La Ragione come bene comune*
*Articolo apparso sulla Rivista Quaerite, anno, III, n° 5, Caserta, luglio 2012.
Introduzione
La ragione umana è un dono di Dio, qualcosa che fa dell’uomo un essere capace di Dio, come recita il catechismo della Chiesa cattolica[1]. L’uomo creato per Dio è un essere dotato di intelletto, ovvero di ragione. Ma di quale ragione si deve parlare quando, come cattolici, ci si accinge a dialogare con il mondo[2]? Non bisogna dimenticare che la Ragione ha prodotto i Gulag, i Lager, la bomba atomica, l’ateismo, l’anticristianesimo. Di quale ragione si deve parlare, allora, perché sia possibile il dialogo cattolici-laici? Esiste un modello unico di ragione che possa essere recepito sic et simpliciter dai cattolici o, invece, è necessaria una previa analisi critica della storia della filosofia moderna e dei suoi esiti, per meglio comprenderne le dinamiche, e capire così quali e quante di queste siano compatibili con il cristianesimo stesso, e dunque possibili orizzonti comuni di dialogo? E che cosa significa dialogare? In questa specie di dialogo esiste uguaglianza, o si è invece, nella condizione socratica dove uno dei due interlocutori, necessariamente docet e l’altro apprende? S. Agostino nel De Magistro, sottolinea con chiarezza che si dialoga per insegnare[3], tant’è che poco più avanti Agostino al figlio Adeodato dice con chiarezza: «Il linguaggio dunque è stato istituito solo per insegnare o per ricordare. Non ti sembra?»[4]. Chi dialoga ha sempre presente che vuole insegnare qualcosa a qualcuno, anche quando pone domande e sembra che voglia apprendere; dialogare significa insegnare, e se si insegna, qualcuno sa e qualcuno non sa. Ora, chi insegna e che, nel dialogo tra cattolici e laici? La questione non è affatto marginale, ma è di capitale importanza, in quanto se si accettano a-criticamente gli esiti della modernità, senza vagliarne la storia alla luce del deposito ecclesiale della fede e della Traditio, allora sarà la Chiesa ad inseguire il mondo assumendone, spesso, anche le categorie mentali. Viceversa, se la Ragione dei cattolici, che per comodità di analisi possiamo chiamare la “Ragione ad-intra” ecclesiale, che si interroga, precede il dialogo con la Ragione laica, che rappresenta la Ragione del mondo, e rimane stabile su alcuni punti fondamentali, allora sarà il mondo ad inseguire la Chiesa.
Approfondiamo questo punto. Ci si chiede: si possono accogliere a-criticamente gli esisti della modernità per il solo fatto che la modernità pretende di essere l’unico esito possibile della storia del pensiero, dagli albori dell’età moderna ad oggi? È difatti così? o questo stesso asserto su cui si fonda la pretesa della Ragione laica di essere essa stessa la sola Ragione ammissibile altro non è che un mero pre-giudizio? Tutto ciò significa porre la questione del rapporto tra “necessità” e “libertà” in ambito storico – filosofico[5]. Infatti, vorrei citare un passo della Introduzione alla Filosofia nel Medioevo[6] di Ethienne Gislon; qui si legge: «la Filosofia è una scienza che si rivolge all’intelligenza e le dice quel che le cose sono, la religione si rivolge all’uomo e gli parla del suo destino, sia perché egli vi si sottometta, come la religione greca, sia perché egli lo costruisca, come la religione cristiana. Per questo, d’altronde, le filosofie greche, influenzate dalla religione greca, sono filosofe della necessità, mentre le filosofie cristiane influenzate dalla religione cristiana saranno filosofie della libertà»[7]. Questa citazione, apparentemente slegata al discorso che si sta facendo ci permette, invece, di operare una riflessione ulteriore. Due punti emergono chiaramente: 1) quello del rapporto tra necessità e libertà; 2) quello del rapporto tra religione e filosofia. Lo sviluppo della storia del pensiero occidentale è dettato dalla libertà o dalla necessità? È ovvio che in quanto cristiani non possiamo che porlo nell’orizzonte della libertà, e perciò gli esisti dello sviluppo del pensiero moderno non sono né necessari, né scontati, né unici e né definitivi; il che sta a significare che vanno attentamente vagliati. Tutto ciò per dire che la secolarizzazione non è affatto un destino ineludibile del pensiero moderno, ma una scelta, operata all’inizio della modernità, che ab ovo già esclude la rivelazione e la trascendenza, dunque, già in origine questo pensiero rifiuta Dio, anche se non lo dice esplicitamente. Con un simile modello di Ragione laica non credo ci siano punti di contatto alcuno, e non riesco certo ad immaginare un dialogo. In riferimento al secondo punto, alla luce di quanto evidenziava il filosofo Gilson circa il rapporto tra religione e filosofia, ci si può chiedere: qual è, se così stanno le cose, se cioè è sempre una forma di religione, anche se non è la sola, a rendere possibile una qualche riflessione filosofica, qual è, dunque, la religione che al nostro tempo influenza la filosofia del nostro tempo? Certamente non è più il cristianesimo, anzi oggi ci si trova nella paradossale situazione in cui la filosofia “irreligiosa” del nostro tempo, influenza – attraverso la Ragione laica –il modello di Ragione ab intra del cristianesimo stesso, ovvero i suoi modelli filosofici accettati da cui partire per elaborare un discorso teologico di qualche spessore. E con ciò anche la teologia nei suoi vari ambiti. Questo punto estremamente critico era già stato colto pienamente negli anni Trenta del secolo scorso da Edith Stein che scriveva: «Per comprendere ciò che è avvenuto – l’autrice si riferisce agli ultimi decenni in campo cattolico – si deve pensare che la filosofia cattolica non s’identificava più con la filosofia dei cattolici. La vita spirituale cattolica era diventata sempre più dipendente da quella moderna e aveva perduto il legame con il suo illustre passato»[8]. È un fatto positivo questo? Mi dispiace deludere i paladini della secolarizzazione, ma non ne sono affatto convinto, come intendo dimostrare tra breve. Per rimanere nell’ambito della citazione aggiungo che la Stein rispondeva alla crisi con il suo ritorno a S. Tommaso d’Aquino, elaborando una pregevole sintesi tra la fenomenologia trascendentale husserliana, e dunque pensiero moderno e filosofia medievale, novità e Tradizione.
6.1 Un esempio di dialogo: La Conferenza di Monaco
Nel 2004 presso l’Accademia Cattolica di Monaco di Baviera si teneva una conferenza dal titolo “Ragione e Fede in dialogo”, cui parteciparono l’allora cardinal Ratzinger, che riteniamo essere nostro punto fermo di riferimento, e il filosofo laico J. Habermas. Entrambi convenivano, grossomodo, sul fatto che si poteva ormai dire conclusa l’epoca del secolarismo, intendendo con questo termine la tendenza ad escludere dal dibattito pubblico la religione. A sottolineare questo dato, ormai acquisito, entrambi convennero sul termine di “post-secolarismo”, intendendo con ciò designare un’epoca in cui il fenomeno religioso non poteva minimamente essere escluso dal dibattito sui fondamenti della convivenza e dell’etica delle comunità. A ragione il Papa, allora sottolineava che un possibile terreno comune intorno al concetto di “diritto naturale”, ma notava anche come le società laiche tendano, per ovvi motivi strategici, proprio a rinunciare a questo concetto. Infatti Benedetto XVI affermava che «il diritto naturale è rimasto, soprattutto nella Chiesa Cattolica, la figura argomentativa con cui Essa richiama alla ragione comune nel dialogo con le società laiche e con le altre comunità di fede e con cui cerca i fondamenti di una comprensione attraverso i principi etici del diritto in una società laica e pluralista»[9]. Egli notava che un tale argomento era diventato abbastanza debole in ambito laico e perciò riteneva di non doversi basare su di esso nell’ambito di quella conferenza. Ma, giustamente, con profondo acume il Santo Padre, nel Suo intervento intitolato Ragione e Fede scambio reciproco per un’etica comune, notava che «il concetto di Diritto di natura presuppone un’idea di natura in cui natura e ragione si compenetrano, la natura stessa è razionale. – E con una certa amarezza concludeva – Questa visione della natura, con la vittoria della teoria evoluzionista, si è persa»[10]. Nel successivo excursus, l’allora Cardinal Ratzinger notava che del Diritto naturale in ambito internazionale sono rimasti solo i diritti umani[11]. Va detto per inciso, che il successo della teoria evolutiva come paradigma interpretativo è più demagogico che reale, in quanto la teoria evolutiva rimane solamente una teoria in attesa di verifiche, per ora mancanti; e come qualunque teoria scientifica non dice nulla della realtà e della verità dell’ente, tant’è che lo scientismo ha distrutto la metafisica proprio perché sa che nulla può dire intorno all’essere dell’ente, ma può solo elaborare modelli interpretativi della realtà validi finché non vengano messi in crisi da nuovi dati inspiegabili con la vecchia teoria. Ritornando al discorso precedente, giustamente il Papa sottolineava che la ragione secolare, «per quanto illumini la nostra ragione di formazione occidentale, non è comprensiva di ogni ragione che, in quanto razionalità, nella sua ricerca di rendersi evidente urta contro dei limiti»[12]. Insomma, viene esclusa la possibilità di un’etica globale comune. E, dunque, rimane solamente la necessità reciproca «di un rapporto correlativo tra ragione e fede, ragione e religione, che sono chiamate alla reciproca chiarificazione e devono far uso l’una dell’altra e riconoscersi reciprocamente. […]. Senza dubbio i due partner principali in questo rapporto correlativo sono la fede cristiana e la razionalità laica occidentale»,[13] senza ovviamente creare un corto circuito escludente le culture altre, che come dice il Santo Padre creerebbe un pericoloso cortocircuito di cui l’occidente per primo ne pagherebbe le conseguenze[14].
