L’essenza del nichilismo *

Capitolo 1 del Saggio, Massimiliano Mirto, La Ragione oltre la ratio, Armando editore Roma, 2007.

In che cosa consiste il nichilismo? Semplicemente in questo: Nella Storicizzazione dell’Essere, ovvero, nel suo indebolimento. Padre di questa concezione filosofica fu nella modernità Nietzsche, nell’antichità furono i sofisti: Protagora e Gorgia; ma anche Democrito e il suo materialismo ha avuto un certo peso sul nichilismo contemporaneo e soprattutto in Marx che si laureò con una tesi proprio su Democrito. Questo indebolimento dell’essere lo si coglie chiaramente dalle prime pagine di Nichilismo ed emancipazione di Vattimo. La tesi, che egli riprende da Nietzsche - primo teorico e padre del nichilismo moderno - attraverso Heidegger, (definito da Edith Stein: la cattiva coscienza del pensiero filosofico), è questa:” l’essere non è propriamente, piuttosto si dà” [1]. Affermazione, questa, che si pone come negazione dell’Arch’, in quanto significa che il pensiero è e deve essere an–arcaico, cioè privo di Archè; eppure, in questo suo porsi, proprio in quanto si pone, pone un Arché e pone essa stessa come arché. Ora, il significato di Archè non è solo quello di “principio”, ma anche quello di “potere, ordine, gerarchia”. Tutti elementi, questi, che il nichilismo rifiuta e nel farlo contraddice se stesso, poiché pensare è sempre porre in essere. Da ciò consegue che il pensiero deve essere, per Vattimo, antimetafisico, poiché egli vede nella metafisica un’imposizione eteronoma di valori, criteri e punti di riferimento. L’inganno in cui cade Vattimo, e prima di lui altri, consiste nel ritenere che la storicizzazione dell’Essere, l’incontro nel tempo dell’Essere con l’essere finito che è qui e che chiamiamo uomo, sia la sua relativizzazione e questo perché, con Nietzsche ha già accettato la concezione ciclica - cioè priva di senso - del tempo, al posto di quella, giudaico cristiana, lineare.

Vattimo, quindi, rifiuta il carattere di stabilità ed eternità tanto dell’Essere, quanto della Verità. L’instabilità dei quali produce anche una instabilità del concetto di natura che da questi discende. Il nichilismo chiama in causa Dio; da Dio allora bisogna ripartire per superare il post – moderno e la modernità. Il nichilismo e la post-modernità altro non sono che il frutto della delusione e disillusione della civiltà che ha creduto nella modernità. Ora, la modernità stessa è stata un fraintendimento dei valori profondi dell’Occidente, che esiste in quanto cristiano. La negazione della cristianità da parte dell’Occidente, trasforma l’Occidente nella terra del deserto, scristianizzandosi la terra dell’Occaso si gomorrizza: siamo di fronte ad una babilonizzazione dell’Occidente.

Nemmeno la Chiesa è al di fuori di questo movimento che caratterizza la nostra epoca; vivendo nel mondo, respira del mondo, pur non appartenendo al mondo. Anche al suo interno, infatti, anzi, proprio e soprattutto al suo interno, si assiste alla battaglia tra nichilismo e cristianesimo. Lo spirito del nichilismo è entrato nelle stesse mura del Tempio, dentro la stessa Chiesa, ma per grazia di Dio, il Papa rimane l’unico chiaro baluardo di civiltà nell’intero Occidente, e la sua parola è, più che mai, una parola di luce e di verità.

Anche oggi, infatti, la Chiesa, Tempio vivo del Cristo, è assimilabile al racconto evangelico della purificazione del Tempio. Anche oggi, come allora, alcuni, nella Chiesa hanno confuso l’Annuncio del Vangelo con il vendere buoi, pecore, colombe e cambiavalute, credendo che la Chiesa sia un’Agenzia culturale, o chissà che altro, anziché la Sposa di Cristo.

Quella parabola, infatti, è rivolta a noi e non ai Giudei.

Ed ora come allora, Cristo stesso (attraverso il Papa, suo vicario) prenderà la sferza della sua parola e ripulirà il Tempio del suo corpo, che è la Chiesa, scacciando “tutti fuori dal Tempio con le pecore e i buoi; gettando a terra il denaro dei cambiavalute rovesciandone i banchi”. (Gv 2, 13 –18). È  qui che si vince la prima battaglia contro il nichilismo.

Ma questa, non è la battaglia di chi scrive. A noi interessa offrire un contributo teorico al superamento del nichilismo filosofico, che oggi si presenta come l’unica filosofia, anzi, più corretto sarebbe dire: come una non–filosofia.

Noi sappiamo che è iscritto nel codice genetico della filosofia il suo rifiuto per la an-archia, mentre è proprio questa ciò cui mira il nichilismo. I greci, difatti,  sin dall’inizio del loro filosofare (e prima ancora già al tempo dei racconti mitici) si sono posti la domanda circa l’Arch’ delle cose, riconoscendo in esso il principio dell’ordine, cioè come di ciò che trasforma il caos in cosmo, il disordine in ordine. Anche la Bibbia, all’inizio, si pone la domanda circa l’inizio. Va però aggiunto che gli ebrei, cui Dio si è rivelato per primo, hanno conosciuto e sperimentato Dio prima come liberatore (Esodo) e poi come Creatore (Genesi). Tutto ciò non fa che esprimere il bisogno che è già insito nel cuore dell’uomo, fin dall’origine della civiltà e della civiltà Occidentale in particolare, della ricerca dell’ordine. Il principio, che non è solo l’inizio, o ciò da cui tutto inizia e a cui tutto si riduce, secondo i greci è anche ciò che gerarchizza, che ordina, che tiene fuori il caos dal cosmo. Anche nel Genesi si vede che l’azione di Dio, creando ogni cosa dal nulla, crea secondo un certo ordine, ordine che riflette essenzialmente che Dio stesso è Ordine e Armonia. Il mondo creato da Dio, è ordinato a Dio; in questo riteniamo sia  espresso il senso stesso della storia,  e questo senso è il senso che il nichilismo rifiuta, proprio in quanto senso insito nella storia, posto in esso già dal Creatore; a questo senso il nichilismo oppone  gli accordi di senso, le prospettive mediate e contrattate di volta in volta. 

È Nietzsche che reintroduce nella filosofia la concezione ciclica del tempo, eliminando da esso ogni finalità, ogni apertura verso il futuro, quest’ultimo, per il filosofo della morte di Dio, è già stato, il domani coincide con l’ieri. Il  messaggio che dà vita, viceversa, Dio, il Dio che irrompe nella storia  lo propone al mondo, non certo lo impone, come pretendono di fare, invece, i  neo - totalitarismi neo - illuministi del politicamente corretto, quando mirano a monopolizzare l’opinione pubblica, a zittire tutto ciò che si oppone alla loro - questa sì - prospettiva.

Vattimo ci presenta nel suo scritto sul nichilismo un oltre–passamento della modernità in nome di una pseudo-liberazione da una presunta violenza originaria della metafisica. E, per far questo, propone un pensiero non-fondante. Citiamo il passo per intero: “La situazione in cui l’esigenza di un oltrepassamento della modernità e della metafisica si presenta come urgente è anche quella in cui l’essenza violenta della metafisica è totalmente svelata. Il che significa che un oltrepassamento della modernità non sarà possibile mediante strumenti ancora metafisici, dunque attraverso un pensiero fondazionale”[2]. Il pensatore torinese  crede che basti mascherare di debolezza il pensiero per imporre la dittatura del nichilismo: questa è stregoneria filosofica bella e buona. Non è affatto dimostrato che la metafisica sia violenza; non vedo, come solo perché Heidegger e Nietzsche abbiano attaccato la metafisica noi, oggi, dovremmo credere a loro. Tuta la filosofia di  Nietzsche e di Heidegger è una mistificazione della Verità, un irrompere del nichilismo nel pensiero Occidentale.

