Chiesa e Polis nell'Italia secolarizzata*
*Articolo apparso sulla Rvista Quaerite, Anno I, n° 2, Caserta, Dicembre, 2010.
Per comprendere pienamente la situazione culturale dell’Italia contemporanea e la dinamica dei rapporti Chiesa – polis in Italia, è necessario analizzare il processo genetico e quindi storico – filosofico, che ne ha determinato gli esiti irreligiosi[1] che sono sotto gli occhi di tutti. La situazione attuale ha una lunga storia, principalmente filosofica, ma anche politica. È una lunga storia che si inserisce pienamente nella storia europea, ma che in Italia ha assunto un carattere estremamente peculiare per due motivi fondamentali, il primo è determinato dal fatto che il Papa è il Vescovo di Roma, e questo comporta un legame strettissimo tra il Papa e l’Italia ed anche una particolare responsabilità del Papa nei confronti dei cattolici italiani e viceversa; e il secondo è determinato dagli esiti nichilisti che il razionalismo (intendendo con questo termine in senso ampio tutte le correnti di pensiero della modernità) ha assunto in Italia, e in particolare l’idealismo, tanto negli hegeliani Croce e Gentile, quanto nei marxisti, Gramsci e tutti gli altri novatori del marxismo italiano.
Esiste quindi una strettissima connessione tra cattolicesimo ed Italia, quasi che a noi spettasse, in quanto italiani, una particolare responsabilità di fronte a Dio circa la custodia e la propagazione del cattolicesimo. La presenza della Sede apostolica in Italia ci investe di un particolare destino, che pone l’Italia al centro della battaglia tra secolarizzazione e cristianesimo, anche all’interno della stesa Chiesa italiana e della società italiana.
È chiaro che non è possibile ripercorrere in questo contesto, interamente ed in modo particolareggiato, il processo che ci ha condotti alla situazione attuale, data la necessaria brevità di questo intervento, tuttavia cercheremo, per quanto è possibile, di ricostruirne la dinamica essenziale. Fatto ciò ci interrogheremo sulle modalità di rapporto culturale possibile che la Chiesa può assumere nei confronti di questa polis interamente secolarizzata, cercando di evidenziare i nodi problematici che possono emergere nel suo giusto tentativo di parlare di Cristo al mondo quando, in modo acritico ne assume però il linguaggio, che è sempre, va ricordato, espressione di una visione. Indubbia è la differenza profonda che esiste tra crisi del mondo antico e crisi della modernità, in quanto tra queste due epoche c’è lo spartiacque della venuta di Cristo; i due fenomeni sono quindi completamente diversi tra loro. Ecco perché le stesse equazioni teologiche e filosofiche che hanno permesso la continuità tra mondo antico e cristianesimo oggi non sono pedissequamente applicabili.
Di questa profonda differenza tra crisi dell’antichità e crisi della modernità se ne era già accordo Papa Benedetto XVI quando da giovane teologo e perito del Concilio Vaticano II scriveva in una sua opera di quel tempo: «l’assolutizzazione del pane e dell’eros minaccia anche noi non meno di quanto minacciava gli uomini dell’antichità. Tuttavia, quantunque gli dèi di allora continuino anche oggi a essere “forze” che cercano di affermarsi come assolute, esse hanno però irreparabilmente perduto la maschera del divino, per cui non ora costrette a mostrarsi senza trucco, in tutta la loro genuina profondità. È proprio qui che ha le sue radici la differenza sostanziale fra paganesimo pre-cristiano e paganesimo post-cristiano: quest’ultimo rimane segnato dalla forza plasmatrice della storia, della rinuncia cristiana agli dèi. Nel vuoto in cui oggi, per tanti aspetti, ci troviamo s’impone con sempre maggior forza l’interrogativo:qual è il contenuto dell’impegno inteso dalla fede cristiana?».[2]
5.1 Le radici della situazione culturale attuale
In questo breve intervento ci limiteremo all’analisi di alcune dinamiche filosofiche sulla scorta dei risultati delle ricerche di Del Noce [3] che periodizzava il novecento filosofico italiano dividendolo in due periodi (quello delle cosiddette religioni secolari, filosofia della libertà di Croce, marxismo e attualismo gentiliana, e quello propriamente irreligioso, rappresentato dalla “filosofia della prassi” di Gramsci, intesa come lotta per l’egemonia). Sulla scorta di Del Noce, dicevamo, possiamo affermare che è più che mai urgente prendere coscienza di questo processo e, solo dopo i cattolici italiani potranno, ci pare, prendere una posizione chiara nei confronti della polis Italia. Questa posizione, va ribadito, è prima ideale e filosofica e poi pratica. Come avremo modo di dimostrare più avanti nel terzo paragrafo di questo scritto, il tentativo gramsciano – per la natura intima stesa del marxismo – porta necessariamente al suicidio della rivoluzione. Accade che questo immanentismo puro, che è la filosofia della prassi di Gramsci, conduce – per l’eterogenesi dei fini – a saldare questo stesso pensiero con il filone neoilluminista. Sullo stesso piano potremmo porre tutti quei tentativi di riforma del marxismo dopo la morte delle ideologie, operati dai diversi filosofi italiani di matrice più o meno marxista, i quali sfociano alcuni nel pensiero debole, altri nel pensiero negativo o nel relativismo.
La Chiesa, nel suo dialogo con il mondo, necessita di una profonda chiarezza filosofica al suo interno se si vogliono evitare cadute neognoistiche o neopelagiane nel suo pensiero anche teologico. Solo in questo modo la sua teologia sarà il luogo del dialogo e non sarà ibrida e remissiva, impaurita nei confronti del mondo come gli apostoli prima di ricevere lo Spirito santo, caratterizzata da un “non – pensiero”nichilisticheggiante, assunto acriticamente dagli esiti della modernità sic et simpliciter,tanto per uniformarsi al mondo.
Il monito di S. Paolo ai romani: «Non conformatevi (suschematizesqe) alla mentalità di questo secolo, ma trasformatevi rinnovando la vostra mente (pensiero, Tou nooS) per poter discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a Lui gradito e prefetto»[4], e quello dell’autore della Lettera agli ebrei: «Gesù Cristo è lo stesso ieri, oggi e sempre! Non lasciatevi sviare da dottrine diverse e peregrine»[5], rimangono sempre attuali.
Detto questo, passiamo ad argomentare la tesi appena formulata. Come si è giunti, dunque, ad una realtà secolarizzata, in cui ogni rimando alla trascendenza verticale, cioè a Dio, viene ritenuto inutile e superfluo, tanto che la stessa questione dell’esistenza di Dio di Dio e della sua compatibilità con la ragione propriamente detta, viene decisamente elusa? Sta qui tutto il nocciolo della riduzione dell’Italia a terra di missione, in cui è forte il carattere neo-paganeggiante, di un progressismo post-cristiano. La storia filosofica di uno degli esiti del razionalismo, quello che si è imposto, in base ad una opzione fondamentale, come dimostreremo, è stata caratterizzata da un deciso cammino verso l’immanenza verso la visione prometeica dell’uomo artefice del proprio destino, dello “homo faber” appunto. Premesso che solo all’interno di una visione cristiana è possibile la rivoluzione scientifica, e dunque fatta salva la piena compatibilità di cristianesimo e sviluppo della scienza[6], va detto che proprio all’interno di questo processo si è realizzato l’esito irreligioso che è sotto i nostri occhi. E ciò in virtù di una “opzione fondamentale” per l’essere-solo-terreno dell’uomo, opzione che rifiuta a-priori la condizione di peccato originale dell’uomo stesso, la quale opzione ha avuto come esito appunto il rifiuto della trascendenza. «È verissimo – afferma Del Noce - che a fondamento dell’ateismo assoluto c’è un’opzione, cioè una considerazione di valori, prima di una considerazione di realtà. Il problema del valore della verità, viene visto come antecedente al problema della verità; è per questo che per l’ateo di oggi il problema dell’esistenza di Dio è una vana curiosità»[7]. Il che significa che il rifiuto delle ragioni, che conducono a porre come valido il problema dell’esistenza di Dio e della sua compatibilità con la ragione, precede il rifiuto di Dio.