Dall’altra parte, il filosofo tedesco, nel suo intervento intitolato “Quel che il filosofo laico concede a Dio (più che Rawls)”affermava che «lo Stato liberale e secolarizzato si nutre di premesse che esso, da solo, non può garantire»[15], il che significa che i fondamenti dello Stato liberale non trovano giustificazione entro l’orizzonte del positivismo giuridico cui è giunta la moderna riflessione della filosofia laica del diritto. Lo stesso Hebermas è costretto ad ammettere che «da un punto di vista cognitivo, il dubbio rimanda alla questione se il potere politico, dopo la completa positivizzazione del diritto, sia in generale ancora aperto a una giustificazione secolarizzata, vale a dire post-metafisica o non religiosa»[16]. La soluzione da lui proposta consiste nell’apprendimento biunivoco di pensiero religioso e pensiero laico. Ma anche qui, a nostro parere, non viene affatto tematizzata la storia della filosofia e si lascia intendere come univoci i suoi esisti laici e irreligiosi; e questo ci sembra il grande limite del discorso hebermasiano. Il punto conclusivo del discorso del filosofo tedesco sta in un approdo comunque interessante. Infatti, data l’impossibilità di essere eroso dall’esterno Hebermas consiglia di introdurre nella discussione un ulteriore elemento, quello della «persistenza della religione in un ambiente sempre più secolare, però, non in qualità di semplice dato sociale»[17], ma come sprone per la filosofia laica ad interrogarsi assumendone la cosiddetta sfida cognitiva. A noi sembra, invece, che il tema vada svolto in tutt’altra direzione. Riteniamo che si debba tener conto del problema dell’esisto della storia della filosofia moderna in termini di problema filosofico primo, perché è proprio tematizzando questo argomento che emerge come l’esito nichilista e relativista del pensiero moderno non sia affatto un destino o una necessità.
La modernità, bisogna tener presente questo aspetto, come dato di fatto, si pone in aperta rottura con il cristianesimo, e poi con il cattolicesimo, questo è un dato importante di cui va sempre tenuto conto. Ciò che si tratta di sfatare è il mito secondo cui questo processo è un processo irreversibile e necessario, mentre è invece un processo frutto di una opzione originaria tendente a porre l’uomo al centro del cosmo. È urgente, invece, porsi un ulteriore questione, e cioè che la ragione, diciamo così per intenderci, ab-intra dei cattolici, riveda il suo modello di ragione prima di porsi in dialogo con la ragione cosiddetta laica, perché la ragione non è affatto un elemento neutro, un campo vuoto in cui ci si trova, ma ha una sua storia, intesa come dispiegarsi nel tempo delle sue scelte.
Il punto, per tornare alla citazione steiniana, emerge già da tempo nel dibattito filosofico cattolico del secolo scorso. Infatti, notava giustamente la Stein che il rifiuto del dato rivelato, ad opera della filosofia moderna, come criterio per verificare i risultati della ricerca filosofica in senso stretto, aveva portato la filosofia moderna a non essere più una filosofia degli enti o dell’essere, ma proprio per il rifiuto al dato della fede, un filosofia della conoscenza che deve sempre porre come prima la questione dei fondamenti stessi del sapere e che, inoltre, nel suo voler essere autonoma spesso è divenuta una filosofia senza Dio o, peggio, contro Dio[18]. Tutto ciò ci porta a porre in essere la questione delle questioni della modernità, ovvero, il senso stesso della storia della filosofia. Questo è il problema dei problemi, rispetto al quale necessita un nuovo inizio, in cui tutto va messo in discussione e rivagliato dinanzi al deposito della fede. La risposta a questa domanda, apparentemente oziosa ed accademica, dice dell’esito della ragione nella modernità e dice, allo stesso tempo, della nostra opzione fondamentale in merito al modello stesso di ragione cui si fa riferimento quando si pensa e dunque si ci pone in dialogo, sempre che il dialogo sia reale e non fittizio. La Ragione ab-intra della Chiesa, infatti, ha una sua storia, storia che Le ha permesso di chiarire nel tempo, mistagogicamente, il dato rivelato della fede, approfondendo alcuni elementi della Verità Increrata che è Dio. Chiariti e definiti questi punti, che possiamo chiamare “i principi insindacabili” della Ragione ab–intra della Chiesa, e dunque dei cattolici, si può, partendo da questi punti irrinunciabili, chiedere al mondo se è disposto a convenire su questi punti, altrimenti ci si deve rendere conto, - e se non lo facciamo noi in quanto cattolici presto il mondo che lo farà ricordare - che in quanto Chiesa, forse, in questo tempo siamo chiamati a ridiventare segno di Giona.
Voglio solo ricordare, per meglio sottolineare la dinamica dello sviluppo di una certa modernità, quanto il filosofo napoletano G.B. Vico dice riguardo allo sviluppo della storia perché ciò ci può aiutare a comprendere la dinamica stessa del processo di secolarizzazione in atto. Per Vico, il pieno dispiegarsi dell’età degli uomini, porta in sé i germi della dissoluzione. In campo etico, prevale il relativismo (e non è la prima volta che accade), in campo filosofico lo scetticismo; l’idea falsa della genesi solamente umana dei valori guida, delle leggi e delle istituzioni, comporta la laicizzazione della cultura e di conseguenza il progressivo cedere del collante della convivenza: la religione. La Nazione illanguidisce[19].
Questo fatto, però, ci porta anche a rifiutare tutte quelle metafisiche politiche di matrice più o meno relativiste, o marcatamente ideologiche, che si basano sul concetto di “conflitto”, ovvero di “stasis”. E ciò per un motivo molto semplice. Se la Chiesa fosse semplicemente cosa umana, e dunque, uguale a qualsiasi altra associazione umana, allora il concetto di convivenza conflittuale, volendo, dico volendo, si potrebbe, forse, anche applicare; ma la Chiesa, e i cattolici non posso uscire da Essa senza, ispo facto, smettere di essere cattolici, è di natura Divino – umana e dunque, nella sua dimensione divina, unita indissolubilmente a quella umana, superiore a qualunque istituzione umana, incluso lo Stato. Questo è un punto che un cattolico non può dimenticare affatto.
Mi sia concessa qui una breve digressione in merito al concetto del rapporto tra Chiesa e Stato per un cattolico. Proprio a partire da questa considerazione il cattolico italiano deve ricordare che il concetto cavouriano e risorgimentale di “Libera Chiesa in Libero Stato”, tanto sbandierato come liberale e democratico, ma mirante in realtà ad abbattere la dimensione spirituale, più che politica, della Chiesa, introduceva, surrettiziamente e capziosamente, un concetto errato e, diciamo così, protestanteggiante, di equivalenza tra Chiesa e Stato. Fatto, questo, impossibile ed inaccettabile per un cattolico. Di questo fatto i cattolici non devono mai dimenticarsene nella loro ricerca di un dialogo con la ragione extra ecclesiale. Noi siamo prima cattolici e poi tutto il resto, quando questo resto è compatibile con il cattolicesimo.
Il rapporto, anche dialogico, dei cattolici con il mondo va dunque ribaltato completamente. In virtù della sua missione, che gli viene dal battesimo e dalla comunione con la Chiesa, il cattolico, la Ragione ab-intra della Chiesa di cui si parlava prima, ha una missione profetica rispetto al mondo e non di sequela del mondo. Non può pensare il mondo come il mondo si pensa, se le categorie con cui il mondo si pensa sono già in partenza a-cristiane, se non addirittura anti-cristiane. Il cattolico è chiamato a salare il mondo non ad essere desalinizzato dal mondo assumendone acriticamente i modelli razionali che ritiene assoluti perché comodi. Fides et Ratio di Giovanni Paolo II e Spe Salvi di Benedetto XVI sono chiare in merito e sono imprescindibili dal punto di vista teoretico per un corretto agire nella polis dei cattolici. Agere sequitur esse.