La non-filosofia (nel senso jaspersiano del termine) del nichilismo non solo si nutre del linguaggio filosofico, ma pre-tende di tappare le ali ad ogni possibile speculazione filosofica, spacciando per dogma di fede le sue posizioni proprio quando si pone come antidogma. Quanto su detto lo spinge ad escludere dal discorso filosofico ogni possibile Arché, ritenendo che da qui provenga ogni violenza e ogni prevaricazione. Le sue proposizioni non sono altro che il tentativo di giustificare il relativismo etico, che confonde la libertà, quella verace, che viene dalla conoscenza della verità, con l’abbassamento della ragione a giustificatrice dell’istinto, dell’Es; su questo punto ritorneremo più avanti. Ci troviamo di fronte, come già con Nietzsche, all’insorgere di una nuova sofistica; contro di essa ci batteremo come si batté Socrate. Senza di lui, infatti, noi vi sarebbero stati i frutti maturi del pensiero greco: le ontologie di Platone e di Aristotele. Affermiamo con forza“ l’animo inconcusso della ben rotonda verità”[3], verrebbe voglia di dire assieme a Parmenide, contro la sua negazione operata dal nichilismo contemporaneo. Quando Vattimo evita, declassandole,  “le risposte metafisiche, nella misura in cui assumono che la verità e l’essere siano qualcosa di stabile o decisamente qualcosa di eterno” [4], opponendo a ciò, come egli stesso dice, prendendo spunto da Freud “quel che credo si possa chiamare un indebolimento del principio di realtà” [5], non fa che, di volta in volta, mediare i mezzi e i fini, in una infinita e anarchica contrattazione, illudendosi che tutto ciò sua liberatorio per l’uomo. Ci si illude se si pensa che questo (come egli direbbe)   non-principio sia segno di una pax ventura nel mondo e ci si illude terribilmente perché come ha recentemente affermato al Convegno ecclesiale di Verona  Josef Ratzinger, il modello nichilista è odiato ed osteggiato in un mondo in cui si afferma il ritorno al religioso e di cui solo l’Occidente europeo sarebbe fuori, nel nome del suo neo-paganesimo neo-illuminista trionfante. Non va dimenticato poi che l’Occidente non è solo Europa , ma anche America, dove invece illuminismo e cristianesimo, religione e visione del mondo sono binari di una stessa via che guidano la civiltà verso la stessa meta, l’uno funzionale all’altro. Senza accorgersene, Vattimo continua a ragionare in termini eurocentrici, quando ritiene che il modello debole del nichilismo, da lui propugnato, sarebbe accolto come una panacea di tutti i mali dalle altre culture mondiali, che altro non attenderebbero che un modello neutro che annulli le identità in un brodo primordiale, come terreno ideale per un dialogo possibile.

L’indebolimento del “principio di realtà”, poi, produce un incremento del “principio di piacere”, noi diciamo sulla scorta del fatto che i due principi sono strettamente interconnessi, come ha ben mostrato lo stesso Freud, per cui il diminuire dell’uno implica il crescere dell’altro. Per il fatto che di comune accordo si sia deciso che il principio di realtà vada indebolito – forma questa di volontà di potenza nascosta – non è detto che la realtà di per sé si indebolisca. Anche Vattimo da buon idealista di terza generazione, non fa che ricondurre tutta la realtà all’Io, nel suo caso, all’io malato della società contemporanea, privo di guida e di punti di riferimenti, un “Io” debole in preda  alle forze dell’Es. Tale indebolimento, dicevamo, non produce, come egli auspica “ragioni filosofiche per preferire una società democratica, tollerante, liberale invece che una società autoritaria e totalitaria”[6]. Questa “ontologia dell’indebolimento dell’essere”, come egli la chiama è, invece, proprio ciò che generala società del totalitarismo e dell’autoritarismo del principio di piacere, dell’arbitrio pseudoetico, dettato dall’istinto. A parte il fatto che dietro a tutto ciò, pare,  si nascondono proprio quelle corporazioni che riducendo l’uomo a cosa ne abusano a pieno piacimento, contro le quali sembrerebbe che lo stesso Vattimo si schieri quando critica l’Occidente. A tutto questo noi opponiamo la Ragione in senso forte, una ragione cioè aperta a Dio, all’Essere, alla Verità.

Come già detto, l’Essere, che si dice nella parola rivelandosi, può apparire come una interpretazione tra le altre, e allora la ragione illuminata dalla verità la riconosce e la comprende, cioè, la prende con sé. Si smonta così la tesi di Vattimo quando afferma, sulla scorta di Heidegger, che “noi abbiamo bisognosi rammemorare il senso dell’essere, e di riconoscere che questo senso è la dissoluzione del principio di realtà nella molteplicità delle interpretazioni” , e perciò invoca una nuova ontologia “fosse solo per dimostrare che l’ontologia è destinata a morire” [7]. Questo discorso di una rinuncia dell’ontologia potremmo accettarlo solo in chiave levinasiana[8], sostituendo all’ontologia dell’Uno–tutto la metafisica dell’Altro nell’epifania del Volto. Metafisica, questa, come insegna la filosofia ebraica, che si fonda sul Tu eterno che è il Signore delle schiere, il Dio creatore e liberatore. Martin Buber, sulla stessa lunghezza d’onda afferma in modo chiaro: “All’inizio è la relazione”[9], intendendo con ciò la relazione fondamentale con Dio manifestatasi per la prima volta nella vocazione di Abramo. La realtà non si liquefa affatto nella molteplicità delle sue interpretazioni proprio perché le interpretazioni implicano l’esistenza di un “quid” da interpretare, che è già dato. Quando poi l’autore di Nichilismo ed emancipazione definisce l’ermeneutica come un semplice aggiustamento momentaneo, non fa che tenerla separata dalla verità, mentre invece, l’ermeneutica nasce come inculturazione storica della verità, adattamento della verità alla situazione data, e lo fa dimenticando le origini stesse dell’ermeneutica giudaica e cristiana. Tutto ciò, però, non esclude affatto, ne siamo convinti, che se illuminata dalla verità, questa interpretazione non sia, essa stessa, in cammino verso la verità come tutta l’opera di Pareyson, che Vattimo ben conosce, sottolinea.

“Non è forse come un martello che colpisce la roccia?” dice il profeta Geremiariferendosi alla parola del Signore. I rabbini hanno interpretato questo versetto intendendo che la parola di Dio pur essendo unica ha una densità di significati che le permettono di illuminare un’infinità di situazioni esistenziali. Su questo tema torneremo successivamente.