A conferma del fatto che solo all’interno di una visione cristiana dell’esistenza e della vita è possibile una rivoluzione scientifica si tenga presente quanto segue. Tutti siamo a conoscenza del grande sviluppo delle scienze antiche nel periodo ellenistico, basti pensare, per esempio, che la macchina a vapore fu inventata da Eratostene di Micene, ma non fu mai applicata al sistema tecnico produttivo rimanendo un puro gioco intellettuale. Perché? Semplicemente perché nel mondo antico esisteva l’esercizio della schiavitù; esso si basava sul concetto della naturalità della stessa come confermato da Aristotele nella Politica[8], alla base di questa concezione c’è ovviamente un’antropologia della diversità per natura degli uomini tra loro. È pur vero che già nell’età ellenistica comincia a farsi strada l’idea di una critica dell’esercizio della schiavitù, basata sull’idea di una universale dignità di tutti gli esseri umani, ma questo solo elemento non basta da sé a produrre una rivoluzione scientifica come quella che si è prodotta nell’Europa del XVII secolo, in quanto le manca ancora un elemento essenziale, quello appunto della diversità sostanziale e della superiorità dell’uomo nei confronti natura, intesa come creatura, e del suo diritto di dominarla. Inoltre, questa concezione ellenistica rimane puramente culturale e non incide affatto il tessuto sociale fin nelle fondamenta, come avverrà invece con il cristianesimo.
Al mondo antico mancava, insomma, o l’idea dell’uguale natura di tutti gli uomini, oppure, nel caso dell’ellenismo, il vero fondamento di questa uguaglianza. Infine, va notato che quando gli arabi conquistarono l’oriente mediterraneo cristiano, assorbendo la cultura e la scienza degli antichi greci, nemmeno allora si produsse una rivoluzione scientifica, poiché solo nel cristianesimo l’uguaglianza di tutti gli uomini non dipende né dalla religione né da altro, ma dalla comune natura umana che, in quanto creatura, è opera di Dio. Certo, anche all’interno del mondo cristiano questo della eliminazione della schiavitù e del riconoscimento della pari dignità di tutti gli uomini, fu un processo lento, ma certamente inesorabile, poiché come la storia ha dimostrato, la rivoluzione scientifica si è realizzata nell’Europa cristiana ad opera di cristiani in base ai presupposti stessi del cristianesimo.
Dopo questa breve, ma importante, digressione, volendo ritornare al tema trattato bisogna ricordare che il nostro secolo viene dopo Nietzsche e ciò significa che differenza di quanto accadeva nell’ottocento, in cui la desiderabilità dell’esistenza di Dio era fuori discussione, oggi «la negazione di dio è necessaria per la possibilità di una morale, di una scienza, di una politica veramente rigorosa. Come negazione del fondamento teologico della scienza, della morale e della politica, l’ateismo di oggi nega anzitutto ciò che per la cultura filosofica dell’ottocento era indiscusso (che Dio era un valore) e inibisce perciò quel processo – che va – dal valore di Dio alla sua esistenza, tipico, in diverse forme, del pensiero ottocentesco»[9]. Gli ultimi decenni del novecento, dunque, sono stati caratterizzati dal passaggio da una visione scientista dell’ateismo ad una opzionale, ateismo che ha assunto una forma completamente diversa e presentandosi come “irreligione”. A ciò a contribuito senza dubbio in modo particolare la filosofia di Nietzsche, che è uno degli esiti del razionalismo moderno, e con lui di tutti quei filosofi novecenteschi che a lui si nono variamente rifatti. Con Nietzsche si è giunti non ad un oltrepassamento del nichilismo, ma ad un suo pieno compimento, e ciò contro gli intenti stessi di Nietzsche che presentava la sua filosofia come superamento del nichilismo. Del Noce è molto chiaro a riguardo, quando con un’intuizione veramente brillante afferma: «A mio giudizio… non può esserci ateismo completo che dopo il Cristianesimo; e ciò perché l’ateismo è caratterizzato da un rifiuto iniziale del soprannaturale, che è tutt’altra cosa da quel rifiuto della mentalità mitica che i filosofi o anche i cosiddetti atei hanno operato»[10]. Basta, infatti, considerare che il pensiero antico non conclude mai nell’ateismo. Le stesse prove medievali sull’esistenza di Dio presuppongono un clima decisamente religioso che le determini, mentre in un clima irreligioso sono del tutto impensabili. Certo, andrebbe posta la questione della indimostrabilità razionale dell’esistenza di Dio in Kant, indimostrabilità che non esclude il bisogno della Ragione pratica di postularne l’esistenza, ma non è questo il luogo per affrontare questo problema. Sta di fatto che l’ateismo che l’ateismo è il momento terminale di quelle direzioni di pensiero della filosofia moderna che ritengono necessario l’oltrepassamento della religione nella filosofia, e perciò la negazione del soprannaturale. Del rinascimentalismo, con la sua caduta nel pensiero libertino; dell’illuminismo con la sua critica della tradizione, lo spirito della nuova scienza, e gli indirizzi della religione e del diritto naturale. E, infine, della filosofia classica tedesca, con i suoi esiti inconciliabili di Marx e Nietzsche[11].
Secondo Del Noce, quindi, «nella storia abbiamo due posizioni essenziali di ateismo; l’ateismo negativo, o quel che suol dirsi nichilistico, che consiste nella dichiarazione della fine di un mondo soprasensibile che abbia potere di obbligazione. E un ateismo positivo che vuole appunto essere la critica più rigorosa di questo nichilismo; dovrà portare in Marx, alla fondazione della città ideale, nell’unificazione di due posizioni tradizionalmente opposte, il massimo dell’utopia, e il massimo del realismo storico; in Nietzsche, a una nuova sorgente di valori nella volontà di potenza»[12]. Se l’ateismo negativo era elitario, quello positivo ha come suo specifico carattere di raggiungere le masse, da ciò il carattere veramente totalitario che ha assunto l’ateismo contemporaneo. È tra l’altro proprio l’ateismo a porre la rottura – laddove c’era continuità – tra pensiero greco e cristianesimo, come vedremo più avanti. Qui interessa ribadire questo punto veramente nodale, e cioè che «l’ateismo si presenta come momento terminale di un processo di pensiero condizionato all’inizio da una negazione senza prove della possibilità del soprannaturale»[13]. Definendo con un termine ampio questo processo come razionalismo, si può concludere che alla sua origine c’è un rifiuto ingiustificato dello staus naturae lapsae dell’uomo, cioè della condizione di peccato originale, e una opzione per la sua condizione come condizione naturale In questo modo la morte diviene la condizione naturale dell’essere umano, il che sappiamo è inammissibile per la nostra fede, nemmeno come ipotesi teologica, come avremo modo di discutere nel capitolo terzo. Se nella prima fase dell’ateismo si è passati dalla concezione di un Dio trascendente alla concezione di un divino immanente, fase che corrisponde al primo novecento dominato dal pensiero di Gentile e Croce; nella seconda fase si è passati dal divino immanente all’immanentismo puro, caratterizzata da tre sottoperiodi, del pensiero classico di Marx, dalla riforma del marxismo operata da Gramsci e dal superamento del marxismo nei pensatori marxisti del secondo novecento che variamente si sono rifatti a Nietzsche, Heidegger, Freud, Wittegenstein, solo per citarne alcuni.