In tal senso, mi pare, sia stato il richiamo del Cardinale Bagnasco alla Convezione di Todi, ovvero a non abbandonare i valori irrinunciabili, cui si possono aggiungere i principi teroetici irrinunciabili del cattolico, come emergono dalla philosophia perennis. In realtà il tentativo di una traccia comune tra ragione e fede era già emerso nel dialogo tenuto presso l’Accademia cattolica di Baviera nel 2004 tra l’allora Cardinal Ratzinger e il filosofo laico e ateo Jürgen Habermas. Entrambi, come già detto, concordavano sulla fine del concetto di secolarizzazione, inteso come processo storico tendente ad eliminare la presenza del cristianesimo dalla politica, e strategicamente, il furbo Habermas non potendovi rinunciare, doveva giungere alla elaborazione del concetto di post-secolarismo. Per post-secolarismo si intende di fatto l’impossibilità, acquisita oramai come dato non eludibile, del mondo laico di poter completamente fare a meno del cristianesimo. E dunque da qui la richiesta, a volte sottilmente capziosa, da parte laica e atea, di trovare dei punti di contatto con il cristianesimo.
Personalmente ritengo che dietro questa strategia, apparentemente convergente e sorridente della mano tesa, del mondo laico nei confronti della Chiesa cattolica, ci sia una strategia ben precisa che spesso sfugge agli stessi cattolici. Sono convinto che proprio l’aver compreso da parte laica il dato della ineliminabilità del cristianesimo dalla società, ciò che viene chiamato appunto “post-secolarsimo”, un certo pensiero laico tenda a fagocitare dall’interno il cristianesimo stesso, tentando di dettargli, diciamo così, l’agenda e le categorie di pensiero stesso con cui leggere la realtà. Con ciò intendo dire che nella cosiddetta epoca post-secolare il processo di secolarizzazione nei confronti della Chiesa, proceda con una tecnica di erosione dall’interno. Insomma, il pensiero anticristiano si presenta alla ragione ecclesiale come dialogante, ma impone le sue categorie di pensiero mostrandole come le uniche possibili. L’attacco alla Chiesa avviene dunque dall’interno stesso, dato che queste categorie di pensiero si presentano spesso come intra-ecclesiali.
Questo discorso, ci tengo a precisarlo, non vale solo per la base filosofica del discorso teologico, che spesso si avvale acriticamente degli esisti della modernità, ma anche per quello che riguarda le diverse scuole di ermeneutica biblica, che ritenendosi erroneamente esenti della influenze della filosofia contemporanea, si pongono nei confronti della teologia come guide e come luoghi di origine della riflessione teologica. Ciò può essere fuorviante quando non si tiene conto del fatto che le stesse tecniche ermeneutiche di sui si avvalgono gli studi biblici sono fondate su filosofie e su presupposti filosofici spesso assunti acriticamente, e quindi, senza saperlo, risentono più di altre di quegli stessi esisti, spesso anticristiani della modernità., che ritengono esser dominanti negli studi dogmatici che si fondano espressamente sulla filosofia.
6.2 Quale Ragione?
Il confronto tra Ragione e Fede conduce, dunque, presenta tutta una serie di problematiche che purtroppo non possono essere esaurite in un breve intervento. Per esempio, il rapporto tra la Ragione come Ragione filosofica da una parte, che si manifesta nella Philosophia perennis e le non-filosofie che si servono della filosofia per distruggere la stessa filosofia, gettandone i frammenti in una miriade di filosofie relativiste e nichiliste, avendo prima già negato la ragione filosofica per mezzo dello stesso ragionamento filosofico e dunque, per mezzo della stessa filosofia[20]; la questione del rapporto laici-Ragione-Cattolici, che determina il rapporto tra Ragione laica e Ragione Cattolica, in più, all’interno di quest’ultimo tema, il rapporto tra la Ragione Cattolica e la Ragione dei cattolici, che è sempre meno cattolica e più laica, in virtù dello slittamento verso il laicismo del pensiero stesso dei cattolici. Slittamento determinato dalle politiche educative degli stati laici nei confronti dei loro cittadini, inclusi i cattolici, cui vengono forniti come unici criteri quelli laici, che hanno eliminato dai loro parametri ogni prospettiva religiosa, per non dire Cristiana, determinando di fatto, una vera e propria dittatura laica del pensiero educativo e della didattica che ne segue. Qui ci limiteremo ad un discorso rivolto per lo più ai cattolici, circa l’argomento del rapporto tra Ragione laica e Ragione Cristiana.
Ciò che si obietta è, dunque, il ritenere che quando si parla di ragione si intenda solamente la ragione laica, assumendola acriticamente come l’unico esito possibile del pensiero senza chiedersene i motivi. Ovvero, si presuppone come dato indiscusso che la ragione sia unica, univoca e solamente laica, ovvero che la filosofia contemporanea sia necessariamente, nei suoi esiti laica ed anticristiana, e come tale vada accolta e con essa si debba dialogare. Ritengo, invece, che l’esisto anticristiano della filosofia non sia affatto necessario né unico; affermo cioè che nella modernità si sono avuti anche altri esisti non laici ed anticristiani della filosofia, anche se oggi vengono sistematicamente cancellati nelle vulgate scolastiche come percorsi possibili della modernità poiché chi detiene l’egemonia della macchina della cultura mira a far apparire il cammino della filosofia nella modernità come destinato al nichilismo e al relativismo; ovvero, come se l’esito attuale delle varie forme in cui si presenta la filosofia, in gran parte laiche, sia il destino del pensiero occidentale. L’acquisizione di questo dato apre una questione problematica circa il senso della storia della filosofia.
6.3 La Ragione come risposta ad un Appello
L’inizio è già una risposta, una Risposta costitutiva[21]; non così l’Inizio dell’inizio. L’Archè che noi cerchiamo è già prima di ogni nostra autonoma ricerca intorno ad esso: “En archè en ‘o Logos”[22], dice l’Apostolo. Ma noi cominciamo sempre dalla nostra risposta all’Appello iniziale e, cominciando da essa, la nostra risposta è, per noi, il nostro inizio. Un inizio così costitutivo che, in un certo senso, determina il nostro stesso orizzonte di ricerca. Ecco perché riteniamo debba chiamarsi: “La risposta costitutiva”. A quella risposta - che è una scelta fondante - e che è resa possibile in virtù della, libertà che ci è data, noi sempre torniamo. Tanto che si può dire che funge da catalizzatore di ogni nostra possibile domanda, che di fatto è successiva a questa nostra “risposta fondante”.
Prima di continuare bisogna però dire qualcosa intorno ad uno dei miti fondativi della modernità. In genere, da Bruno a Kierkegaard, passando per Hegel, si ritiene che la libertà sia stata posta in essere grazie al peccato di Adamo, grazie a quel “no!” a Dio. Ma l’errore sta proprio qui – e le conseguenze di questo errore sono sotto gli occhi di tutti, ne è appunto un esempio l’irreligione[23] del nostro tempo. La libertà non consiste, infatti, nel dire “no!” a Dio, ma nel dire “sì!” a Dio. Certo, anche il “no!” a Dio presuppone quella stessa libertà che ci consente di dirgli “sì!” – anche se è solo per distruggerla -, ma non è la stessa cosa; le due risposte non sono equivalenti. Il “no!” è la rottura dell’Alleanza, il venir meno del “berith” costitutivo della stessa libertà, il “no!” è, dunque, libertà che si uccide. Il “sì!” a Dio è libertà liberata, libertà che si alimenta, che si rinnova ad ogni ripetuto “sì!”.
All’inizio, dicevamo, c’è l’Appello dell’Altissimo, è l’attimo che precede la nostra prima parola, perché la nostra prima parola è in verità già una risposta, è un “sì!” o un “no!”, e questo sì o questo no determinano la chiusura e l’apertura del nostro essere. Ma c’è sì e sì; c’è il sì che ritorna, che oscilla, che porta dentro di sé sempre il possibile no, è il sì che deve essere rifondato ogni volta, ad ogni istante, il sì che non si regge da solo. E c’è il “sì!” che non ritorna che è stabile, il “sì! Di Dio e quello della Vergine di Sion. In questo caso il “sì!” è stato un sì senza tentennamenti né ripensamenti. Altrove, il sì ha oscillato, da Abramo ai profeti, agli apostoli. La risposta presuppone la domanda, e questa domanda emerge nella nostra storia dal contesto in cui ci troviamo, dalla cultura cui apparteniamo, dagli eventi che ci interrogano. Se questi fatti ci trovano disponibili alla risposta, ecco allora che la domanda ci giunge chiara, attraverso il testimone e poi sempre più chiara attraverso la “stoltezza della predicazione” come dice S. Paolo.