Altro punto da cui non si può che dissentire fortemente da Vattimo è il concetto di “tramonto dell’Occidente”. Un inciso di analisi storica: questo bisogno di tramonto dell’occidente o di sua coscienza, tipicamente europeo, da vecchia Europa, è una conseguenza del processo di marginalizzazione cui è stata sottoposta l’Europa stessa già dalla fine della grande guerra e, in modo ancor più chiaro, a partire dalla fine della seconda guerra mondiale. A questo fenomeno di presa di coscienza della sua marginalità e non ad altisonanti e vuoti ideali, va ascritto, a nostro parere, il processo di unificazione europea, oltre che alle necessità delle corporazioni continentali di non sparire completamente in un mondo mutato. Pochi ideali e molta retorica, quindi. Ritornando al punto cui eravamo giunti, alla critica, cioè, del concetto di tramonto dell’Occidente, tanto propagandato dal nichilismo vattimiano notiamo che “tramonto dell’Occidente significa qui, la dissoluzione dell’idea di un significato e di una direzione unitaria della storia dell’umanità”[10]. Cosa intende dire con queste parole? A cosa si richiama? Semplicemente alla concezione ciclica del tempo priva di senso che è uno dei fondamenti della concezione dello Ubermensch nietzschiano.  Con questa concezione, che si oppone alla concezione lineare del tempo, tipica del giudaismo e del cristianesimo (per la quale, invece, il tempo è aperto alla venuta del Messia, cioè è aperto alla speranza che Dio, coadiuvato dall’aiuto dell’uomo, instauri il suo Regno), con questa concezione ciclica, dicevamo, si realizza pienamente il nichilismo, poiché si priva di telos, di un fine, la storia umana.

Come rispondiamo a Vattimo? Con un fatto, con ciò che di Dio dice questo fatto, e con ciò che Dio dice attraverso questo fatto: Il fatto è Auschwitz; ciò che questo fatto dice, poi, lo lasciamo dire ad Hans Jonas, che essendo voce ebraica, è super partes. Nel suo scritto Il concetto di Dio dopo Auschwitz[11] egli afferma che questo fatto, unico nella storia dell’umanità, lascia emergere una nuova visione di Dio. Da Auschwitz in poi si può parlare di un “Dio sofferente”, di un “Dio diveniente” e di un “Dio che prende cura”. Il secondo punto è quello che ci interessa. “Dio diveniente” significa che Dio si cala nel tempo, che mette se stesso in gioco. “Che significa del resto Dio diveniente?”, si domanda Jonas. Significa che  Egli “è toccato da ciò che accade nel mondo”[12], significa che Dio si mischia con la storia umana prendendone parte. E, in ultima analisi, per ciò che qui ci interessa in modo prioritario, la conseguenza dell’idea di un Dio diveniente è che “essa distrugge l’idea di un eterno ritorno dell’identico. –ovvero della concezione ciclica del tempo di cui parlavano i filosofi del nichilismo – Quest’ultima era l’alternativa di Nietzsche alla metafisica cristiana, che in questo caso viene a coincidere con la metafisica ebraica” [13]. Alla preoposta di Vattimo, dunque,  rispondiamo con un fatto, con questo fatto: Auschwitz e con la parola-silenzio che questo fatto è,  e dice. Auschwitz, apice e frutto avvelenato del nichilismo uccide il nichilismo, e ogni nichilismo venturo, come parola paradosso che riafferma il Nome Benedetto di Dio sull’abisso del nulla.

Il tramonto dell’Occidente viene invocato in nome di una uguaglianza che, livellando tutti,e misconoscendo le specifiche diversità, non fa che deresponsabilizzare tutti. Essa, a detta di Vattimo, va auspicata perché  “il pensiero Occidentale considerava la propria civiltà come il massimo livello evolutivo raggiunto dall’umanità in generale e che, su questa base si sentiva chiamato a civilizzare anche a colonizzare, convertire, sottomettere tutti gli altri popoli con cui entrava in contatto” [14]. Possiamo convenire che l’Occidente è venuto meno alla sua missione di servizio alla verità, di condurre cioè i popoli alla verità. Possiamo dire che ha tradito il suo destino, ogni qual volta si è spogliato del Cristo o lo ha usato per nascondere i suoi interessi. Ma il destino, inteso come vocazione e destinazione dell’Occidente,  coincide con il luogo della morte dei cristiani-giudei Pietro e Paolo a Roma., coincide con la missione di  servire al verità e far conoscere alle genti il Nome santo dell’Unico vero Dio, Dio di Abramo, Dio di Isacco, Dio di Giacobbe, Dio di Israele e Dio di Gesù il Cristo. Possiamo contestare questo traviamento e tradimento del senso del suo destino, ma non possiamo né misconoscerlo, né annullarlo.

Volendo però rimanere nei limiti e nel campo della filosofia accademica possiamo rispondere a Vattimo citando Husserl. Questi ne La Crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale[15] ci pone dinanzi ad una scelta etica fondamentale, per la quale ne va del destino stesso dell’Occidente. Una scelta determinata da uno scontro tra la filosofia che cerca la verità e la non-filosofia scettica e nichilista che, usando il linguaggio della filosofia, tenta di distruggere la vera filosofia. Da questo scontro epocale Husserl ritiene che si posa decidere “se questo telos che è innato nell’umanità europea dalla nascita della filosofia greca, e che consiste nella volontà di essere un’umanità fondata sulla ragione filosofica e sulla coscienza di non poterlo essere che così… sia una mera follia storica fattuale, un conseguimento casuale di un’umanità casuale in mezzo ad altre umanità ed altre storicità, o se piuttosto nell’umanità greca non si sia rivelata quell’entelechia che è propria dell’umanità come tale”[16]  e che consiste nella conoscenza dell’essere e della verità e nel suo servizio, noi aggiungiamo. E questo fatto, a distanza di un secolo, è più che mai attuale; il dilemma proposto è più che mai di un impellenza stringente. Dalla risposta questa domanda si decide il destino dell’Occidente, mai come adesso il nostro destino è nelle nostre  stesse mani. A questo destino, in fondo, anche se in modo inconsapevole, nemmeno Vattimo sa rinunciare quando non-filosofando cerca di filosofare. “Solo così” continua Husserl “sarebbe possibile decidere se l’umanità europea rechi in sé un’idea assoluta e non sia un mero tipo antropologico empirico come la cina o l’india; e inoltre: se lo spettacolo dell’europeizzazione di tutte le umanità straniere  annunci la manifestazione di un senso assoluto rientrante nel senso del mondo o se non rappresenti invece un non senso storico” [17]. In nessun caso possiamo eludere la domanda e accettare un venir meno minimante al compito che l’Occidente ha di fronte alle nazioni della terra. Ci sembra, che dietro le citate parole di Vattimo, si nasconda un rifiuto della Chiesa quale sacramento del Cristo, e quindi di Gesù il Cristo e del suo Vangelo; un rifiuto della centralità di Roma e di Gerusalemme.