Ben a ragione Del Noce afferma che «l’attitudine razionalista altro non è che l’assunzione, in conseguenza dell’iniziale rifiuto della caduta, della condizione attuale dell’uomo a sua condizione normale»[14] con il suo conseguente destino di morte, che in quest’ottica diviene veramente un destino e non un’esperienza di passaggio verso la vita cha ha da venire. È chiaro che la conseguenza logica di questo presupposto, e cioè dell’assunzione della realtà decaduta a realtà naturale, è che la morte diviene appunto un destino. Va aggiunto che alla religione si è sostituita la politica come forza liberatrice e salvatrice dell’uomo, e questo comporta la necessità di una riflessione in campo ecclesiale circa i rapporti con la polis secolarizzata nell’orizzonte della politica propriamente detta. Il problema però che ora si pone, al fine di comprendere meglio la situazione culturale dell’Italia di oggi, è quello di confrontarci con gli esiti del pensiero gramsciano.
5.2 La questione gramsciana della filosofia della prassi
Per quanto paradossale possa sembrare a primo acchito sulla scorta di Augusto Del Noce, il quale scriveva a chiare lettere come l’attualismo fosse una «posizione filosofica ulteriore al marxismo, termine ultimo a cui può giungere la filosofia della prassi dopo Hegel» eche in quanto tale «può essere pensato e vissuto nella forma “romantica” di continuità con la tradizione, che fu di Gentile, o in quella “illuministica” di scissione rivoluzionaria che fu di Gramsci»,[15]la tesi che sosteniamo è che Gentile e Gramsci rappresentino le due possibilità della filosofia dell’attualismo. Quanto il pensiero di gentile per Del Noce sia nodale per comprendere la modernità lo possiamo cogliere dalla seguente affermazione che lega il pensatore dell’attualismo non solo a Gramsci, ma anche allo stesso Heidegger, che tanto perso ha pure avuto nella cultura italiana dagli anni ’70 in poi. Del Noce scrive testualmente: «Se ben si guarda, la visione heideggeriana della storia della filosofia, quale emerge dal suo libro su Nietzsche, coincide singolarmente con quella proposta da Gentile, ma con segno rovesciato: è cioè, letta come processo verso il nichilismo. In questo senso, penso sia possibile dire che la filosofia di Heidegger è la verità della filosofia di Gentile, quella verità di cui Gentile non si accorse; o che la filosofia di Gentile è la conferma ante litteram della diagnosi di Heidegger»[16].
Ma veniamo al legame Gentile – Gramsci. Per comprendere appieno questa relazione è necessario comprendere il profondo legame che c’è tra Gentile e Marx, e tra Gramsci e quest’ultimo. Inoltre, va tenuto presente che «il carattere che accomuna le filosofie di Marx e di gentile è di essere, entrambe, svolgimenti dell’hegelismo nel senso della filosofia della prassi»[17]. Il paradosso solamente apparente sta nel fatto che Gramsci, nel suo tentativo di ripensare il marxismo oltre Croce, non trova Marx, ma Gentile[18]. Ma proprio questo aspetto va qui fortemente sottolineato, in quanto una filosofia del primato del divenire come quella di Gramsci, dopo che ha elaborato un concetto di rivoluzione totale, quando giunge al suo punto ultimo, non può che rovesciarsi nel nichilismo. Con ciò si intende che la perdita dell’aspetto rivoluzionario, comporta all’interno del pensiero stesso rivoluzionario una caduta nella dialettica negativa che si presenta come incapacità di costruire un mondo nuovo, ma che rimane solo come forza negativa demitizzante e perciò solamente distruttrice. È ciò che è accaduto a tanta cultura Italia di matrice marxista e post marxista dopo il 1989. Se si considera, infatti, questo aspetto ovvero di quanta e quale sia stata l’influenza di questo pensatore, teorico della lotta per l’egemonia, si comprenderà non solo l’urgenza di fare i conti con lui, ma attraverso questi, che ora sono storico – filosofici, pure si possono fare i conti con gli altri pensatori di area laica e post – marxista che tanto perso hanno tutt’ora nel dibattito filosofico italiano[19].
È necessaria però, a questo punto, una breve ricostruzione del pensiero di Gramsci, allo scopo di comprendere gli esiti nichilisti contenuti nella sua filosofia. Questa, per il pensatore sardo è una visione del mondo, una “Weltanshcauung”, e dunque per lui «Marx è un creatore di Weltanschauung»,[20] per marxismo, dunque, Gramsci intende la “filosofia della prassi”enunciata nella famosa XI tesi di Marx su Feuerbach secondo cui finora i filosofi si non limitati ad interpretare il mondo, ora si tratta di cambiarlo[21]. Per inciso, questa è poi la novità di Marx rispetto ad Hegel; egli, infatti, sostituisce il rivoluzionario al filosofo, il partito al sistema filosofico e la politica come azione alla storia della filosofia. l’affermazione di Gramsci sta a significare che in Marx si costituisce un nuovo modo di vedere le cose; anzi, di farle. La conseguenza estrema di questo ragionamento è che a differenza di Marx, e di gran parte dei marxisti classici, per esempio Lenin, i quali identificavano la società civile con la struttura economica, Gramsci identifica la società civile con la sovrastruttura, il che sta a significare che la lotta per l’egemonia culturale precede e non segue la conquista materiale del potere. Ora, sappiamo quanto questa concezione della lotta per l’egemonia culturale abbia guidato l’azione del PCI in Italia prima del 1989.
L’idea di Gramsci è che l’immanentismo totalitario, come lo chiamava lui, deve raggiungere le masse e il partito degli intellettuali dev’essere la guida di questo processo, elemento questo tipicamente illuminista, e deve sostituirsi alla Chiesa in Italia, e questo è proprio ciò che Gramsci andava sostenendo nel 1919 su Ordine Nuovo[22]. Nel panorama dell’attualismo, una posizione, quella risorgimentale restaurativi, portò Gentile all’adesione al fascismo, quella rivoluzionaria al Gramsci. «Si tratta tuttavia – scrive Del Noce - di una rivoluzione che si rovescia in dissoluzione: il nome di questa riduzione che si rovescia in dissoluzione è recente: “contestazione”»[23]. In questo modo la filosofia della prassi di Gramsci diventa, suo malgrado, un elemento decisivo della modernizzazione «vista come passaggio da una società unificata in una religione trascendente a una società unificata in una concezione immanentistica della vita»[24] verso cui tende di fatto il clima culturale italiano attuale. In ultima sintesi la filosofia della prassi gramsciana è la concezione storicistica della realtà liberata da ogni residuo di trascendenza e di teologia anche nella loro ultima manifestazione come filosofia speculativa. Questo ultimo aspetto che era ancora presente nella filosofia di Croce, e contro cui si scagliava violentemente Gramsci nella sua polemica anticrociana, era già completamente sparito dalla filosofia di Giovanni Gentile.
