenziale di Martin Heidegger, op. cit. p 180.
[94] Per quanto riguarda l’appunto mossogli dalla Stein si tenga presente quanto segue: «L’essere umano è indicato come gettato. In tal modo si esprime in modo eccellente che l’uomo si trova nell’Esserci senza sapere come vi è arrivato, che egli non è da sé né per sé e non può aspettare dal proprio essere alcun chiarimento sulla sua origine. Perciò non si può porre la questione sull’origine a partire dal mondo. Si può tentare ancora di metterla a tacere violentemente o di considerarla senza senso, tuttavia essa emerge sempre inevitabilmente, e in modo sempre nuovo, dalle caratteristiche presenti nell’essere di questo essere umano, in sé senza fondamento, che deve essere fondato, qualcuno che getti il gettato. Allora la gettatezza si rivela come creaturalità (Gëschopflichkeit)». In Stein, op. cit. 180. Heschel muove ad Heidegger la stessa critica quando afferma: «la domanda retorica di Heidegger: “il DaSein, come tale, ha mai deciso liberamente no sarà mai in grado di decidere se nascere o meno?”, è stata risolta da gran tempo: “Contro il tuo volere sei nato, contro il tuo volere vivi e contro il tuo volere sei costretto a rendere conto…”. La trascendenza dell’essere umano è in tal modo espressa come una vita che ci è stata imposta, così come ci è imposta la resa dei conti e la stessa libertà. La trascendenza dell’essere è un comandamento, l’essere qui e ora è obbedienza. Non sono stato io a far esistere il mio essere. Né sono stato gettato: il mio essere obbedisce a un ordine: “Esisti!”». In HESCHEL A. J. Chi è l’uomo?, Milano, 2005, 114.
[95] STEIN E., La filosofia esistenziale di Martin Heidegger, op., cit. 187.
[96] DEL NOCE A. Il problema dell’ateismo, op. cit. 356.
[97] Sarebbe meglio dire alla verità in opposizione alla falsità piuttosto che usare la coppia autentico-inautentico, poiché i termini utilizzati da Heidegger mirano proprio a cancellare la dimensione veritativa dell’ente, mentre l’introduzione dei termini gnostici autentico in autentico esclude il rapporto tra Essere creato e Creatore che la coppia di termini verità-falsità presuppone.
[98] HEIDEGGER M. op. cit. p 450.
[99] STEIN E. La filosofia esistenziale di Martin Heidegger, op. cit. 189.
[100]STEIN E , La filosofia esistenziale di Martin Heidegger, op. cit. 178.
[101] HEIDEGGER M. op. cit. 64.
[102] Stein E, op cit. 178.
[103] HEIDEGGER M, Essere e Tempo, op. cit., 295.
[104] STEIN E, La filosofia esistenziale di Martin Heidegger, op cit. 178- 179.
[105] STEIN E, La filosofia esistenziale di Martin Heidegger, op cit. 179.
[106] HEIDEGGER M, Essere e Tempo, op. cit., Cf. par. 76 e ss.
[107] STEIN E, La filosofia esistenziale di Martin Heidegger, op cit. 179.
[108] STEIN E, La filosofia esistenziale di Martin Heidegger, op cit. 182.
[109] STEIN E, La filosofia esistenziale di Martin Heidegger, op cit. 187.
[110] STEIN E, La filosofia esistenziale di Martin Heidegger, op cit. 189.