Nel momento in cui ci viene presentata la “secolarizzazione” come un evento intorno a cui ricostruire una nuova razionalità, che certamente per Vattimo esclude la Chiesa e Dio quali punti di riferimento, non possiamo convenire con lui circa il significato da attribuire al termine. Prima di tutto per la convinzione che dietro  la proposta che il pensatore torinese fa c’è sempre una ragione universale, anche se viene mascherata di debolezza, più urbana nei modi e nei fini, per quanto detto sia auspicata da tutti; poi, a nostro parere, per l’errata interpretazione del concetto stesso di secolarizzazione che egli dà. Evidenziamo il passo. Nel capitolo intitolato Filosofia e declino dell’Occidente si legge, tra l’altro: “Ciò da cui sembra che il pensiero abbia bisogno oggi è la ricostruzione di una idea di universalità (sic!)  che, se devo distinguerla da quella del razionalismo e della metafisica, riesco solo a descrivere come debole e secolarizzata”[18]. Qui, per secolarizzazione, ci apre si intenda il passaggio di alcuni concetti, per ora li chiamo così, dal cristianesimo alla società secolare, in un’ottima in cui chi deve tramontare sono il Cristo e la Chiesa. Inoltre, Vattimo inserisce in questa secolarizzazione anche concetti come, Verità, Essere, metafisica. Nella migliore delle ipotesi pare qui di ascoltare Feuerbach e la sua Essenza del cristianesimo. E l’errore, ci pare, stia proprio qui, in questa fusione di secolarizzazione con civiltà. La secolarizzazione, se per essa si intende una desacralizzazione del mondo, è invece un portato della stessa rivelazione biblica, dell’ebraismo prima e del cristianesimo poi; se per il mondo pagano, infatti, tutto era sacro, per la concezione biblica il mondo diviene creato e non è più divino in sé: ”Tutto è abitato da dèi”, diceva ancora Talete. Semmai il passaggio apportato dalla ricezione biblica ebraico e cristiana è quello che va dal sacro al santo, come ha argutamente sottolineato Emanuel Levinas. Quantunque con secolarizzazione si intenda il rifiuto della visione sacrale del mondo, e più ancora l’esclusione della Chiesa dalla società,  come vuole il neo illuminismo imperante;  e sebbene lo stesso Harvey Cox, dal quale prendiamo le distanze circa il valore da dare a questa secolarizzazione, nella prima parte de La città secolare  identifichi, auspicandola, la secolarizzazione con questo processo di indebolimento delle strutture forti della società, tipo Chiesa  etc. o dei concetti classici della filosofia, tipo metafisica, verità ed altri, pure egli deve riconoscere che le fonti dei questa sono già presenti nella stessa Bibbia, e quindi sono un portato stesso dell’agire di Dio nella storia.  La nostra posizione differisce da quella di Cox sul senso da dare a questo agire. Questo agire, secondo noi, che è teso a ricondurre l’uomo a Dio, conferisce senso all’accadere umano trasformandolo in storia, si può addirittura dire che è l’azione di Dio a determinare il passaggio dell’uomo alla dimensione storica dell’esistenza. Non solo, ma tutto questo non esclude Dio dalla storia dell’uomo, anzi, a nostro parere ne invoca maggiormente la presenza e la invoca quanto più l’agire dell’uomo si presenta slegato dalla parola di Dio. L’uomo chiamato da Dio entra nella storia universale, ne diviene partecipe, destinatario e collaboratore, ed è contro il riconoscimento che il tempo ha un fine che si scaglia il nichilismo; anzi, contro il riconoscimento che il fine della storia è Dio stesso, poiché esistere è accogliere questa voce che attraversa il tempo nella direzione opposta quella con cui l’uomo attraversa il tempo, e quindi verso l’uomo. È questa voce, esemplificata nella vocazione di Abramo, che  accolta conferisce nuovamente all’uomo il senso della sua esistenza, il suo destino, inteso come destinazione; essa, infatti, rivolgendosi all’uomo gli permette di guardarsi e di riconoscersi, gli permette di cogliere chiaramente l’essere del suo essere qui. Molto semplicemente, invece, per ottenere il suo scopo, questa non – filosofia del nostro tempo appiattisce il tempo alla dimensione puramente ciclica e terrena dell’accadere, riportando l’uomo alla sua dimensione preistorica ed animale. Si potrebbe addirittura dire che lo scopo nascosto di questa pseudo filosofia nichilista del pensiero debole ha come intenzione nascosta, e forse inconsapevole, quella di ridurre l’uomo al fascio delle sue irrazionali pulsioni libidiche, credendo erroneamente che in ciò consista la liberazione dell’uomo. Un progetto di società simile si trova già in  Eros e civiltà di Herbert Marcuse, che ci sembra il sottofondo non citato dello studio di Vattimo.

Del resto, ritornando a quanto si diceva prima, secolarizzazione, se letto esattamente per ciò che è, questo significa: ridimensionamento del mondo alla sua dimensione creaturale;  non certo rinuncia di Dio verso l’uomo, o peggio ancora morte di Dio. Cox ne cita tre di eventi cruciali, cui noi aggiungiamo un quarto: creazione, esodo e Sinai, in più, aggiungiamo, l’evento del Gòlgota – Resurrezione - Pentecoste. La creazione, oltre che essere rivelazione di Dio è anche l’atto di desacralizzazione del mondo che da divino, come era per i pagani, diventa creatura. L’esodo rappresenta la desacralizzazione della politica proprio perché dimostra che il Faraone altro non è che un potente della terra, che viene ridicolizzato dall’azione del Signore delle schiere, e non certo immagine del divino. Infine, il Sinai che con la distruzione del vitello sacro e la rivelazione della santità di Dio e della vocazione alla santità di Israele richiama l’uomo alla sua dimensione e al suo destino, e lo conduce alla scoperta che Dio non è sottomesso e piegato alla nostra volontà come, invece, gli idoli.  Più ancora, sul Gòlgota  quanto manifestato sul Sinai si completa nella Kenosi di Gesù di Nazareth; qui si manifesta il massimo della vicinanza di Dio all’uomo. Con la resurrezione e con la Pentecoste inizia il nuovo evo, quello del “già e non ancora”.

La secolarizzazione, intesa come desacralizzazione del mondo e sua destinazione alla santità, “l’intera creazione geme nelle doglie del parto” dice san Paolo, non è affatto indebolimento, ma intorno al corpo di Cristo, cioè la Chiesa, è servizio alla verità. In questo senso, la secolarizzazione diviene per noi riconoscimento da parte dell’uomo dei suoi limiti e quindi riscoperta della sua creaturalità e del suo bisogno di relazione con Dio. Chi si secolarizza non è Dio che viene cacciato dal mondo, ma la pretesa divina dell’uomo, la sua tracotante autosufficienza, la quale viene secolarizzata, nel senso che viene ridimensionata e abbandonata: l’uomo non può vivere senza Dio, ma non un dio che lui si è creato a sua immagine e comodo, quanto invece il Dio della Rivelazione e della Creazione.

Se per il nichilismo natura (che è creatura), politica e valori umani vengono, diciamo così, umanizzati (in realtà sono disumanizzati) perdendo la loro valenza trascendente, riteniamo, inverce, che il destino dell’Occidente  in quanto biblico, giudaico e cristiano stia nella destinazione della natura, della politica e dei valori, alla santità. Qui sta il profondo senso del destino dell’Occidente che si schiude ora per il nuovo secolo, la missione dell’Occidente  quindi sta, secondo noi, appunto nella santificazione del tempo, cioè del saeculum e del condurre le genti verso questa santificazione;  va purtroppo riconosciuto che il destino dell’Occidente, la sua vocazione, è stato spesso tradito, ma non per questo Dio lo cancella. A differenza di ciò che il nichilismo vorrebbe far credere, il cristianesimo non è imposizione di niente a nessuno: “E ora volete andarvene anche voi” dice Gesù ai suoi discepoli. Ci pare sia nell’erranza che è errore, e doxa, opinione, perché lontananza dalla verità, chi pretende di attribuire un “destino nichilistico alla nostra epoca” [19]. È vero, invece, il contrario: il destino dell’Occidente è un destino di servizio alla verità. “Ciò che si contrappone all’opinione è proprio la verità: dinanzi ad essa l’opinione impallidisce” dice Hegel. “Ed è appunto la parola verità quella che si rifiuta di pronunciare colui che cerca nella storia della filosofia, o crede che in essa si possano trovare solo opinioni”[20]. Vattimo adatta alla post-modernità, che io chiamo epoca del nichilismo compiuto, un pensiero nichilista adeguato, tradendo con ciò il compito della filosofia che consiste sempre nel condurre fuori dalla caverna dell’errore e dell’apparenza verso la verità, mentre, invece, ci pare che così facendo l’uomo sia destinato a rimanerci pre sempre nella caverna. Il passaggio dalla modernità alla post-modernità viene invocato intorno alla morte di Dio,  pronunciato da Nietzsche. Sentiamo Vattimo stesso: ”mentre la modernità credeva ad una storia come processo oggettivo unitario, oggi sappiamo che la nostra interpretazione della storia è per l’appunto una interpretazione e niente più” [21].  Il problema vero  è che la modernità è venuta meno al suo destino (meglio sarebbe dire alla sua vocazione), ma ciò non significa che non possa ritornarvi. 