L’idea di fondo di Gramsci, quella espressa più volte nei Quaderni del carcere, è proprio quella di «colmare la frattura tra il basso e l’alto, portando al popolo la concezione immanentistica e secolarizzata della vita»[25]. Prima cosa da fare era conquistare l’egemonia in campo laico abbattendo Croce e poi conquistare il mondo cattolico ad una visione decisamente totalitaria. Va sottolineato che questo carattere totalitario il pensiero cosiddetto laico lo conserva tuttora sia con una piena egemonia nel campo dell’industria culturale e della scuole e sia dal punto di vista strettamente filosofico come dittatura del pensiero che marginalizza le forme religiose impedendo loro di avere piena cittadinanza nel panorama culturale italiano, a meno che non si adeguino ai parametri immanentistici e laici. In un certo senso l’interpretazione gramsciana del marxismo, come del resto quella leninista, è la più nietzschiana possibile, o il che è lo stesso, essa si traduce in attualismo puro. In termini politici la riflessione di Gramsci significa allora essenzialmente questo: «Il senso comune tradizionale riflette la mitologia religiosa; le domande che esso propone non sono dissociabili dalla vecchia civiltà che ha le sue radici in questa mitologia. La prima è quella dell’esistenza di Dio, […]. Se la nuova civiltà è legata alla concezione immanentistica della vita essa potrà realizzarsi soltanto a condizione che il problema religioso, nel senso tradizionale sia scomparso come problema»[26]. Da qui l’attacco alla Chiesa, e veniamo al tema che ci sta cuore, che, iniziatosi nel cuore dell’età moderna trova la sua prima manifestazione nell’azione politica in Italia dall’Ottocento ad oggi. Per far ciò, Gramsci sostituisce al Dio della concezione trascendente l’io collettivo della concezione immanente, al clero gli intellettuali, il partito alla Chiesa. E in ciò va anche compresa la lotta contro la Chiesa che parla della Verità e in nome della Verità e, dunque, sostenendo essa sola oggi la necessità di una vera filosofia. Questo punto era stato perfettamente colto dall’allora Papa Giovanni Paolo II, quando nella Enciclica Fides e t Ratio scriveva che la Chiesa pur non proponendo una filosofia coglieva la necessità di una ripresa della ragione in termini di ricerca della verità, poiché senza una ragione capace di cogliere la verità anche la fede perdeva il suo valore di comprensione del divino scadendo nel sentimento[27]. Infatti, «il termine di filosofia – sottolineava Del Noce - è legato a quello di verità; il termine ideologia a quello di potere»[28]. Potere che oggi si manifesta anche come volontà di potenza. Il compito del comunismo consiste allora per Gramsci nel portare al popolo il secolarismo integrale, «realizzando così in forma moderna quell’unità spirituale tra gli intellettuali e i semplici che la Chiesa aveva saputo creare nel Medioevo»[29].
Se però, in Marx la fine della religione era il risultato della società senza classi, in Gramsci, invece, la fine della religione è la premessa necessaria per la rivoluzione. Ecco perché in Italia la lotta contro la Chiesa ha generato un fronte comune tra pensiero laico neo – illuminista e pensiero post – marxista, costante che, velatamente o meno, è rimasta anche nella visione di molti intellettuali odierni di matrice marxista. Ha perfettamente ragione Del Noce quando, con evidente rammarico, affermava che «la cultura di ispirazione gramsciana ha praticato in Italia questa pedagogia con i risultati che tutti possono vedere»[30]. Si pensi al mercato librario, ai giornali, alla televisione, al cinema, a quei settori dell’industria culturale ancora oggi ideologgizzata – di un’ideologia laica e anticattolico - alla scuola, all’università. Qualcuno potrebbe dire che non è vero, poiché tra mondo laico e mondo cattolico c’è una forte convergenza tematica. Ciò è vero, solo a patto che il mondo cattolico adotti le categorie di pensiero e le analisi filosofiche del mondo laico, facendole proprie ed elaborando a partire da queste la sua teologia. Ma ciò comporta, il terribile rischio, come tenteremo di dimostrare, di snaturare la stesa teologia e la conoscenza di sé che ha la chiesa, rendendola una semplice associazione filantropica. Ecco perché è veramente urgente che la Chiesa italiana, nei suoi intellettuali e teologi, prenda coscienza di questo processo e produca, in relazione ad esso, una vera controcultura non ibridata da queste stesse categorie di pensiero relativista, dissolutore e nichilista. Ed è normale che, per come si è sviluppato, il pensiero di Gramsci si inserisca pienamente in quest’epoca post – comunista diventando paradossalmente uno degli elementi con cui le società opulenta, per usare un termine caro a Del Noce, e mercantile giustifica e afferma se stessa.
Un’ultima considerazione va fatta prima di passare oltre. È indubbio che nel panorama filosofico italiano il pensiero di Gramsci rappresenta la crisi definitiva del pensiero italiano di matrice hegeliana; infine, non bisogna dimenticare che «c’è un punto che accomuna Croce, Gentile e Gramsci: la convinzione che l’immanentismo sia un risultato del pensiero moderno tale da non poter più essere messo in discussione, così che soltanto si tratta di pensarlo e di viverlo fino in fondo»[31]. È proprio questo il punto centrale della questione, che va decisamente superato, se si vuole ricominciare a pensare in Italia in modo nuovo, poiché questo di cui si tratta è solo uno degli esiti del razionalismo moderno; l’altro quello che va da Cartesio ad Husserl e ad Edith Stein, e che è ancora tutto da percorrere, porta il pensiero moderno di nuovo a Dio. Basti pensare che la «riforma grmasciana ha avuto la funzione di produttrice di miscredenza” in un processo che, se ha messo in crisi le fedi religiose avverse, ha finito col far lo stesso anche con la propria. […] possiamo parlare di trionfo della ragione strumentale. Il destino del marxismo è di far da transizione al positivismo e allo scientismo»[32]. Ma lo scientismo oggi vigente è una concezione totalitaria, perché a lei è
«essenziale la negazione dei valori tradizionali, dissolti nelle condizioni psicologiche e sociali che sono occasione al loro sorgere»[33]. Il pluralismo diventa maschera del nichilismo e della ragione strumentale, della perdita della propria identità costitutiva senza la quale nessun dialogo è possibile. È vero proprio il contrario, solo la piena conoscenza della propria identità rende possibile il dialogo e l’apertura, ma la propria identità va coltivata e nutrita.
5.3 La vexata quaestio del teorema di S. Giustino nell’età dell’irreligione
Alla luce di quanto dettoci pare necessario riflettere su alcuni punti. Innanzitutto, bisogna affermare con forza che, sebbene in valore assoluto, il teorema di S. Giustino, circa i rapporti tra cristianesimo e filosofia, è perennemente valido; in valore relativo, in relazione cioè alla situazione attuale, una sua pedissequa applicazione potrebbe comportare degli errori estremamente pericolosi sia per una retta filosofia cristiana e sia per una proficua riflessione teologica. E questo non dipende né dal deposito della fede né dalla teologia di Giustino; ciò dipende, invece, da una fatto di matrice squisitamente filosofica.
La filosofia antica, che come abbiamo visto non conduceva affatto all’ateismo, era una filosofia bene o male animata e orientata dalla ricerca della verità, dunque una filosofia alla rivolta al Logos e alla quale, con le dovute cautele, ben si addiceva il teorema del filosofo martire. La filosofia contemporanea, invece, per tutto il discorso fin qui fatto, è una filosofia dell’immanenza, e dunque completamente refrattaria ad ogni apertura alla trascendenza. Vediamo di chiarire questo punto cruciale. Nella II Apologia Giustino espone con estrema chiarezza il rapporto che intercorre tra filosofia e Kerigma. Egli afferma, infatti, «tutti i principi giusti che i filosofi e i legislatori hanno scoperto ed espresso, li devono a quello che hanno trovato e contemplato parzialmente nel logos»[34]. In modo ancora più chiaro espone la sua dottrina più avanti quando dice chiaramente «tutto quello che di buono è stato formulato da chiunque appartiene a noi cristiani»[35]. Ciò significa proprio che in valore assoluto il bene che c’è anche fuori della Chiesa è ispirato da Dio e comunque è ordinato a Lui, in valore relativo, ciò significa che oggi non si può elaborare un pensiero teologico a partire dagli esiti della modernità che sono di fatto anticristiani. Di ciò era pienamente consapevole Edith Stein quando proprio all’inizio del suo capolavoro Essere finito ed essere eterno scriveva con estrema lucidità che, se pur con le dovute diversità «se possiamo considerare predominante il problema dell’essere tanto nel pensiero greco che in quello medievale […], constatiamo che il pensiero moderno staccatosi dalla tradizione, è caratterizzato dal fatto d’avere considerato centrale il problema della conoscenza invece che quello dell’essere e d’aver sciolto il legame con la fede e la teologia. »[36]. Non avendo più visto nella verità rivelata un criterio per valutare i suoi esiti, non è stata più disposta a farsi dare compiti dalla teologia per poi risolverli con i suoi strumenti. Limitandosi alla pura ragione kantinanamente intesa, che opera solo entro i limiti della sola esperienza matematicamente verificabile è divenuta una scienza autonoma e «ne conseguì che diventò anche, in larga misura , una scienza priva di Dio»[37].