Edith Stein, in Essere finito Essere Eterno[24],afferma che «Ciò che penetra nell’intimo è sempre un Appellarsi alla persona. Un appellarsi alla ragione in quanto forza in virtù della quale si sente spiritualmente, cioè si capisce ciò che accade. È un appellarsi al senso, cioè cercare il senso di ciò che ci si avvicina. È appellarsi alla libertà: già la ricerca intellettuale del senso è un atto libero»[25]. Ma la ricerca è già il nostro rispondere ad un “Appello”[26], a qualcosa che ci precede e ci interroga, il nostro stesso essere nella sua dimensione interrogante è già un rispondere. Questa “risposta costitutiva”, che è un vissuto intenzionale, volendo usare il linguaggio della fenomenologia husserliana, non appartiene solamente al singolo, ma segna di sé ogni epoca, anche se può differire – come di fatto differisce – da epoca ad epoca. Ogni periodo storico ne è investito, ogni epoca della civiltà, soprattutto Occidentale, è posto dinanzi a questo appello e ne risponde delle conseguenze. Augusto Del Noce ha perfettamente colto questo aspetto – senza peraltro tematizzarlo ontologicamente – quando afferma che «l’ateismo si presenta come il momento terminale di un processo di pensiero condizionato da una negazione senza prova della possibilità del soprannaturale»[27]. La civiltà europea degli ultimi cinque secoli – incluso il presente - ha optato per un “no!” all’Appello di Dio, giungendo nei fatti alla piena estromissione di Dio dal suo orizzonte filosofico – culturale. Ma il rifiuto di Dio è una conseguenza del rifiuto della condizione iniziale dell’uomo quale peccatore. Infatti, continua Del Noce: «non è il rifiuto del peccato che consegue al rifiuto di Dio, ma è vero l’inverso; cioè è il rifiuto del peccato, dello status naturae lapsae, della caduta iniziale di un processo che porta all’ateismo»[28]e questo alla irreligione attuale.Sta di fatto che questo rifiuto è già una risposta all’appello che Dio rivolge all’uomo di rientrare in se stesso per scorgervi la sua miseria, e lì la misericordia di Dio manifestatasi in Cristo Gesù. La storia dell’uomo inizia con un appello da parte di Dio, dunque, che determina sempre una risposta da parte dell’uomo. Dopo aver creato l’uomo, Dio lo pose nel giardino dell’Eden e gli affidò un compito, quello cioè di coltivarlo e di custodirlo, così facendo gli assegna un compito e lo rende partecipe della creazione, e nel fare questo gli dà un comando, lo pone di fronte ad una scelta il cui esito naturale sarebbe stato il “sì!” a Dio aderendo al suo progetto. La parola rivolta è l’appello che invoca quella risposta che costituisce la libertà. La libertà non è una scelta tra il bene ed il male, ma è piena adesione la bene; la libertà è l’apertura alla luce che è Dio, consiste nell’accogliere questa luce: la libertà è il sì a Dio. Ma questa libertà implica responsabilità e obbedienza al comando di Dio: «il Signore Dio diede questo comando all’uomo: tu potrai mangiare di tutti gli alberi del giardino, ma dell’albero della conoscenza del bene e del male non devi mangiare, perché, quando tu ne mangiassi, certamente moriresti»[29]. La conoscenza del bene e del male, conseguenza del peccato originale è già male. L’uomo era fatto per la sola conoscenza del bene e per compiere il bene conosciuto. Per comprendere meglio questo concetto è necessario comprendere pienamente il significato del termina ebraico corrispondente. “Yadah”, termine usato per indicare appunto la conoscenza non si riferisce solamente alla conoscenza di tipo concettuale, ma alla condivisione della vita fondata sull’accoglienza. «Com’è possibile? Non conosco uomo»[30] e ancora: nello stesso libro della Genesi è scritto: «Allora Adamo conobbe Eva sua moglie la quale concepì e partorì Caino»[31]. Dice infatti la Scrittura: “vehaAdam yadah et Chaivah ‘ishato vetahar veteled Qayin”. All’uomo, dunque, per essere uomo non necessitava la conoscenza del bene e del male, come taluni erroneamente sostengono, ma la conoscenza del bene, che ne implicava l’accoglienza e la condivisione.
Invece, la conoscenza del bene e del male ha prodotto l’uomo scisso in se stesso, dilaniato nella sua libertà dall’alternativa tra bene e male: ecco l’uomo decaduto, l’uomo nella condizione di peccato. Nella modernità, epoca che vuol essere post – cristiana, l’uomo ha accolto questa condizione di peccato come sua condizione naturale, contribuendo così all’eclissi di Dio. Va da sé che una cosa è il tentativo iniziato con san Giustino, filosofo del II secolo d. C., di cristianizzare la filosofia greca precedente al cristianesimo, altro è il tentativo, cui si assiste oggi, di cristianizzare il pensiero post – cristiano tout court, poiché quello visse nella ignoranza di Cristo, pur cercandone i segni nelle cose; questo, invece, pur avendone i segni ne nega l’esistenza, mostrando pienamente la sua empietà. Certo, è sempre vero il detto di S. Paolo: “Esaminate tutto e trattenete ciò che è buono”. Ritengo, quindi, dannosi questi tentativi di cristianizzare il pensiero di Nietzsche o di Marx, Freud o di Heidegger; questo ovviamente non significa affatto rifiutarsi di leggerli, anzi! ma significa sapere che non portano a nulla. Tant’è vero che il pensiero cristiano quando si è confrontato con la filosofia greca ha ritrovato in essa, o in parte di essa, anche “i semi del Logos”, direbbe san Giustino e li ha fatti suoi.
Quando essa si confrontava con un pensiero che non rifiutava il divino, tranne le filosofie materialiste, che pur parlavano di dei – sia pure indifferenti alle vicende umane – si confrontava all’interno di un orizzonte comunque religioso. Oggi, invece, il pensiero cristiano si trova in un mondo scristianizzato, ma, soprattutto, in questo contesto,m si trova a confrontarsi con un pensiero irreligioso, con un pensiero che pretende e vuole a tutti i costi essere post cristiano, cioè a – cristiano. Questo neo – pelagianesimo ha, dunque, delle caratteristiche completamente diverse da quelle del paganesimo antico. Inoltre, l’Occidente europeo è diventato vittima del suo stesso odio contro se stesso, delle sue radici, della sua storia. Giustamente notava Del Noce che «non può esserci ateismo completo che dopo il cristianesimo […] ed è degno di nota che nessuna delle grandi direzioni del pensiero antico conclude nell’ateismo»[32] . ma la ragione parte in falsetto e ritiene quel suo partire in levare come un partire in battere, confondendo così la risposta o, meglio, ciò che è una risposta con l’inizio e pone se stesso come archè. Questo significa che il problema della conoscenza è un problema secondo, il primo vero problema riguarda l’essere. Nota con profonda acutezza Edith Stein che
“Se possiamo considerare predominante il problema dell’essere tanto nel pensiero greco che in quello medievale (…) constatiamo che il pensiero moderno, staccatosi dalla tradizione, è caratterizzato dal fatto d’avere considerato centrale il problema della conoscenza invece che quello dell’essere e d’aver sciolto di nuovo il legame con la fede e la teologia. (…) la filosofia moderna non ha visto più nella verità rivelata un criterio con cui controllare i propri risultati. Essa non è stata più disposta a lasciarsi imporre dei compiti dalla teologia, per poi risolverli con i propri mezzi. Considerò suo dovere non solo limitarsi alla luce naturale, della ragione, ma anche non estendersi oltre il mondo dell’esperienza naturale: essa ha voluto, in ogni senso, essere una scienza autonoma. Ne conseguì che diventò anche, in larga misura, una scienza priva di Dio. (…)
Gli ultimi decenni hanno portato un cambiamento di situazione che si era preparato da varie parti e innanzitutto in campo cattolico. Per comprendere quello che è avvenuto in questo se torre si deve pensare che la filosofia cattolica (…) non s’identificava con la filosofia dei cattolici. La vita spirituale cattolica era diventata sempre più dipendente da quella moderna e aveva perduto il legame con il suo illustre passato”[33].
Ma tutto ciò non determina ancora lo spazio della fede; determina, invece, quello che possiamo chiamare lo spazio della “religiosità naturale”. Per religione naturale possiamo, quindi, intendere quella predisposizione dell’uomo a compiere più o meno il bene, quella tendenza al sacro che attraversa sempre l’esistenza dell’uomo. Ma la ragione è capace di Dio, apertura non ancora colmata dall’irrompere del divino nella storia di ogni uomo. Tuttavia, questa apertura può chiudersi di nuovo in sé, perdersi o ritrovarsi. La ragione non è autofondante, essa viene dopo. La sua capacità sta nella possibile apertura, in quel sottile crinale che è il “sì!” a Dio, rispetto all’illusione di poter bastare a se stessa. È la rinuncia al mito, anzi, al peccato originale di poter porre da sé il confine tra bene e male. L’atto di fede è, così, costitutivo del nostro più intimo e profondo essere, ne costituisce lo spazio dell’essere stesso. Questa risposta costitutiva è il punto zero da cui io mi apro al mondo e, aprendomi, lo intenziono – come hanno ampiamente dimostrato nei loro scritti soprattutto Husserl ma anche Edith Stein[34] - contribuendo anche alla sua costituzione. Costituzione di un mondo culturale umano che non può prescindere dalla natura dell’ente in quanto ens creatum. Insomma: l’uomo nemmeno nella costituzione del suo mondo umano può prescindere dalla legge di Dio che la ragione gli rivela, quando questa ragione è aperta alla verità. Ma essa, in quanto esistenziale, comporta un pensiero che la giustifichi e la fondi, pensiero che mi apra al pensiero già dato[35]. Altrimenti, la mia esistenza risulta essere scissa in sé, divisa tra vita e pensiero, che pure si chiamano l’un l’altro. In fondo, cerco sempre un pensiero che giustifichi la mia scelta costitutiva e, trovatolo, lo faccio mio, arricchendolo.