“Il vero passaggio alla post-modernità è quell’evento che Nietzsche chiama la morte di Dio”, afferma Vattimo e questo evento, o meglio, il fatto che l’uomo non consideri più Dio importante nella edificazione del suo destino, comporta una perdita dell’uomo del senso del suo esistere, lo conduce in una terra di nessuno dove egli non vivrà affatto da superuomo, ma sarà di volta in volta vittima di quelle agenzie che si spacciano per portatrici di modernità e che invece altro scopo non ha che lo sfruttamento dell’uomo: questo è il senso profondo dell’inganno nichilista che produce lo smarrimento e lo spaesamento, altro che liberazione dell’uomo. In verità, non è che Dio sia morto, è semplicemente che l’uomo non ne vuol più sapere, e  qui sta il paradosso di tutta questa Babele, ovvero nel fatto che egli si è convinto che questa sia una liberazione per lui, quando invece non che l’alba di una nuova schiavitù.

Eppure Dio è lì che attende, appena fuori l’uscio della storia umana.

A tale scopo voglio raccontare un aneddoto: “Un giorno in cui riceveva degli ospiti eruditi, Rabbi Mendel di Kozk li stupì chiedendo loro a bruciapelo: ‘Dove abita Dio?’. Quelli risero di lui: ‘Ma che vi prende? Il mondo non è forse pieno della sua gloria?’ Ma il Rabbi diede lui stesso la risposta alla domanda: Dio abita dove lo si lascia entrare”[22]. Quanto appena detto coincide esattamente con quanto riportato nel libro dell’Apocalisse, dove si legge: “Ecco, sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me” (Ap 3,20). Ecco un altro punto in cui ebraismo e cristianesimo coincidono perfettamente. Ma  il fatto che l’uomo non risalga a Dio  nel suo guardare e operare, non significa affatto che Dio non ci sia, insomma, l’agire dell’uomo non possiede in sé la verità, e il fatto che egli non si ponga più il problema della verità ciò non significa che  questa non sia. Chiaramente, Vattimo tira le conclusioni di quanto va dicendo quando afferma:”l’uomo moderno non ha più bisogno di un Dio come primo fondamento del mondo”[23]. Non è la prima volta che accade qualcosa del genere nel mondo, ma è emblematico che ciò riaccade in Occidente dopo due millenni di cristianesimo. Ai romani s. Paolo lo andava già dicendo quando affermava che “dalla creazione del mondo in poi, le sue (di Dio) perfezioni invisibili possono essere contemplate con l’intelletto nelle opere da lui compiute, come la sua eterna potenza e divinità”  (Rm 1,20). È esattamente questa, la condizione dell’uomo post – moderno e secolarizzato, in preda ad un nichilismo che non dà salvezza alcuna. Egli vaneggia, sostituendo la creatura al creatore, adorando se stesso e non il creatore.  “Essi sono dunque inescusabili” continua S. Paolo “perché, pur conoscendo Dio, non gli hanno dato gloria, né gli hanno reso grazie come a Dio, ma hanno vaneggiato nei loro ragionamenti e si è ottenebrata la loro mente ottusa” (Rm 1,21). Questa è la condizione del non pensiero nichilista e postmoderno; infatti, pur senza riferimento alla verità, poiché la rifiutano,  c’è, nel procedere del non-pensare nichilista, l’utilizzo della rigorosità del dire, per ovvia coerenza interna del discorso, e la pretesa di regolare l’agire su questo dire vuoto. “Mentre si dichiarano sapienti, sono diventati stolti e hanno cambiato la gloria dell’incorruttibile Dio con l’immagine e la figura dell’uomo corruttibile, di uccelli di quadrupedi e di rettili” (Rm 1,22s.). Ovvero,  persiste qui il rifiuto di conoscere la verità, anzi, del riconoscere con l’intelletto la verità per mezzo della scienza, cioè che esiste un limite al conoscere e all’agire, e questo limite è dato dalla creaturalità della natura che implica il riconoscimento (del) e la lode al Creatore. Il contrario genera l’idolatria, ovvero il sostituire la creatura al Creatore. Lo dice l’apostolo della genti quando dice: “ Perciò Dio li ha abbandonati all’impurità secondo i desideri del loro cuore del loro cuore, sì da disonorare fra di loro i loro corpi. Poiché essi hanno cambiato la verità di Dio con la menzogna e hanno venerato e adorato la creatura al posto del creatore, che è benedetto nei secoli dei secoli. Amen! Per questo Dio li ha abbandonati a passioni infami; le loro donne hanno cambiato i rapporti naturali in rapporti contro natura. Egualmente anche gli uomini, lasciando il rapporto naturale con la donna, si sono accesi  di passione gli uni per gli altri, commettendo atti ignominiosi uomini con uomini, ricevendo così in se stessi la punizione che s’addiceva la loro traviamento”. (Rm 1,22 -27). Disconoscenza della verità genera depravazione, o, intermini filosofici, il rifiuto di riconoscere che la verità è (relativismo metafisico), produce il relativismo morale.

Dietro tutto questo, non abbiamo timore a dirlo, c’è l’inganno del nemico antico, di satana, che  aspira a cancellare nell’uomo il ricordo di Dio. Il suo strumento oggi sono il nichilismo e il fondamentalismo di qualunque matrice; questi sono fenomeni legati tra loro, infatti, il primo è la matrice teorica, il secondo la sua realizzazione politica. A ciò va aggiunta la “cosizzazione” della natura e dell’uomo, ridotti  a oggetti della sua volontà di potenza, a materia per interessi lontani della natura stessa delle cose. A questa tendenza, che non va misconosciuta, ma afferrata per le corna,  bisogna reagire con una nuova fondazione filosofica che vinca le sfide del nichilismo.

Il comando divino dato ad Adamo e ad Eva al momento della creazione “siat5e fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra; soggiogatela e dominate sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo e su ogni essere vivente che striscia sulla terra” [24] non ha niente a che fare con la volontà di potenza, come alcuni potrebbero ritenere, poiché tale comando è concepito sempre nell’ottica della relazione uomo-Dio, relazione in cui l’uomo non smarrisce mai il senso e la misura delle cose  e di se stesso, cioè non è mai preso dalla tracotanza, dalla superbia di essere autosufficiente. Vattimo ritiene che una  ragione debole, perché rispondente alla morte di Dio è quella che più di ogni altra rispondente allo spirito del tempo. Noi, però, sappiamo che il compito della filosofia non è quello di andare dietro alle mode a al sentire del volgo, quanto quello di dare un senso e una direzione al tempo.