Non è possibile elaborare, in modo acritico, una teologia a partire dai risultati della scienza, che, va detto, sono puramente ipotetici e, dunque, appartengono ad un piano diverso da quello della verità e dell’essere; né si può partire dagli esiti della filosofia hegeliana, heideggeriana o marxista. Da questo punto di vista ci pare che proprio da una acritica assunzione di questi esiti nichilisti del pensiero contemporaneo consegua l’incongruenza e l’assurdità degli sviluppi della riflessione teologica di Vito Mancuso che per certi aspetti diviene emblematica. Innanzitutto il rifiuto del “Principio di Autorità”, ma proprio perché il teologo brianzolo parte dall’assunzione acritica degli esiti del pensiero moderno in L’anima e il suo destino[38] giunge a porre in discussione alcuni punti fondamentali della dottrina cristiana. Quali sono sinteticamente questi punti? Eccoli come egli stesso li espone nel suo sito web[39].
«Nel libro L’anima e il suo destino Vito Mancuso dichiara di non accettare quattro dogmi della dottrina cattolica:
- l’origine dell’anima come creata direttamente da Dio al momento del concepimento umano senza nessun concorso dei genitori;
- il peccato originale come stato di inimicizia con Dio nel quale nasce ogni bambino a causa del peccato di Adamo;
- la risurrezione dei corpi di carne nel giorno del giudizio universale e la loro sussistenza eterna;
- la dannazione eterna dell’Inferno come insuperabile stato in cui arderanno per sempre, irrimediabilmente separate da Dio, prima le anime, poi anche i corpi, dei malvagi.
Vi sono però anche altri asserti dottrinali che vengono messi in crisi dal suo pensiero, in particolare il legame morte-peccato (che viene negato riconducendo la morte non al peccato ma alla natura stessa dell’essere creato) e la salvezza come redenzione mediante la morte e risurrezione di Cristo (che viene negata legando la salvezza eterna non a un singolo evento storico ma alla vita giusta e buona così da poter includere i giusti di tutti i tempi e di tutti i luoghi, compresi gli atei e gli agnostici, in perfetta coerenza con l’insegnamento fondamentale di Gesù quale emerge dai vangeli).In ambito etico Mancuso si è più volte dichiarato a favore di: contraccezione, fecondazione assistita, principio di autodeterminazione per il fine vita, donazione alla ricerca delle cellule staminali embrionali derivate da fecondazione assistita e ora crioconservate (stimate in circa trentamila)»[40].
Qui non formuliamo un giudizio teologico, che non spetta a noi, ma ci limitiamo ad una riflessione filosofica sulle cause che hanno determinato questa concezione, con la quale, ci teniamo a dire, non ci identifichiamo affatto. A parte la presenza di una confusione concettuale tra piani diversi, quello della scienza puramente ipotetico e quello della teologia, metafisico, riferendoci ad un articolo di Mancuso pubblicato su La Repubblica, vorrei limitarmi a qualche considerazione intorno al “Principio di Autorità” tanto contestato dal teologo brianzolo, prima di passare alla questione dell’anima. Nonostante le premesse veramente lodevoli, ricondurre l’uomo postmoderno a pensare Dio, gli esiti cui egli giunge non sono accettabili, proprio perché anch’essi si inscrivono pienamente nella dissoluzione della metafisica di cui la modernità si è fatta portavoce. Non crediamo che si possa pensare Dio a partire da questi esiti, come invece ritiene il Nostro, per il fatto che proprio tale posizione conduce la teologia a posizioni inaccettabili e molto lontane, a nostro modesto parere, da una qualunque possibilità di teologia cristiana. Ci pare insomma che il suo discorso risulti svuotato di ogni senso, proprio perchè parte da quegli esiti che vanno invece profondamente criticati. Nell’articolo citato egli scrive tra l’altro «l’impostazione dominante rimane oggi : la teologia si esercita nella Chiesa e per la Chiesa e deve avere un esplicito controllo ecclesiale. Nel documento La vocazione ecclesiale del teologo, firmato dal cardinal Ratzinger nel 1990, il nesso chiesa – magistero - teologia è strettissimo. A mio avviso è precisamente questo nesso che oggi la teologia deve sottoporre a critica. Perché il cristianesimo possa continuare a vivere in Europa, è necessario che la teologia liberi il pensiero di Dio dalla forma rigidamente ecclesiastica impostale lungo i secoli con la morsa degli anathema sit e faccia entrare l' aria pulita della libertà»[41].
Innanzitutto va ricordato che quando si parla di “principio” si parla sempre e comunque di “autorità, ordine, gerarchia, comando”, come insegna l’etimo stesso della parola greca ’Αρχη'. Mancuso, invocando la posto del principio di “autorità” – che a nostro parere rimane l’unico legittimo in sede di teologia, quello di “autenticità” non fa che passare da una forma di autorità ad un’altra, con la conseguenza di non avere nella seconda nessun criterio oggettivo per poter determinare ogni qualsivoglia controversia. Qual è infatti l’autorità che pur invoca il teologo? Sempre nello stesso articolo quando parla di “autenticità” in relazione al magistero afferma: «Non sto auspicando la scomparsa del magistero, ma il superamento della convinzione che la verità della fede si misuri sulla conformità a esso. Ciò che auspico è l' introduzione di una concezione dinamico evolutiva della verità (verità uguale bene) e non più statico-dottrinaria (verità uguale dottrina). Una teologia all' altezza dei tempi non può più configurarsi come obbedienza incondizionata al papa. L' obbedienza deve essere prestata solo alla verità, il che impone di affrontare anche le ombre e le contraddizioni della dottrina».[42]
Noi sosteniamo, invece, che la ragione umana, pur non potendo mai comprendere appieno la Verità che è Cristo, nella comprensione dio rimane sempre vincolata alla fede e al primato di Pietro. In più, Mancuso ritiene che «un’affermazione dottrinale non sarà vera perché corrisponde a qualche versetto biblico o a qualche dogma ecclesiastico, ma perché non contraddice la vita, la vita giusta e buona»[43]. Al principio di cui parla Mancuso, opponiamo il “Principio monarchico della partecipazione o Principio di Partecipazione” di cui abbiamo parlato in La Ragione oltre la Ratio[44]. Brevemente qui diciamo che tale “principio di Partecipazione” si fonda sul “principio di Autorità” all’interno del quale si realizza uno spazio ermeneutico per il credente in cui risuona la parola di Dio. La descrizione di questo spazio compete ovviamente al Magistero. e l’interpretazione del Magistero Ci sembra, inoltre, che quanto da lui detto sia in contraddizione con quanto affermato dal Concilio Vaticano II[45], inoltre, quando egli parla di vita a cosa si riferisce? A ciò che intendeva Nietzsche? A ciò che intende la biologia? Quando poi invoca il sistema aperto e riferito alla vita che ragiona in base alla logica vero – falso, la posto di quello che ragiona in base alla logica ortodossia – eterodossia, ha presente che per distinguere il vero dal falso c’è bisogno di un criterio, e poiché qui si discute delle cose di Dio, la sola ragione non basta, ma è necessario il Magistero di Pietro? E quando invoca la vita come criterio a cosa si riferisce? Dimentica forse che la vita è ragione dispiegata, cioè logos? A conferma di quanto andiamo dicendo si tenga conto di quanto andava scrivendo nel 1968 l’allora professore di teologia, e perito teologo al Concilio Vaticano II per il Vescovo di Monaco, Joseph Ratizinger «Dio, che è Logòs, assicura all’uomo la sensatezza dell’esistere, la corrispondenza della ragione a Dio, sebbene la sua ragione travalichi continuamente la nostra e spesso possa sembrarci oscura. Il mondo nasce dalla ragione e questa ragione è persona, amore: è questo il messaggio della fede biblica in Dio. La ragione può parlare di Dio, deve anzi parlare di Dio, se non vuole amputare se stessa. Alla ragione è legata l’idea della creazione».[46] Come non è stato un caso che Gesù Cristo nascesse ebreo e non poteva che nascere tale in virtù della storia della salvezza, così non è stato un caso che il cristianesimo si inculturasse nel mondo greco confrontandosi con la storia del pensiero greco. Noi sappiamo che la vita è Cristo, anzi come recita il Vangelo di Giovanni nella famosa preghiera sacerdotale di Gesù: «Questa è la vita eterna: che conoscano Te, l’unico vero Dio, e colui che hai mandato, Gesù Cristo».[47] Custode di questa via, verità e vita, è la Chiesa.