La fede è prima di ogni cosa, in quanto è l’esistenziale di fondo con cui io cerco di determinare l’essere che mi è stato dato. Esso, come già dato, è già una risposta. Perciò l’esistenza non precede mai l’essenza, viceversa: è l’essenza che precede l’esistenza previo actus essendi, l’atto creativo di Dio. Anzi, nell’uomo non c’è affatto coincidenza tra essenza ed esistenza, in quanto l’essere mi è già dato ed è risvegliato dall’appello con cui Dio mi chiama all’essere e ad essere uomo, cioè me stesso[36].
Ecco che l’esistenza, che erroneamente si crede prima e costitutiva, è già costituita dall’atto di fede, che è la risposta all’appello, con cui io stesso mi costituisco nel mondo come essere appartenente al mondo della vita. Questa esistenza che sono è spesso conflitto tra vita e coscienza, cioè in essa c’è come una voce che continuamente mi richiama alla radice, voce che posso tacitare vivendo nella falsa coscienza, questa esistenza non chiede una riconciliazione dialettica di tipo hegeliano, un Aufhebung[37] immaginario, una perenne stasis postulata dalla filosofia post hegeliana, ma una Teshuvah[38], cioè un ritorno alla radice dell’essere, che è appunto la conversione.
Io posso però vivere e orientare tutta la mia esistenza giustificando la scelta costitutiva che mi allontanato dalla mia radice, quella scelta non – scelta che ha fatto di me il deus della mia vita, spezzando la radice e tacitando la voce all’appello. In questo senso io sono come uno dei personaggi di Dostoevskij: lucido e folle, costruttore del mio mondo senza Dio, falso nella presunta e ritrovata innocenza del divenire, come direbbe Nietzsche, giustificando proprio questo nichilismo senza Dio, questa esistenza oltre la cosiddetta morte di Dio. Questa potrebbe essere sia la mia storia, in quanto esistenza singola e sia l’esistenza di un popolo, di una civiltà in quanto scelta collettiva. La storia della modernità, dall’Umanesimo in poi, in fondo è proprio questo cammino oltre Dio, come ha perfettamente dimostrato Augusto Del Noce nei suoi scritti, motivo per cui egli suggerisce di considerare la storia della modernità come storia filosofica della modernità. Il cammino della modernità è, infatti, il cammino verso l’ateismo compiuto o irreligione, che è proprio il carattere costitutivo della nostra civiltà a partire dal secondo Novecento. Questa irreligione è il nichilismo compiuto che presuppone nell’uomo la coincidenza – falsa – tra essenza ed esistenza.
Ma come posso trasformare quello che è un momento secondo – la risposta all’Appello - ovvero l’opzione fondamentale o “risposta costitutiva” come è stata designata in questi scritti, in un momento primo, ovvero nell’atto che ritengo essere fondativi della mia stessa esistenza: il pensiero con cui mi penso e penso?
Se l’essere costitutivo del mio essere è sempre e comunque la risposta ad un appello, tale che solo come risposta ad un appello io pongo in essere il mio essere in quanto essere cosciente del mio stesso essere, deve necessariamente esserci un’altra voce che nel silenzio della prova si pone come pseudo appello, come appello deviante, toccando le intime corde del mio essere. Nella mia libertà – libertà donatami come costitutiva del mio stesso essere - posso anche concepire l’idea che, in fondo, la mia dipendenza dall’Essere eterno, è una forma di non – libertà, che posso infrangere con la mia libertà e nella mia libertà, con un ulteriore atto di fede ontologico e costitutivo. Questo nuovo atto di fede sostituisce all’idea della dipendenza - che mi viene dal dover rispondere ad un appello, il quale viene prima di me, quella della presunta indipendenza per mezzo della quale posso concepire me come l’oltredio[39] che vive nell’assenza di Dio. Alla voce della Verità che interpellandomi mi chiede un “sì! e che chiedendo la risposta, il sì! mi costituisce, oppongo un effettivo “no!”. Questo atto di non – verità, che è un “no!” mi costituisce in modo illusorio come indipendente, creando di fatto, in me una scissione profonda tra la radice intima del mio essere e l’esistenza che sto costruendo a partire dal mio “no!”. Tanto il “no!” quanto il “sì!” presuppongono la libertà che si esplicita nella risposta, ma nel caso in cui io mi sono posto a partire dal “no!”, cado nell’errore di credere che questo “no!” a Dio sia costitutivo della mia libera umanità e, che anzi, con il “no!” a Dio sia di fatto iniziata la storia dell’uomo. In più, che tale “no!” sia necessario all’emancipazione dell’uomo, in questo senso, erroneamente – a mio modesto parere -, hanno letto ed interpretato il racconto biblico della caduta filosofi del calibro di Bruno, Hegel e Kierkegaard. Niente di più errato, proprio per come siamo andati argomentando la questione. A parte il fatto che questi filosofi non fanno che riproporre idee dell’antico gnosticismo e, pertanto irriducibili al cristianesimo, resta il fatto che l’interpretazione del passo biblico in questione da loro proposta, non coglie affatto l’essenza vera della libertà umana, ma ne copre l’autenticità, spacciando per vera una interpretazione che, puntando all’autosufficienza dell’uomo, è già inscritta essa stessa in quel “no!” iniziale che tenta, adesso, di giustificare razionalmente con il pensiero. Dunque, essa avviene già all’interno di quella opzione fondamentale per il “no!” che caratterizza la modernità, dall’Umanesimo in poi. Un vero umanesimo per essere tale dovrebbe essere Cristocentrico; invece, l’Umanesimo, così come poi si è sviluppato, ha portato alla società opulenta e alla irreligione del nostro tempo. Ma veniamo all’analisi del passo biblico in questione. I primi due capitoli del libro della Genesi sono dedicati al racconto della creazione che termina appunto con la creazione dell’uomo. L’elemento sui cui vogliamo riflettere è il comando da Dio dato all’uomo, comando che rappresenta la prova della libertà dell’uomo. Qual è questo comando? Dice la Scrittura: «Dio ribenedisse e disse loro: siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra; soggiogatela e dominate sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo e su ogni essere vivente che striscia sulla terra. Poi Dio disse: Ecco, io vi do ogni erba che produce seme e che è in tutta la terra e ogni albero in cui è il frutto, che produce seme: saranno vostro cibo”[40]. Nel secondo capitolo, invece, è scritto: “Il Signore diede questo comando all’uomo: tu potrai mangiare di tutti gli alberi del giardino, ma dell’albero della conoscenza del bene e del male non ne devi mangiare, perché quando tu ne mangiassi, certamente moriresti»[41]. Il primo brano chiarisce a quale missione l’uomo è chiamato sulla terra: quella di crescere, moltiplicarsi, soggiogare e dominare sulla terra, ma nell’ottica dell’innocenza della quale la misura è l’obbedienza al comando vero e proprio: Non mangiare, perché moriresti! Questa seconda parte chiarifica: 1) che l’uomo è uomo, cioè limite; 2) che contravvenire al comando divino comporta la morte, infatti, « la morte è entrata nel mondo per invidia del diavolo e ne fanno esperienza tutti quelli che gli appartengono»[42] cioè che sono caduti nel peccato, cioè che hanno rotto l’alleanza con Dio. Il peccato genera appunto la morte.
Mi pare a questo punto necessario un approfondimento di questo tema. Nella Summa Theologiae[43]S. Tommaso rispondendo alla questione se l’uomo nello stato di innocenza fosse immortale risponde positivamente, spiegando la cosa in questi termini: «Una cosa può essere incorruttibile in forza della sua causa efficiente. E questo è il modo in cui l’uomo sarebbe stato incorruttibile ed immortale nello stato di innocenza […] il suo corpo quindi non era indissolubile in forza del suo vigore di immortalità, ma vi era nell’anima una virtù conferita soprannaturalmente da Dio con la quale l’anima poteva preservare il corpo immune da ogni corruzione, finché essa fosse rimasta sottoposta a Dio. E la cosa è ragionevole. Come infatti l’anima trascende i limiti della materia corporea, così era conveniente che le fosse conferita inizialmente, per conservare il corpo, una virtù che trascendeva le capacità naturali della materia corporea»[44]. Un chiarimento per noi di quanto ci viene dicendo il serafico Dottore lo troviamo nella Sacra Scrittura. Nel testo ebraico della Genesi versetto 4 capitolo III leggiamo infatti: “Vayyiomer hanachash ‘el-ha ‘ischah l‘o-mot ttemutun”, il testo greco della LXX traduce così:” kaì eipen o ‘’ophis te gynaikì, oy Thanatoh ‘apothaneiste”, san Girolamo, a sua volta, traduce dall’ebraico:”Dixit autem serpens ad mulierem: Nequaquam morte moriemini”. Possiamo perciò, in base alle lezioni precedenti, tradurre dunque in italiano: “Ma il serpente disse alla donna: certissimamente non morirete di morte”, cioè non sarete colpiti dalla morte. La morte, quindi, da quanto chiarito dall’Aquinate non era ontologicamente costitutiva dell’essenza dell’anima umana, ma è sopraggiunta con la rottura da parte dell’uomo dell’alleanza con Dio. Il passo citato della Bibbia chiarisce anche quando andiamo dicendo circa la risposta costitutiva. Infatti, il comando divino pone in essere la libertà stessa dell’uomo e lo invita a partecipare alla storia umana aderendo liberamente alla sua natura che consiste e si pone in essere pienamente solo nell’assenso alla voce divina. L’uomo è chiamato a diventare uomo nell’esercizio della sua libertà che, ribadiamo, si realizza totalmente solo nell’assenso all’appello, allora inizia la vera storia umana.