Il venire meno del “senso unitario della storia, pensato come razionalità divina”, non è   come sostiene il pensatore nichilista,  “il vero e proprio senso della morte di Dio[25], ma il fallimento dell’illuminismo che aveva deificato la ragione. Il nichilismo è il frutto amaro della rabbia sconcertata del suo profeta Nietzsche di fronte al fallimento dell’eroe classico dinanzi all’eroe  della civiltà  moderna dei mercanti, ma anche la risposta stizzita e rancorosa dinanzi a questo fallimento. Va detto, però, che già l’illuminismo europeo, in quanto anti-cristiano è stato un tradimento della Ragione che illumina, se illuminata dalla pienezza di Dio.

“È  possibile” si domanda Vattimo “una pace non fondata sulla verità? [26] Riteniamo che ciò non sia possibile affatto e non perché stiamo qui ad affermarlo, ma per il semplice fatto che la verità è chiarezza che conferisce all’uomo e alle situazioni la giusta luce con cui valutare e giudicare, quella che esse possiedono come loro destinazione propria,  e non quella che di volta in volta gli interessi parziali degli uomini, delle politiche degli Stati, conferiscono loro. Crediamo, invece, che la pace si fondi sulla verità. Certo, mi potrà obiettare che, in nome della verità, si sono fatte molte guerre e commesse molte atrocità, e ciò è vero. Ma, questo, che è già di per sé un tradimento della verità (perché la verità mai si impone, tutt’al più si propone),  dice semplicemente che la verità stata usata nel corso della storia spesso come una maschera dall’uomo, pur tuttavia essa rimane sempre l’unica possibilità, poiché sulla non-verità non si potrà realizzare nessuna pace, anzi, l’utilizzo errato della verità, quando cioè essa viene piegata ai propri interessi, avviene già sul terreno della non verità.

L’etica non-metafisica che ci viene proposta in Nichilismo ed emancipazione definita come “etica della negoziazione e del consenso”[27] oltre ad essere utopica, per esempio cosa accade quando uno dei due contraenti di dialogo non ne vuole affatto sapere della negoziazione? Siamo forse tutti civili? E chi parla di negoziazione proprio oggi mostra di non riconoscere all’avversario la sua dignità ad esistere come tale, ma lo chiama nemico e, cavalcando la tigre, tiene il piede in due scarpe. Non  si capisce bene, poi, perché questa negoziazione risulterebbe sempre soft, forse per il buon gusto dei contraenti? Non si capisce perché non dovrebbe essere violenta, visto che anche i cosiddetti buoni affari si fanno negoziando e che le guerre spesso nascono da negoziazioni e da alleanze. Infine, per quanto concerne questo punto, noi riteniamo non attendibile  l’identificazione che Vattimo fa tra autoritarismo e metafisica, anche perché spesso vediamo che proprio quelle realtà che si rifanno a questo tipo di etica e di non- filosofia sono violenti e intolleranti, autoritarie e totalitarie.

Gli antesignani del nichilismo sono Protagora e Gorgia, e non il pensiero metafisico di Platone ed Aristotele, come suppone invece Heidegger. Questi due filosofi dell’Atene periclea hanno introdotto, come tutti ben sanno, il primo il relativismo gnoseologico e morale, il secondo lo scetticismo metafisico. Che il relativismo protagoreo e lo scetticismo gorgiano siano due posizioni nichiliste lo si evince da quanto segue: 1) Protagora riducendo la conoscenza alle sensazioni e alle opinioni che si formulano di volta in volta intorno alla realtà, riduce l’essere all’apparire, trasformando la verità nella più utile delle opinioni. La posizione di Protagora si sintetizza nel famoso aforisma: “L’uomo è misura di tutte le cose, di quelle che sono in quanto sono e di quelle che non sono in quanto non sono”. Non possiamo che rispondere a questa posizione facendo nostre le parole di Platone dette nelle Leggi: “Per noi la misura di tutte le cose è soprattutto Dio, e molto più di quello che sia, come alcuni sostengono, l’uomo”.  2) Gorgia fa del nichilismo e del parolismo la sua bandiera quando attacca la filosofia parmenidea nelle sue tre famose tesi. Inoltre, la funzione positiva che dà al linguaggio, cioè quella persuasiva, non riconosce affatto l’esistenza di una verità universale, anzi si pone proprio in questo spazio vuoto generato dalla eliminazione della verità. Contro questa minaccia cui è incorsa la civiltà occidentale si levarono  Socrate, Platone ed Aristotele. E non è affatto vero, come vorrebbe farci credere il pensatore debole Giovanni Fornero, che la loro posizione filosofica è stata segno di civiltà e di democrazia, visto che la tanto decantata democrazia ateniese  vanta sulle sue spalle la condanna a morte di Socrate, e visto che la democratica Atene era una potenza imperialista all’esterno.

Il primo padre del nichilismo contemporaneo è senza dubbio Nietzsche che nel famoso aforisma 125 della Gaia Scienza e nel Così parlò Zarathustra annuncia la morte di Dio, collegando ad essa l’avvento del superuomo e la concezione ciclica del tempo e la volontà di potenza, tanto che i quattro concetti sono strettamente collegati tra loro e non è possibile comprenderne a fondo uno senza dover ricorrere, per chiarirlo meglio, agli altri tre. Con il primo concetto, che rappresenta l’arché del pensiero nietzschiano, la nuova origine da cui dovrebbe partire una nuova civiltà umana, egli stesso afferma che a partire dalla morte di Dio ogni punto di riferimento assoluto viene a cadere e con esso ogni valore di riferimento, tanto che non si può più parlare di “bene” e di “male”, ma si dovrebbe, a rigor di termini, parlare di buono e cattivo per la vita. A detta di Nietzsche la morte di Dio apre un orizzonte sconfinato ed illimitato all’agire umano, il che è ovvio se riflettiamo con Dostoevskij che “Se Dio  non esiste, allora tutto è permesso”; un orizzonte, dicevamo, in cui può agire una nuova creatura, non frutto dello sviluppo biologico dell’umanità, ma una sorta di novello Napoleone o di eroe tragico cui guarda Nietzsche quando parla del suo Ubermensch. È interessante notare che Dostoesvkij in Delitto e Castigo, al giovane delirante Raskolnikov – prototipo di ogni nichilista - fa dire di avere a modello proprio Napoleone, quale grande uomo cui riferire il proprio agire. Solo che, mentre Raskolnikov trova la via della redenzione, il superuomo nietzschiano viene parodiato nella demenza folle dell’uomo Nietzsche prima vittima dell’assurdità del suo stesso pensiero: Ecco perché riteniamo che la vicenda personale di Nietzsche, e più ancora la sua stessa follia, rientri pienamente nella riflessione filosofica; così come – per altri motivi e per altre significazioni vi rientri quella di Socrate. L’uno l’uccisore della verità, l’altro il suo strenuo difensore fino ala sacrificio della sua  stessa vita e, non a caso, Nietzsche si scaglia proprio contro Socrate nell’aforisma 340 sempre della Gaia Scienza, vendendo in lui un nemico, un nemico della vita, o meglio di quello che Nietzsche credeva dovesse essere la vita. La vita che Nietzsche ha cercato, una vita senza Dio gli si è rivoltata contro inabissandolo nella follia, che diviene filosoficamente parlando – metafora dell’agire privo di riferimenti, di valori, di criteri universali che aveva inaugurato la nuova era del superuomo nietzschiano. In questo nuovo orizzonte agisce l’illimitata potenza del superuomo tesa solo all’accrescimento della vita al di là del bene e del male come dice lo steso filosofo tedesco intitolando un suo scritto. Volontà di potenza significa proprio questo: volontà di imprimere al divenire la consistenza dell’essere, azione tragica perché consapevole dell’inesistenza dell’essere cui comunque si deve ricorrere e, poiché, nessun limite può esserci alla volontà di potenza dell’eroe tragico, il tempo non può essere lineare, non può avere unteloS, un senso che gli venga dal di fuori, visto che esiste solo la terra cui è fedele il superuomo, il tempo deve essere ciclico, come vollero i greci, deve essere pagano, senza Dio.