Com’è lontana, la teologia di Mancuso, da quella di S. Giovanni della Croce, Dottore della Chiesa, quando nel Prologo della Salita del Monte Carmelo scriveva: «Se io affermando qualcosa con l’aiuto o meno dei Libri Santi, incorrerò in qualche errore, dichiaro che non è mia intenzione discostarmi dal retto giudizio e dalla sicura dottrina della santa Chiesa cattolica, in tal caso riassoggetto e mi sottometto completamente non solo a lei, ma a chiunque ne giudicasse con più competenza».[48] La teologia dei Padri della Chiesa e dei Dottori della Chiesa era una teologia fatta dai Santi, questa, spesso, se non sempre, è una teologia fatta da intellettuali. Per concludere vorrei fare alcune considerazioni. Quando nel Vangelo di Giovanni al capitolo 20 si racconta della resurrezione , si dice: «Uscì allora Simon Pietro insieme all’altro discepolo, e si recarono al sepolcro. Correvano insieme tutti e due, ma l’altro discepolo corse più veloce di Pietro e giunse per primo al sepolcro. Chinatosi vide le bende, me non entrò. Giunse intanto anche Simon Pietro che lo seguiva ed entrò nel sepolcro, e vide le bende per terra, e il sudario che gli era stato posto sul capo, non per terra con le bende, ma piegato in un luogo a parte. Allora entrò anche l’altro discepolo, che era giunto per primo al sepolcro, e vide e credette».[49] Ciò sta a significare, ci pare, che il teologo, ovvero “l’altro discepolo”, qualora giunga per primo a comprendere qualche verità, attende che entri “Simon Pietro”, cioè il Magistero della Chiesa, il Papa, e che questi attesti, poi, umilmente entra anche lui, vede e crede, e mai viceversa.
5.4 Una proposta di ricerca
Cerchiamo adesso di delineare un tragitto possibile, dove Tradizione, Magistero, Sacra Scrittura e Filosofa moderna possano incontrarsi nel loro comune servizio alla Verità. diciamo subito che quest’incontro è possibile nella linea che da Husserl va ad Edith Stein e non in quella Heideggeriana o nietzschiana.[50] Heidegger, per esempio, cui spetta il merito indiscusso di aver reintrodotto nel panorama della filosofa contemporanea la questione dell’essere, ha il demerito di aver concluso il suo pensiero nel nichilismo, proprio per aver ignorato completamente il pensiero medievale.
Un discorso intorno all’anima, tanto per rimanere nell’ambito del discorso fatto finora, può essere felicemente condotto a partire dagli esiti della modernità se, come ha fatto la Stein, si parte dalla fenomenologia husserliana e dal pensiero tomista. Qui daremo solo qualche breve cenno di questa via tanto per mostrare come la filosofia moderna, quando è aperta alla verità, non si allontana dalla Tradizione, ma ne rilegge, con la sensibilità moderna, i punti nodali nel suo porgerli all’uomo contemporaneo. E. Stein, partendo dalle ricerche da lei compiute nell’ambito della fenomenologia trascendentale, ritiene che non è in contraddizione col discorso da lei portato avanti dire che «l’anima dell’essere umano, con la sua struttura specificatamente umana e personale, è una forma. Non solo forma corporis, ma di tutto ciò che l’essere umano è come essere animale».[51] Per cui, ogni uomo possiede il proprio intelletto, avendo ognuno la propria anima che è pura forma sussistente. Certo, va fatta una distinzione tra l’uso del termine anima in psicologia e nella fenomenologia trascendentale. Qui il termine anima della tradizione tomista si concilia perfettamente con il concetto di “Io personale” che emerge dalle ricerche della Stein.[52] In Introduzione alla filosofia la filosofa di Breslavia scriveva che «l’anima, intesa nel senso della psicologia, comincia da esistere con l’esistenza dell’essere vivente a cui appartiene e finisce con la sua morte. Tra questi due punti limite si pone la durata dell’essere, che viene riempita dallo sviluppo dell’anima. Essa non si presenta subito nell’esistenza, piuttosto prende possesso delle sue qualità nel corso della sua vita concepita come un continuo mutamento. Può esistere soltanto connettendosi in modo reale ad un corpo e cessa quando il corpo perde al sua vitalità rimanendo come semplice corpo materiale. In contrapposizione a questo modo di intendere l’anima, in senso religioso-metafisico si dice che essa sia immortale, si unisce con il corpo vivente, ma no ha bisogno dell’esistenza di questo per la sua esistenza, è una realtà semplice (che quindi non attraversa alcuno sviluppo, durante il quale entra in possesso delle sue qualità). Questo secondo modo di intenderla si accorda pienamente con quanto abbiamo detto in merito all’anima nel significato specifico del termine da noi utilizzato, con l’essere intimo nel quale si esprime nella maniera più pura il “nucleo della persona”».[53] Questo semplicemente per tracciare una possibile rotta di percorso in cui modernità e tradizione cattolica combaciano e camminano assieme.
Ma ora, volendo ritornare al tema delle nostre riflessioni, osserviamo con Del Noce che «nella crisi libertina abbiamo la rottura della verità cattolica e umanistica dell’antico col cristiano; nel marxismo abbiamo la rottura di questa unità nella forma che era stata riaffermata da Hegel».[54] E dunque l’anticristianesimo della modernità si salda, da una parte con l’eliminazione libertina di quegli elementi che nel mondo antico prefiguravano il cristianesimo, e dall’altra con la riduzione marxista del pensiero a prassi, ovvero a tecnica che trasforma il mondo. Per quanto riguarda l’Italia, volendo usare un’espressione cara a Gadamer, non bisogna dimenticare la “storia degli effetti” del gramscismo sulla situazione attuale, in quanto «il comunismo gramsciano risolve la rivoluzione nella modernizzazione, ma […] questa modernizzazione è da intendere come dissoluzione completa di spirito borghese da cristianesimo».[55] Nel quadro attuale le “ceneri di Gramsci”, parafrasando Pasolini, saldatesi con lo scientismo neoilluminista producono da una parte una «concezione totalitaria della scienza, per cui essa si presenta come l’unica conoscenza vera»[56], e dall’altra, la dissoluzione nichilista dei valori in cui neoiluminismo e pensiero gramsciano si fondono. Alla fine ci si trova di fronte al paradosso, solo apparente - ma determinato in realtà da quella che Del Noce chiamava l’eterogenesi dei fini – non ad una conciliazione del liberismo col socialismo, ma quella del comunismo con l’ordine capitalistico – borghese e nella forma del totalitarismo[57], che si manifesta nella censura del domandare piuttosto che nella repressione delle risposte.