Tutto questo, questo perché possa essere compiuto, presuppone il “sì!”, ovvero: l’assenso a Dio e la presa di coscienza della propria creaturalità questo “sì!” viene detto nella libertà e produce una storia di libertà. Ma il primo uomo[45] cade nell’inganno di Satana, e pronuncia il suo “no!” al progetto di Dio. In questo modo non inizia la “storia umana” come erroneamente credono Bruno ed Hegel, ma inizia, semplicemente, un’altra storia, quella dominata dal peccato, nella quale l’uomo si è all’inizio trovato e che, in questa economia ha previsto un’incarnazione di croce del Verbo di Dio.
Un’altra cosa va aggiunta per chiarire meglio la questione, ed è questa: la fede non è un sentimento, ma un atto costitutivo e fondamentale dell’essere umano. E lo è a tal punto che, senza tener conto di che cosa ontologicamente sia l’atto di fede dell’essere uomo, si rischia di non comprendere affatto il “ti estì?” dell’uomo metafisicamente parlando. È questo l’ontologico fondamentale costitutivo della natura dell’esserCi, molto più del parlare, del comprendere e della situazione emotiva stessa, come riteneva invece, in più punti, nei suoi scritti Martin Heidegger[46]; essa poi, non è affatto un caso specifico della situazione emotiva, sempre per rimanere in polemica con il filosofo di Friburgo. Insomma, è questo ciò che sostengo con forza: la fede è un ontologico fondamentale, anzi: l’ontologico fondamentale. E lo è perché la ragione non è, per sua natura e struttura, autosufficiente e fondativa, essa sola, non basta. Il punto iniziale e quello finale del pensare non appartengono al pensiero, inteso logicamente, come discorrere deduttivo, assenso infatti, il punto iniziale e quello finale del pensare determinato dall’assenso o dal diniego all’appello che Dio rivolge ad ogni uomo, anticipando il sorgere del pensare lo interroga, lo agita ne fa cogito “co –agito”, movimento verso la comprensione del senso, o meglio verso la comprensione dell’intelligibile, della sua essenza, appunto per questo il pensiero è un tendere verso, una profonda teleologia. In linguaggio fenomenologico: un intenzionare della coscienza, un tendere della coscienza verso il suo oggetto intenzionato. Il pensiero, per sua intima natura e struttura, presuppone un “atto di fede”, cioè una scelta libera pro o contro la verità, e quindi verso Dio che interpella ed interpellando, in un certo senso, si rivela. Il punto finale, che diviene una conseguenza logica del punto iniziale e del ragionamento stesso, invece, in quanto conclusione, invoca un ulteriore atto di fede del pensante nei confronti del pensato. Ovvero, invoca un “ergo”, un dunque invocato come risposta al pensare interrogante. «Nell’atto libero – suggerisce Joseph de Finance[47] - la volontà si comporta come causa efficiente, l’intelletto […] come causa formale. Ora la prima si riferisce all’esse […] la seconda all’essenza. Il primato dell’esse, chiave della metafisica tomista, implica dunque il primato dell’efficienza e quindi della volontà nell’ordine dell’agire. Se è vero che la volontà sceglie perché si trova ‘informata’ in un certo modo dall’intelletto (in quanto il bene proposto dall’intelletto è la forma della sua azione), essa stessa ha voluto questa informazione. E ciò non in virtù di un’informazione antecedente, ma in virtù della pura spontaneità del soggetto»[48] che ontologicamente si fonda sulla risposta costitutiva, su quella apertura all’Appello che è la radice profonda dell’essere umano.
Ma l’inganno sta nella proposta fatta da Satana al primo uomo di conoscere il bene e il male, proposta che si inserisce in questa stessa apertura come tentazione all’aseità, all’autosufficienza senza Dio. L’uomo non è stato creato da Dio per questo, è stato creato, invece, per la conoscenza del bene, perché Dio è il bene ed in Dio non vi è che Bene. Il male si genera nel momento in cui la creatura si ribella al Creatore, ontologicamente parlando, si può dire che il male è l’uscire dal bene ed il chiudersi ad esso e alla sua azione. Dio, che è Creatore, non è minimamente toccato e dal male nella sua natura divina; l’uomo, invece, non è in grado di reggere il male, ne è vinto, stravolto, sradicato da Dio che è il telos stesso, il fine per cui l’uomo è stato creato. L’inganno, quindi, sta nell’aver proposto all’uomo qualcosa che non compete alla sua natura e che non è in grado di reggere. La sfacciata proposta del “diventereste come Dio” di cui parla la Bibbia, sta appunto nell’aver fatto “credere” all’uomo che poteva reggere al peso della conoscenza del male – così come siamo venuti intendendo il concetto di conoscenza – accanto a quella del bene. Ma è proprio questa conoscenza che rende l’uomo decaduto. È iniziata così la storia di peccato dell’uomo, non la storia in quanto storia, come erroneamente hanno creduto Bruno, Kierkegaard ed Hegel, ma una delle storie possibili: quella iniziata con il “no!”.
Va ancora aggiunto – per come si è venuto a sviluppare il discorso sin qui fatto – che a differenza di quanto ritiene Pareyson[49] Dio non si è trovato a scegliere tra il bene ed il male; essendo, infatti, Egli l’essere ed il bene, e non esistendo affatto il male, nemmeno come possibilità dall’eternità. Ribadiamo con forza che il male è una dimensione dell’essere possibile della creatura che nella sua libertà può rifiutare il progetto di Dio. Dall’eternità non esiste altro che Dio e Lui solo, cioè il bene, Dio sceglie se stesso amando il suo stesso se stesso, lui che è l’amore. Il male non è al livello del bene, il bene infatti è dall’eternità. Il male è un atto libero che viene posto in esser nel tempo. Il problema di Pareyson e, secondo noi il suo limite, è consistito nell’aver posto l’essenza della libertà, la sua ontologia, nella scelta stressa e non nel fatto che ogni atto del soggetto essendo radicato nell’Io stesso trova in se stesso la sua ragione profonda.
Volendo concludere con quanto Joseph de Finance andava scrivendo nel lontano 1985, sia pure in relazione ai fondamenti metafisici della libertà, possiamo dire con lui che «Dio ci appare […] come la Libertà suprema, l’archetipo della libertà. E con ciò, non solo nel suo agire verso la creatura ma nel suo agire ‘interno’, , anzi nel suo essere stesso (identico per altro con il suo agire). Questo può sembrare troppo ardito, o addirittura assurdo. Ma lo è soltanto se mettiamo l’essenza della libertà anzitutto e fondamentalmente nella scelta. È assurdo infatti pensare che Dio avrebbe potuto scegliere il non essere o il non essere Dio», come del resto in un certo senso ritiene Pareyson, mentre in Sarte troviamo proprio l’assolutizzazione della libertà fatta consisterenella scelta senza presupposti. Ma, continua de Finance «se poniamo l’essenza della libertà nel fatto che l’atto del soggetto ha la sua ragione decisiva nel soggetto stesso, nell’Io, e non nelle determinazioni della sua natura nelle circostanze, o in qualche necessità a priori, allora vediamo che la libertà ha la sua realizzazione perfetta in Dio solo. E vediamo anche che, a quel livello, non si oppone alla necessità: tutt’e due esprimono aspetti complementari dell’Atto assoluto di essere»[50], cioè di Dio.
6.4 Sull’atto di fede
Edith Stein definisce in maniera esemplare il concetto di fede[51] e questo suo studio ci è oltremodo utile per chiarire ancora di più quanto andiamo argomentando. Fede in tedesco si dice Glaube che significa: “tenere-per-vero”, “tenere-per-reale un ente”, dunque ha a che fare con il concetto di certezza, certezza che è inerente alla comprensione di ciò che esiste realiter o idealiter. Questa certezza a che fare con alcuni atti della coscienza, fenomenologicamente intesa, che determina i vari tipi di esistenza, per esempio reale o ideale, esterno o interno; questo momento particolare è detto belief che è correlativo della coscienza col suo oggetto e accompagna la percezione, il ricordo, il riconoscimento di uno stato di cose e quindi a che fare con la conoscenza di esso. La conoscenza di uno stato di cose (per es. che A è B), poi è o immediata, e in questo caso si presenta come intuizione, o mediata e in questo caso va intesa come deduzione. Riguardo ad uno stato di cose si può prendere posizione, come se il belief si staccasse e si rendesse indipendente, e allora si ha la convinzione. Una cosa è, quindi, dire conosco che A è B altro è dire: io sono convinto che A è B. La convinzione è il momento formale del belief che si riferisce alla consistenza della qualità, ovvero allo stato di cose, essa si riferisce alla proposizione nella quale si afferma lo stato di cose; dunque, alla consistenza dello stato di cose corrisponde la verità della proposizione. La convinzione dello stato di cose implica la convinzione della verità della proposizione, possono però presentarsi delle modificazioni della certezza, esse sono: la supposizione, il dubbio, la domanda, e la opinio che si avvicina alla supposizione ma non è ancora chiara in sé. Quando si parla di opinio si intende una proposizione di questo tipo: “mi sembra che A sia B, ma potrebbe essere diversamente”.