Questo nichilismo attivo di cui Nietzsche si fece profeta, il quale avrebbe dovuto reagire al nichilismo passivo che caratterizzava l’Europa di fine secolo e che, sempre secondo Nietzsche avrebbe dovuto fare spazio all’eroe tragico, ha, invece, tragicamente fatto spazio - questa volta  - sì all’uomo folle (Nietzsche stesso) che si presenta nel mercato globale gridando: “Il superuomo di cui vi ho parlato, è un fantoccio di paglia! Non credetemi!” Invece, l’Occidente ha fatto propria la filosofia di Nietzsche cadendo in un nichilismo ancora peggiore di quello contro cui voleva combattere, ma in modo errato ed errante, il filosofo tedesco e, facendo proprio il credo di Nietzsche la civiltà occidentale ha abbandonato la sua radice divenendo una terra arida e un legno secco.

 

L’altro padre del nichilismo è Marx. Dal punto di vista teologico, il marxismo si presenta come un messianismo senza Messia e perciò estremamente sottile e pericoloso avendo  tolto all’ebraismo e al cristianesimo l’idea dell’attesa messianica e avendola sostituita con una città del sole che anziché liberare l’uomo, come predicava, lo ha  ancor di più legato ed imbavagliato, come mostra innanzitutto la storia e come andiamo ad argomentare. Innanzitutto, più che una filosofia della storia o una teoria economica vera e propria, esso presenta i caratteri di una falsa fede, (meglio sarebbe dire  di un fideismo  che è tipico delle sette religiose, ove avviene il plagio della persona e l’imbavagliamento delle propria libertà)[28] che si spaccia per scienza e, peggio ancora, non per una scienza tra le altre, ma per l’unica scienza in grado di comprendere la totalità. Già questo è un carattere per niente scientifico, in quanto una scienza per definizione studia un aspetto della realtà, ma già quando va ad analizzare i fondamenti della sua metodologia esca dal campo strettamente scientifico per entrare in quello più filosofico della epistemologia. E Marx, nell’undicesima tesi su Feuerbach, aveva tolto al suo pensiero il titolo di filosofia, definendolo, invece, una prassi rivoluzionaria, fondata però su di una conoscenza che egli riteneva scientifica della realtà e in nome della quale declassava tutte le altre forme di socialismo e comunismo che lo avevano preceduto come storielle per vecchiette. Il fatto sta che anche la sua teoria altro non è che la stessa cosa, in quanto arreca al suo materialismo dialetto la capacità di ridurre al storia ad un tutto rispetto a cui, la sua scienza (?) economica possiede l’unica chiave di lettura, in quanto fondata sulla dialettica reale della storia, che più che in Hegel ha origine ne La Dottrina della Scienza di Ficthe, anche se il riferimento immediato di Marx rimane Hegel. La proposta marxista è un’utopia e, in quanto tale, estremamente pericolosa e lo è perché all’interno dell’utopia la libertà diviene necessità, in questo caso necessità dialettica del movimento della storia. Nulla è più nemico della libertà dell’utopica identificazione di libertà con necessità; qui è il vero cuore pestifero del marxismo che sfrutta il desiderio insito nel cuore dell’uomo, il suo anelito alla giustizia, proponendosi come la scienza che possiede in sé la pienezza della verità. Il marxismo però, anziché essere scienza è fideismo che si espleta nella disciplina di partito in cui il singolo nulla conta dinanzi alla volontà del collettivo. L’errore di fondo sta nello spacciare una fede per scienza e nel determinare questa pseudoscienza quale scienza del tutto. Marx riduce tutto a storia, ma la storia non è il tutto, perché oltre la storia c’è Dio. E, da buon hegeliano, convinto che il procedere della realtà, che in lui diviene la  storia , sia basato sul conflitto,ma questo principio non è universale. Non solo, ma in quanto contrapposizione netta non fa che generare l’odio di classe e questo il rancore e la violenza. Tutto questo, dice giustamente Karl Jaspers ”fa parte di una fede filosofica” [29] non certamente una scienza, dunque. Una scienza che si rispetti, infatti, procede per ipotesi e verifiche, ma questo è completamente escluso nel marxismo, di ciò ne è testimonianza il fatto che il dissenso interno al partito rispetto alla linea ufficiale è assolutamente vietato, pena, nel migliore dei casi, l’estromissione dall’apparato se questi risiede nei paesi democratici, del carcere e della morte, nei paesi dove detiene il potere. Il materialismo di Marx, non conosce trascendenza, non ha nessun rimando all’oltre della storia, anche qui si nasconde “la morte di Dio” ma, morto Dio, che ne è dell’uomo? Non certo si prepara l’avvento del superuomo di cui parlava Nietzsche, quanto invece la caduta dell’uomo verso la bestia. Il comunismo e il nazismo, come sottolineava Hanna Arendt ne Le origini del totalitarismo sono regimi totalitari in quanto il partito e il suo apparato si presentano come il tutto della società civile. Entrambi sono venuto fuori dalla concezione dello Stato etico di Hegel, anche se in Marx questo momento poi doveva essere superato, ciò non toglie che nella versione storica leninista e stalinista i due nodelli si siano identificati a livello strutturale. Di fronte a questo fideismo cieco, dice Jaspers, “ove si esige di abbracciare questo credo, che ormai non è più mera fede, ma conoscenza scientifica[30] la libertà individuale e la capacità individuale di discernere il senso della propria vita spariscono completamente, la libertà individuale abdica nei confronti della linea del partito. La pesudoscienza marxista, non ci stancheremo mai di ripeterlo, a differenza della vera scienza che si limita a studiare un aspetto della realtà, si presenta come scienza del tutto ridotto a lotta di classe. Ed è un fideismo settario perché da esso non è possibile dissentire, nemmeno argomentando con la forza della ragione. Ha pienamente ragione Jaspers quando dice: “la forza del pensiero marxista risiede nella falsità originaria della premessa, consistente nell’offrire una fede spacciandola per scienza” [31]. Il marxismo, che viene da Hegel e ancor più da Eraclito, è il nichilismo compiuto, in quanto introduce il nulla come elemento necessario allo sviluppo della dialettica, nulla che diviene la forza necessitante che spinge verso la sintesi, la quale genera il conflitto tesi – antitesi, che in Marx diviene la chiave logica che giustifica la lotta di classe, conflitto auspicabile e necessario, nulla da cui viene la vera forza del progresso. Solo Dio può creare qualcosa di buono dal nulla, Questo Hegel e Marx lo hanno dimenticato.