Dobbiamo a questo punto del discorso fare alcune brevi considerazioni conclusive. Qual è, dunque, il compito della riflessione teologica italiana in questa polis secolarizzata? Certamente va colto l’elemento di continuità che emerge dal Concilio Vaticano II con la Tradizione. Infatti, un’ermeneutica del Concilio in chiave di rottura con la Tradizione sarebbe un grave errore di lettura. Significherebbe introdurre un concetto gnostico, e quindi non cristiano, nella comprensione del Concilio stesso, il che è completamente alieno dallo Spirito del Vaticano II. In più, va tenuto presente che il compito del dialogo con il mondo non può avvenire tramite lo svuotamento di senso del deposito della fede a scapito della sua omogeneità con il magistero, la Tradizione e la Sacra Scrittura, anche questo sarebbe un concetto gnostico che comporterebbe uno svuotamento dell’essere stesso della Chiesa e una sua riduzione a qualcosa di puramente umano. Infine, va ricordato che lo sviluppo della modernità, per come si è realizzato, è segnato da una anticattolicità marcata che ne caratterizza lo sviluppo e gli esiti avversi alla Chiesa cattolica. Se è vero, come è vero, che si è parlato di un esito totalitario degli sviluppi della modernità, si può tranquillamente parlare di esiti anticattolici e di totalitarismo anticattolico che caratterizzano la situazione attuale nell’ambito delle idee e delle politiche susseguenti.
Tirando le somme, si può dire che nel progetto di una ricostruzione del tessuto sociale della nostra polis secolarizzata, che può e deve avvenire, la funzione della Parrocchia è certamente strategica. Ma questa ricostruzione dovrebbe partire da una profonda chiarezza sul senso della nostra vocazione cristiana nel contesto attuale e dovrebbe essere tesa all’evangelizzazione; con ciò si vorrebbe dire che è necessario cogliere anche quel senso di “spada” e di “fuoco” di cui Gesù parlava quando annunciava il Regno.
[1] Cf. A. DEL NOCE, Il problema dell’ateismo, Il Mulino, Bologna, 1964, IV ed. 1990, pp. 208 . 293 – 333. Con questo termine Del Noce intende lo stadio finale dell’ateismo, in cui al posto di una opposizione – sostituzione della filosofia alla religione si determina una chiusura alla questione stessa del religioso, definito inutile, e demitizzato a partire da uno studio puramente genetico del fenomeno .
[2] J. RATZINGER, Introduzione al cristianesimo, Queriniana, Brescia, 2007, 106.
[3] Cf. A. DEL NOCE, Il problema dell’ateismo, op. cit. 343 – 350.
[4] (Rm 12,2)
[5] (Eb 12, 8 -9a)
[6] Labethonnière, specialista francese di Cartesio, citato da Del Noce in A. DEL NOCE, Appunti sulla irreligione occidentale, in A. DEL NOCE, Il problema dell’ateismo, op cit. pp. 307 – 312, confrontando la fisica aristotelica con quella cartesiana dimostra come solo all’interno di una concezione fisica di tipo cartesiano è concepibile una rivoluzione scientifica che potesse includere un radicale cambiamento dell’atteggiamento dell’uomo nei confronti della natura. Aristotele concepiva il mondo come un insieme di forme perfette da contemplare, Cartesio lo concepisce come una macchina che agisce temporalmente e che lo scopo di tale conoscenza consiste non tanto nella contemplazione quanto, invece, nell’impararne i segreti per controllarne le forze ed utilizzarle a vantaggio dell’uomo. La fisica di Aristotele viene definita come la fisica dell’artista, lontana dai bisogni dell’uomo, la seconda, quella cartesiana, come una fisica da ingegnere, che considera il mondo come qualcosa che può e deve essere posseduto. La prima è concepita in un mondo che giustifica la schiavitù, la seconda in una visione della vita che vuole liberare l’uomo da ogni schiavitù, in uno spirito, quindi, decisamente cristiano. E questa concezione cristiana è in piena sintonia con il dettato biblico di riempire la terra e di soggiogarla, dominando su tutti gli esseri terreni. L’impalcatura della fisica cartesiana si fonda su di una distinzione tra l’uomo e il mondo determinata dal cogito. La fisica cartesiana e la tecnica che le è congiunta sono di origine cristiana per la concezione di fondo che ne ha permesso il sorgere; dipende da una verità cristiana l’affermazione della trascendenza dell’uomo sul mondo. Per quanto paradossale possa sembrare, in riferimento al clima neoilluminista nel quale ci troviamo a vivere, laddove esiste un’idea dell’uomo immago Dei, superiore per destino e per natura all’intero creato, solo in una visione biblica giudeo – cristiana, dunque, lì è possibile l’idea di una rivoluzione della scienza e della tecnica. Insomma, alla base della rivoluzione scientifica del ‘600 c’è la visione cristiana dell’uguaglianza degli uomini dinanzi a Dio, pur nella loro irriducibile diversità soggettiva. E questa connessione è tanto forte che Del Noce stesso, nel testo citato, riconosce che una negazione radicale della tecnica non potrebbe quindi essere che negazione dello stesso cristianesimo.
[7] A. DEL NOCE, Il problema dell’ateismo, op. cit. p. 343.
[8] ARISTOTELE, Politica, I, 4 – 5 (1254a14 – 1255a2) in ARISTOTELE, Opere, trad. it. di R. LAURENTI, Laterza, Roma – Bari, 1984, vol. IV.
[9] A. DEL NOCE, Il suicidio della rivoluzione, Rusconi, Milano, 1978, p. 345.
[10] A. DEL NOCE, Il problema dell’ateismo, op. cit. p. 346.
[11] Cf. A. DEL NOCE, Il problema dell’ateismo, op. cit. p. 348.
[12] A. DEL NOCE, Il problema dell’ateismo, op. cit. p. 348.
[13] A. DEL NOCE, Il problema dell’ateismo, op. cit. p. 356.
[14] A. DEL NOCE, Il problema dell’ateismo, op. cit. p. 356.
[15] Grassetto nostro. A. DEL NOCE, Il suicidio della rivoluzione, op cit. p. 146. L’esito della filosofia di Gentile, di cui Gramsci è l’altra faccia, è consistito nel portare alle estreme conseguenze il pensiero hegeliano. In effetti l’attualismo gentiliana, che ha come data di nascita il 1899 con la pubblicazione dell’opera La filosofia di Marx, si presenta come una filosofia del primato del divenire – per altre vie anche Nietzsche giungeva agli stessi esiti (è forse solo un caso?) – definendone l’esito antimetafisico come sua caratteristica peculiare, nel senso che la radicale negazione della metafisica, di cui Gentile accusava ancora lo stesso Croce, è la premessa necessaria ad una coerente filosofa del divenire.
[16] A. DEL NOCE, Il suicidio della rivoluzione, op cit. p. 123.
[17] A. DEL NOCE, Il suicidio della rivoluzione, op cit. p. 128.
[18] Cf. A. DEL NOCE, Il suicidio della rivoluzione, op cit. p. 121 – 198. In particolare si tenga presente quanto egli stesso scrive a pagina 127 della sezione appena citata: «il neomarxismo di Gramsci appartiene a una rivoluzione ulteriore al leninismo, di cui fascismo e postfascismo sono momenti che si avversano mortalmente, ma nello stesso orizzonte – aggiungiamo noi, della immanenza radicale e totale – e lo stesso vedere nel fascismo un delitto, proprio degli antifascisti, è posizione di chi deve chiamare delitto un errore perché partecipa dello stesso errore». Pensiero, questo, di una chiarezza talmente profonda e allo stesso tempo evidente, che non stupisce affatto quanta poca fortuna abbia oggi il pensiero di Del Noce nel panorama della cultura filosofica italiana.
[19] Con alcuni autori questi conti già sono stati fatti o almeno abbozzati. Esiste tutta una letteratura filosofica poco conosciuta, perché marginale rispetto ai canali ufficiali ed egemonicamente dominati, in cui queste idee filosofiche sono state smontate pezzo dopo pezzo e rivelate essere un vero abbaglio. Cito solamente il filosofo boliviano Nicolas Gomez Davila, lo stesso Del Noce, ed Ethienne Gilson per limitarmi ai meno ignoti.
[20] A. GRAMSCI, Quaderni del carcere, edizione critica, Torino, 1975, vol. II, q. 7, p. 881.