Un ulteriore significato di di Glaube consiste nel fatto che nella supposizione ci sono sempre ragioni che conducono alla supposizione, mentre nella opinio c’è un atteggiamento scettico che contempla la vuota possibilità dell’essere altrimenti. La opinio si avvicina alla doxa che per Edith Stein indica il credere ciecamente. La doxa non contempla più le ragioni, neppure come vuote possibilità, ma si orienta verso una fermezza interna che la fa somigliare alla convinzione, ma di segno opposto. C’è dunque una convinzione cieca che è doxa ed una convinzione che vede.
Nessuno di questi inerisce però alla natura di fede in senso teologico. Per comprenderne l’intima struttura la Stein usa il termine latino fides. La fides differisce dalla convinzione e dalle sue modificazioni perché non ha come correlato uno uno stato di cose, ma un oggetto primario, la fides, cioè, in quanto Atto non è fondato su altro, ma è un Atto semplice. L’atto di fede cosiste dunque nel comprendere qualcosa e nel tenerla per vera. E. Stein dice: «Ciò che comprendo penetra in me e mentre lo comprendo, mi afferra nel mio centro personale ed io mi ritengo stretto ad esso». L’atto di fede è un atto unitario e indivisibile che comprende: l’essere afferrato, l’aggrapparsi ed il comprendere: «quanto più vengo afferrato, tanto più mi aggrappo e tanto più comprendo». Conoscenza, amore e azione sono riuniti, dunque, in un atto unico. L’aspetto conoscitivo dell’atto di fede, sottolinea E. Stein, non è come la percezione per es., perché l’oggetto non viene visto, perciò qualcuno potrebbe confondere la fides con la doxa. Ma qui l’invisibile, pur non essendo accessibile ad alcun senso, è per noi immediatamente presente, ci tocca, ci sostiene, e rende possibile afferrarci ad esso. L’oggetto della fides è Dio, la fides è fede in Dio: la fede in Dio ha questa assolutezza, possiamo perderla, ma non può modificarsi, a differenza degli altri atti che possono essere modificati, belief, convinzione, doxa, opinio.
L‘ateismo deve essere inteso invece come il dubbio su Dio, e dice la Stein, che non è una modificazione della fides . Può esserci solo una modificazione della convinzione che Dio esiste, o perché non c’è la fede o perché, pur essendo presente, non si riesce a convalidare questa presenza attraverso la convinzione intellettuale. Per E. Stein l’atto religioso fondamentale è un sentire in cui conoscenza, amore e azione sono uniti. Conoscenza è comprendere che siamo toccati dalla mano di Dio, e Dio si mostra forte e potente, anzi Onnipotente. Afferrare la mano di Dio è l’atto umano che coopera a costituire l’atto di fede. La fede intesa in questo modo conduce alla conoscenza naturale di Dio, dove “naturale”” va preso on le pinzette, in quanto qui è sempre in gioco una trascendenza, la trascendenza di Dio[52]. La conoscenza naturale di Dio è intesa come esplicazione oggettiva di ciò che è semplicemente presente come atto di fede. Preambulum ad articolos fidei della conoscenza soprannaturale di Dio di cui parla San Tommaso.
Per Edith Stein il riconoscimento della rivelazione è possibile attraverso questa conoscenza naturale di Dio data attraverso l’atto di fede, semplice e originario, che consiste nel sentir bussare e nell’aprire, il sentir bussare e l’aprire sono preliminari all’accettazione della Rivelazione e in questo senso sono naturali, anche se possono essere rifiutati. Tutto ciò avviene nel centro della persona, nel suo nucleo, in quell’essente che essa è in sé e attraverso il quale è similitudo dell’essere divino; esso è ciò che è a fondamento della analogia entis. Nel nucleo della persona si genera la fides intesa come incontro con il divino. Tale atto si può accettare o non accettare. Chi lo accetta aderisce semplicemente e l’accettato diventa credibile, altrimenti si può giungere al credibile attraverso la via razionale della dimostrazione dell’esistenza di Dio.
In sintesi si può concludere dicendo che tra ragione e fede esiste una possibilità di incontro che si presenta come necessaria, ma va tenuta presente la fragilità stessa della ragione che può perdersi nella autolatria, nell’illusione di poter fare tutto da sola, senza Dio, estsi Deus non daretur, perché questo è il suo vero peccato. Già S. Paolo[53] faceva notare nella sua lettera ai romani la possibile caduta della ragione non più in grado di cogliere le tracce della mano di Dio nel creato quando è ottenebrata dal peccato, di cui la caduta nell’immanenza è senza dubbio il peccato della ragione del nostro tempo.
[1] Recita infatti il catechismo della Chiesa cattolica: «Dio, infinitamente perfetto e beato in se stesso, per un disegno di pura bontà, ha liberamente creato l'uomo per renderlo partecipe della sua vita beata. Per questo, in ogni tempo e in ogni luogo, egli è vicino all'uomo. Lo chiama e lo aiuta a cercarlo, a conoscerlo, e ad amarlo con tutte le forze. Convoca tutti gli uomini, che il peccato ha disperso, nell'unità della sua famiglia, la Chiesa. Lo fa per mezzo del Figlio suo, che nella pienezza dei tempi ha mandato come Redentore e Salvatore. In lui e mediante lui, Dio chiama gli uomini a diventare, nello Spirito Santo, suoi figli adottivi e perciò eredi della sua vita beata». E ancora al numero 27: «Il desiderio di Dio è inscritto nel cuore dell'uomo, perché l'uomo è stato creato da Dio e per Dio; e Dio non cessa di attirare a sé l'uomo e soltanto in Dio l'uomo troverà la verità e la felicità che cerca senza posa:La ragione più alta della dignità dell'uomo consiste nella sua vocazione alla comunione con Dio. Fin dal suo nascere l'uomo è invitato al dialogo con Dio: non esiste, infatti, se non perché, creato per amore da Dio, da lui sempre per amore è conservato, né vive pienamente secondo verità se non lo riconosce liberamente e se non si affida al suo Creatore [Conc. Ecum. Vat. II, Gaudium et spes, 19]».
[2] Sempre ammesso che il mondo sia interessato al dialogo con i cattolici, dialogo che comunque non è e non sostituisce l’evangelizzazione, compito primario del cristiano; questo va ricordato.
[3] Cf. S. AGOTINO, De Magistro, BUR, 2004, 1,1.
[4] S. AGOSTINO, ibidem, 1,2. Il testo originale è il seguente: «Videtur ergo tibi nisi aut docenti aut commemorandi causa non esse instituitam locutionem?».
[5] Che la questione non sia marginale emerge chiaramente da quanto segue. Il terreno comune della ragione non appare affatto neutrale, ma risponde esso stesso alle opzioni fondamentali che vengono fatte non appena ci si mette a filosofare. Quali i maestri? Quali le collezioni di problemi, quali le analisi che vengono fatte proprie? Per esempio: il giudizio su Kant, su Hegel, sugli esiti delle loro filosofie decide il proprio percorso, rispetto a cosa? Rispetto alla trascendenza “verticale” o alla immanenza. Questo è il vero crinale che discrimina la ragione credente dalla laica me viceversa: la risposta rispetto alla capacità della ragione stessa di aprirsi alla trascendenza verticale o chiudersi nella immanenza.
[6] E. GILSON, La filosofia nel Medioevo, Sansoni, Milano, 2004. Ne esiste anche una più recente edizione ad opera della BUR, 2011, ma nel testo ci si riferisce all’edizione Sansoni del 2004, che è identica a quella BUR 2011, cambiando solo la numerazione delle pagine e l’introduzione dei diversi curatori.
[7] E. GILSON, op cit, 4.
[8] E. STEIN Essere fiinito Essere Eterno, Città Nuova, Roma, 1999, 42.
[9] J. HABERMAS J. RATZINGER Ragione e Fede in dialogo, Marsilio, Padova, 2004, 74s.
[10] Ibidem, op cit. 75.
[11] Cf. Ibidem, op cit. 75.
[12] Idem, op cit. 79.
[13] Idem, op cit. 81.
[14] Cf. J. HABERMAS J. RATZINGER, op cit. 82.
[15] Idem, op cit. 41.
[16] Idem, op cit. 42.
[17] Idem, op.cit. 53.
[18] Cf. E.STEIN op. cit., 41. Inoltre, si tenga presente E. STEIN, La filosofia esistenziale di Martin Heidegger, in STEIN E., La ricerca della verità, Città Nuova, Roma, 1999, 70.