[21]Cf. K. MARX, Tesi su Feuerbach, in Marx – Engels, Opere scelte, a cura di L. Gruppi, Editori Riuniti, Roma 1966. 230.
[22] Qui egli scriveva: «Il cattolicesimo riappare alla luce della storia, ma quanto modificato, ma quanto “riformato”. Lo spirito si è fato carne, e carne corruttibile come le forme umane, sottoposte alle stesse leggi storiche di sviluppo e di superamento che sono immanenti nelle istituzioni umane […]. Il cattolicesimo entra così in concorrenza non già col liberalismo, non già con lo Stato laico; esso entra in concorrenza col socialismo e sarà sconfitto, sarà definitivamente espulso dalla storia del socialismo […]. Il cattolicesimo democratico fa ciò che il socialismo non potrebbe: amalgama, ordina, vivifica e si suicida. Assunta una forma, diventate una potenza reale, queste folle si saldano con le masse socialiste consapevoli, ne diventano la continuazione normale. Ciò che non sarebbe stato possibile per gli individui, diventa possibile per le vaste formazioni. Diventati società, acquistata coscienza della loro forza reale, questi individui comprenderanno la superiorità del motto socialista: “l’emancipazione del proletariato sarà opera del proletariato stesso”, e vorranno far da sé e svolgeranno da se stessi le loro proprie forze, e non vorranno più intermediari, non vorranno più pastori per autorità, ma comprenderanno di muoversi per impulso proprio: diventeranno uomini, nel senso moderno della parola, uomini, uomini che attingono alla propria coscienza i principi della propria azione, uomini che spezzano gli idoli, che decapitano Dio». In I Popolari, ripubblicato in L’Ordine Nuovo, Einaudi, Torino, 1955, pp. 284 – 286.
[23] A. DEL NOCE, Il suicidio della rivoluzione, op cit. p. 132.
[24] A. DEL NOCE, Il suicidio della rivoluzione, op cit. p. 135.
[25] A. DEL NOCE, Il suicidio della rivoluzione, op cit. p. 256.
[26] A. DEL NOCE, Il suicidio della rivoluzione, op cit. p. 311.
[27] Cf. GIOVANNI PAOLO II, Fides et Ratio, LEV, Città del Vaticano, 1998, n°36 – 48. In modo particolare citiamo questo punto che ci sembra veramente chiarificatore del problema che andiamo analizzando. Scriveva il Papa, al n° 48 dell’Enciclica citata, che «l’attuale rapporto tra ragione e fede richiede un attento sforzo di discernimento, perché sia la ragione che la fede si sono impoverite e sono divenute deboli l’una di fronte all’altra. La ragione, privata dell’apporto della Rivelazione, ha percorso sentieri laterali che rischiano di farle perdere di vista la sua meta finale. La fede, privata della ragione, ha sottolineato il sentimento e l’esperienza, correndo il rischio di non essere più una proposta universale. È illusorio pensare che la fede, dinanzi a una ragione debole, abbia maggior incisività; essa, al contrario, cade nel grave pericolo di essere ridotta a mito o superstizione. Alla stessa stregua, una ragione che non abbia dinanzi una fede adulta non è provocata a puntare lo sguardo sulla novità e radicalità dell’essere. Non sembri fuori luogo, pertanto, il mio richiamo forte e incisivo, perché la fede e la filosofia recuperino l’unità profonda che le rende capaci di essere coerenti con la loro natura nel rispetto della reciproca autonomia. Alla parresia della fede deve corrispondere l’audacia della ragione».
[28] A. DEL NOCE, Il suicidio della rivoluzione, op cit. p. 305.
[29] A. DEL NOCE, Il suicidio della rivoluzione, op cit. p. 312.
[30] A. DEL NOCE, Il suicidio della rivoluzione, op cit. p. 312.
[31] A. DEL NOCE, Il suicidio della rivoluzione, op cit. p. 316.
[32] A. DEL NOCE, Il suicidio della rivoluzione, op cit. p. 333, grassetto nostro.
[33] A. DEL NOCE, Il suicidio della rivoluzione, op cit. p. 327 – 328. Con profonda acutezza il Nostro notava che «la sinistra che vuole procedere “otre Gramsci” mette a sua insegna il “pluralismo” - ma oggi il discorso calza benissimo anche per certa destra, aggiungiamo noi - ; ed effettivamente il pluralismo può essere il segno della capitolazione del gramscismo inteso nel significato rivoluzionario; segno di un congedo da Gramsci che già si annuncia. Nella accezione neoborghese non si chiede al soggetto di aderire ad alcun valore, perché la ragione strumentale non conosce valori». Op. cit. 328.
[34] S. GIUSTINO, II Apologia, Città Nuova, Roma, 10,2.
[35] S. GIUSTINO, II Apologia, op. cit. 10,2
[36]E. STEIN, Essere finito ed Essere Eterno, Città Nuova, Roma, 1999, p. 41.
[37] E. STEIN, Essere finito ed Essere Eterno, op. cit., 1999, p. 41.
[38] V. MANCUSO, L’anima e il suo destino, Raffello Cortina, 2007
[39] Cf. www.vitomancuso.it.
[41] V. MANCUSO, «La Libertà di pensare Dio sfidando la Chiesa», in La Repubblica,10 dicembre 2009.
[42] V. MANCUSO, «La Libertà di pensare Dio sfidando la Chiesa», op. cit.
[43] V. MANCUSO, «La Libertà di pensare Dio sfidando la Chiesa», op. cit.
[44] Cf. M. MIRTO, La Ragione oltre la Ratio, Armando, Roma, 2007, 56 – 64.
[45] Cf. Dei Verbum, 10 e Lumen Gentium, 10, in Enchiridion Vaticanum 1, EDB, Bologna, 1993.
[46] J. RATZINGER, Introduzione al cristianesimo, op. cit. 21.
[47] Gv 17,3.
[48] S. Giovanni della Croce, Salita del Monte Carmelo, Prologo, 2, in Opere, Postulazione Generale O.C.D., Roma, 1991, 10.
[49] Gv 20, 1-10.
[50] È veramente interessante osservare come lo studio della Stein della filosofia heideggeriana, che la filosofa tedesca ha ben conosciuto negli anni in cui era assistente di Husserl, permetta di comprendere appieno come uno degli esiti della modernità sia pienamente nichilista e contrario alle sue premesse. Si può qui tranquillamente utilizzare il teorema delnociano della eterogenesi dei fini. Un pensiero, come quello di heidegger, nato ipoer riproporre la questione dell’essere, proprio perché inserito in quel processo dissolutivo della modernità porta ad esisti perfettamente opposti dalle sue premesse. Cf. E. STEIN, La filosofia esistenziale di Martin Heidegger, in La ricerca della Verità, dalla fenomenologia alla filosofia cristiana, Città Nuova, Roma, 1999. 153 – 226.
[51] E. STEIN, La struttura della persona umana, Città Nuova, Roma, 2000. 141.
[52] Cf. E. STEIN, Essere finito essere Eterno, Città Nuova, Roma, 2000, 442 – 470. Cf. E. STEIN, La struttura della persona umana, op. cit. 140 -150; Cf. E. STEIN, Introduzione alla filosofia, Città Nuova, Roma 2001, 188 – 193; e Cf. T. D’AQUINO, Summa Theologiae, Edizioni Studio Domenicano, Bologna, 1996.q 90, a4, 820.
[53] E. STEIN, Introduzione alla filosofia, op. cit. 192.
[54] A. DEL NOCE, Il problema dell’ateismo, op. cit. 354.
[55] A. DEL NOCE, Il suicidio della rivoluzione, op cit. p. 321.
[56] A. DEL NOCE, Il suicidio della rivoluzione, op cit. p. 327.
[57] Cf. A. DEL NOCE, Il suicidio della rivoluzione, op cit. p. 336.