[19] Cf. G.B. VICO, La scienza Nuova, BUR, Milano, 1993, 692 – 708.
[20] Il tema è stato ampiamente affrontato da Husserl, tanto da essere una costante del suo pensiero sin dalle Ricerche Logiche, quando nel presentare quella che poi sarebbe divenuta la sua Fenomenologia trascendentale prendeva posizione duramente contro lo psicologismo, nel quale ravvisava una sorta di relativismo in nuce. Si vedano a tale scopo i Prolegomeni ad una logica pura, in Cf. Ricerche logiche, Il Saggiatore, Milano, 2005, vol I, 69 - 78 Ma più ancora, il tema ritorna con rigore ancora maggiore nell’ultima grande opera di Husserl, pubblicata poi postuma, cioè La Crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, Il Saggiatore, Milano 2008, si leggano in modo particolare le pagine 31 – 47, ma soprattutto in una conferenza tenuta al KulturBund di Vienna nel lontano 1935 poco prima della morte. Qui il padre della fenomenologia chiarisce proprio la dinamica di questo tentativo delle non-filosofie – come egli stesso le chiama - di utilizzare la filosofia per distruggere la filosofia stessa. Rimandiamo il paziente lettore allo studio di questi testi.
[21] Anziché chiamarla “opzione fondamentale” , come naturalmente sarebbe venuto dalle riflessioni intorno al pensiero di Del Noce riguardo al fenomeno dell’ateismo e della irreligione, per non incorrere nel fraintendimento con il corrispettivo concetto, trattato in Teologia morale, ritengo che vada usato il termine “risposta fondante” o “costitutiva”. In essa c’è sia il concetto dello “assenso fondamentale” sia quello del “dissenso fondamentale”, cioè del “sì!” o del “no!” all’appello che Dio fa ad ogni uomo sia esso cristiano o non cristiano. Ovviamente esistono delle diversità di responsabilità e di servizio alla verità, ma è chiaro che nella sua vita ogni uomo sceglie se indirizzarsi al bene o al male. Infatti la scrittura è chiara in merito, quando afferma che il Verbo illumina ogni uomo che viene nel mondo, ma le tenebre non l’hanno accolta. Sorge il problema che se uno, pur essendosi volto al bene, o a quello che crede essere il bene – perché il bene vero che è Dio non gli è stato ancora rivelato - si trova poi, di fatto, nella condizione di combattere contro il Bene, credendo di compiere il Bene. È esemplare in tal senso il caso di Saulo quando, credendo di lottare per Dio, di fatto lottava contro di Lui quando perseguitava i cristiani. Comunque sia, esiste questo momento nella vita di ognuno,; esso è la risposta ad un Appello e poiché è una libera risposta, costituisce l’uomo libero nella sua essenza, e perciò in grado di decidere, ponendolo così nella storia. All’Appello dell’Altissimo l’uomo risponde e per mezzo di questa “risposta costitutiva” determina il proprio essere e le scelte conseguenti. Va da sé che in qualunque momento è possibile determinare in modo diverso – anche se con profondi sforzi – la propria scelta costitutiva – ovvero la risposta fondante - e in tal modo orientare diversamente la propria vita, verso il bene o viceversa verso il male.
[22] Sul concetto di Logos, e su come sia stato interpretato dalla tradizione della Chiesa, rimandiamo a S. GIUSTINO, Apologia II, EDB, Bologna 2011; S. AGOSTINO, Commento al Vangelo di Giovanni, Città Nuova, Roma, 2005, Omelia I, 77ss.; E. GILSON, op. cit. 13 – 18.
[23] Con il termine irreligione, coniato da Augusto Del Noce nel suo saggio Appunti sulla irreligione occidentale, si intende il fenomeno dell’agnosticismo di massa, caratteristico dei nostri tempi. Si tratta del disinteresse alla questione di Dio. Tale irreligione, tratto caratteristico della civiltà della tecnica, differisce profondamente dall’ateismo del primo Novecento, i cui tratti fondamentali consistevano nella sostituzione dell’ideologia alla religione, e nello scontro frontale con il cristianesimo.
[24] STEIN E., Essere finito Essere Eterno, Città Nuova, Roma 1999.
[25] STEIN E., op. cit. 453.
[26] Dante Alighieri nella Divina Commedia ha narrato questa ricerca della verità nei saggi dell’antichità. Il tema era stato affrontato con estrema chiarezza da S. Giustino nelle sue due Apologie.
[27] DEL NOCE A., Il problema dell’ateismo, Il Mulino, Bologna, 1964, pp. 355 -356.
[28] DEL NOCE A., op. cit. 366.
[29] Gen 2,16s.
[30] Lc 1, 34.
[31] Gen 4,1
[32] A. DEL NOCE, op. cit. 347.
[33] E. STEIN, Essere finito essere eterno, Città nuova, Roma,1999. pp. 41- 42.
[34]Cf. E. HUSSERL, Ideen zu einer reinen Phanomenologie und phanomenologischen Philosophie, tr. It. Idee per una fenomenologia pura e una filosofia fenomenologica Einaudi, Torino, 1965, ed. 2002. Inoltre, E. STEIN, Einfhurug in die philosophie, tr. It Introduzione alla filosofia, Città Nuova, Roma, 1991, ed 2001. In modo particolare vanno tenute presenti le differenze di metodo tra Husserl e La Stein che portarono quest’ultima, assieme ai discepoli di Gottinga, ad allontanarsi dagli esiti sempre più idealistici della fenomenologia husserliana, per tendere “verso le cose stesse”, secondo lo stesso motto husserliano, che la Stein trovò nel ritorno alla filosofia di san Tommaso.
[35] In questo la proposta fenomenologica di Edith Stein, più attenta alla lezione del realismo moderato di S. Tommaso d’Aquino, permette un punto di contatto tra modernità e philosophia perennis.
[36] Va da sé, che la realizzazione come compito che il cristiano ha di se stesso non è possibile senza la grazia di Dio elargitaci in Cristo e donataci dalla Chiesa nella vita sacramentale.
[37] Con il termine Aufhebung (che letteralmente significa sia “togliere” e sia “conservare”) Hegel intende il compimento del processo dialettico, qui gli opposti sono conservati e conciliati nella loro opposizione. Questo concetto hegeliano si rifà appunto, alla coincidenza degli opposti di Eraclito, ripresa poi da Bruno, e intesa non solo come processo logico, ma anche processo stesso della realtà secondo l’antica concezione eraclitea.
[38] Termine ebraico che può essere reso con il greco metànoia e con l’italiano conversione questo termine significa appunto il cammino di ritorno dell’uomo, del popolo eletto, al suo Dio in seguito alla chiamata che Dio stesso fa attraverso i profeti, gli apostoli etc..
[39] Con questo termine intendo l’esistenza che si caratterizza oltre il concetto nietzschiano della morte di Dio. Nietzsche utilizza il termine Ǚbermensch che significa superuomo, o oltreuomo coma taluni traducono. In effetti non credo si possa utilizzare tale termine nietzschiano, in quanto lo Ubermensch è fedele alla terra, l’uomo della tecnica, invece, è fedele solo a se stesso. Ho preferito, perciò, forzare la lingua italiana coniando – se me lo si concede – questo termine per sottolineare l’intenzione dell’uomo dell’epoca della irreligione di voler vivere come suo stesso dio, architettando la sua esistenza come se si trovasse nel Centro Commerciale delle idee e dei modelli, unico e divertito artefice di sé.
[40] (Gen 1,28s)
[41] (Gen 2,16s)
[42] (Sap 2,24.)
[43] S. TOMMASO D’AQUINO, Summa Theologiae, ESD, Bologna, 1996.
[44] S. TOMMASO D’AQUINO,op. cit, Q. 97, art 1.
[45] Adamo ed Eva, poiché Adam è l’unione di maschio e femmina; il femminile in ebraico di Adam è Adamah, cioè la terra di cui Adam è fatto. A conferma di quanto detto si legga Gen 1,27
[46] Cf. M HEIDEGGER., Sein und Zeit, tr. it Essere e tempo, a cura di P. Chiodi, Longanesi, Milano, 1976.
[47] J. DE FINANCE, I fondamenti metafisici della libertà, in “Per la Filosofia”, anno II, n° 5, Settembre – Dicembre, 1985, Massimo, Milano, 1985, 2 – 9. De Finance è stato docente di Metafisica presso la Pontificia Università Gregoriana di Roma.
[48] J. DE FINANCE, op cit. 9.
[49] PAREYSON L., Ontologia della libertà, Einaudi, Torino, 1995. cfr. Parte II cap. III, 235 – 292.
[50] dE FINANCE J. op. cit. 8.
[51] E. STEIN, La Struttura ontica della persona, in Natura persona e mistica, Città Nuova, Roma, 1999, Cap V. Tutto il paragrafo è una sintesi di quanto la Stein enuncia nel capitolo suddetto alla cui lettura si rimanda il paziente lettore.
[52] Cf. S. Paolo Rm 1, 16 – 32.
[53] S. Paolo Rm 1, 20ss.