Introducendo il nulla” conferma Jaspers” l’essere si attua da sé, ma tutto questo, di fatto, è teoricamente e praticamente una ripresa del comportamento magico in chiave di pesudoscienza”[32].  Il suo presunto più alto sapere non è che magia mascherata da scienza. Jaspers sottolinea questo punto in più di una pagina descrivendo con finezza e arguzia la dinamica dell’abdicazione della propria libertà nei confronti del partito[33]. E non è un caso  che Marx abbia parlato nel vuoto della morte di Dio: il profeta del nulla parla ad un mondo secolarizzato che, privatosi di Dio, insegue i suoi idoli. La storia poi, è davanti a tutti, “giacché dal tentativo di realizzare l’assurdo non può che generare distruzione inutile e violenza” [34].

Un esempio di quando andiamo dicendo già nelle prime affermazioni che Marx stesso fa all’inizio de Il Manifesto del partito comunista. Qui egli sostiene con piena convinzione che la storia è storia di lotta di classi. Questa affermazione è un grave errore: 1) perché il concetto di classe non si può applicare a tutti i gruppi sociali che si sono succeduti in Europa lungo il corso della storia; 2) perché la stessa analisi di filosofia della storia che Marx fa è sbagliata.

La cosiddetta società feudale, per esempio, si presenta come un organismo vivente ed autosufficiente dove nobiltà e servi della gleba sono non solo strettamente collegati, ma l’una parte è necessaria all’altra, ed esiste una solidarietà interna alla società feudale tra i gruppi che ne caratterizza l’organicità.[35] Inoltre, l’emergere della cosiddetta borghesia mercantile a partire dall’XI secolo fu un elemento nuovo, non interno al sistema nobiltà feudale – servitù della gleba- artigianato; esso produsse una tensione al sistema per la ricerca di nuovo equilibri che non sono sempre consistiti nella eliminazione del mondo esistente. Quando Marx analizza i fatti del suo tempo, ha troppo in mente la storia della rivoluzione francese che eleva a paradigma e modello della storia universale. Altrove, per esempio in Inghilterra, l’esito di questa tensione è stato diverso,  essendosi creato un sistema dell’equilibrio dei gruppi sociali che ha conservato l’antico accanto al nuovo, creando un sistema originale e ben riuscito. Infatti, i meriti della nobiltà nella costituzione dell’Europa sono stati immensi.  Il conflitto  nella società contemporanea, tanto per usare un termine caro a Marx, nasce all’interno della società stessa, cioè, da due gruppi sociali necessari l’uno all’altro, borghesia e proletariato, e non come nel basso medioevo da un gruppo esterno al sistema che nulla a che fare con il vecchio. Lì, il movimento della storia venne da fuori, la classe mercantile rispetto al sistema nobiltà –servitù della gleba; qui dall’interno del processo produttivo stesso e perciò da una situazione complementare non conflittuale[36]. Allargare, invece, come fa Marx, a tutta la storia un unico modello interpretativo ci pare poco scientifico e molto ideologico.

Detto questo, non possiamo che dissentire da Vattimo e dal suo “rifiuto ad identificare l’essere con l’ente”, proprio perché  da questa errata presa di distanza (in nome di quella che egli ritiene l’unica lettura possibile dell’ermeneutica) che, come egli stesso dice, è “ motivata non da ragioni puramente teoriche, ma da esigenze etico – politiche” segue quella identificazione secondo la quale “la metafisica oggettivante conduce alla società dell’organizzazione e della negazione della libertà e progettualità dell’ente[37]. Il problema è che quand’anche fosse ammissibile uno slittamento verso il nichilismo della metafisica da Kant in poi, (o già da Cartesio, ovvero dalla nascita del soggettivismo moderno),  e questo argomento verrà ampiamente trattato nel prossimo capitolo, certo, la soluzione auspicata da Vattimo non ci pare quella migliore, quanto invece proprio quella di una controrivoluzione copernicana di cui parleremo.

Nemmeno sul versante dell’ermeneutica siamo d’accordo con Vattimo, se questa viene ridotta ad un antifondazionalistico conflitto delle interpretazioni ed, infine, esito di un processo dissolutivo dell’essere metafisico, identificato con la violenza [38]. A nostro parere,  l’ermeneutica è il luogo in cui la Ragione illuminata dalla fede riconosce il senso della parola dell’Essere, interpretandola, cioè storicizzandola, applicandola alla situazione vissuta dalla comunità e, in essa dal singolo. C’è più nichilismo marxista in Vattimo di quanto egli stesso sia disposto ad ammettere in Nichilismo ed emancipazione. Ed anche quando propone una sinistra di progetto slegata da Marx lo fa per ragioni ermeneutiche, cioè strategiche e politiche, non certo teoriche, in quanto nega alla filosofia proprio il compito fondazionale. La sua “sinistra nichilista, non metafisica[39] è solo riorganizzata, per motivi di coerenza interna al suo pensiero, intorno a quello che egli chiama contraddicendosi (e ricadendo di nuovo sul terreno metafisico e fondazionale) “il principio” (sic!) (ovvero l’Arché) “della riduzione della violenza”[40]  al posto di quello del marxismo classico dell’uguaglianza, ritenuto oggi, poco strategico. Certo, egli  risponderebbe, che qui la scelta del termine “principio” è solamente una escamotage ermeneutica,  un relativo e debole post-moderno punto d’appoggio per comprendere ermeneuticamente la storia, e non certo un principio meta-storico e, perciò, metafisico, da cui partire e a cui far risalire tutto.  Questo, però, non solo non dice molto sul perché vero della scelta di un principio che comunque sia stato scelto rimane un principio, forse anche questo è stato scelto in modo nietzschiano attraverso la volontà di potenza; e perciò non può essere vero in sé. Tra l’altro, mi domando,  come si pretende di rispondere alla minaccia che incombe sull’Occidente, con questo pseudo – principio debole della riduzione della violenza, quando questa minaccia è violenta? Solo Papa Leone Magno poté fermare, senza violenza alcuna, Attila e gli Unni, ma riuscì a farlo perché gli uscì incontro armato della croce di Cristo, non certo di un principio ermeneutico, per quanto debole e divertente. Anche perché poi (e basta guardarsi intorno) basta dissentire da questo modello imperante e allora sì che si viene zittiti.  La ragione non può essere debole, perché pur comprendendo la storicità non è affatto storia,; anzi, come insegna Jaspers, essa “è di per sé essenzialmente non-storica”[41]. Il nichilismo è la non-filosofia del nostro tempo, la non-Ragione contro cui la Ragione in lotta, come la definisce il filosofo di Basilea, deve affermare il suo essere. Essa, la non-filosofia “nulla sa della verità e nulla vuol saperne”[42], questa non-filosofia che pretende di essere l’interpretazione che rimane in piedi nel conflitto delle interpretazioni “sotto il nome di verità” intesa in senso debole “impone al mondo intero ciò che c’è di contrario, di estraneo al vero, ogni pervertimento della verità”[43]. Questa non-filosofia nichilista altro non è che una nuova gnosi ancora più ideologizzata dell’ideologia che combatte, e che si presenta come malia e stregoneria pseudo - filosofica, di cui i cosiddetti maestri del sospetto: Marx, Nietzsche e Freud, sono le maschere dell’Otto-Novecento. Dei primi due, Marx e Nietzsche, Jaspers dice che mentre la nietzschiana “visione profetica oscilla tra la profonda penetrazione e l’errore fraudolento, l’escatologia marxiana è della stessa natura”[44]. Prima  questa non-filosofia sottrae la libertà all’uomo, poi gli ottunde la  Ragione e, infine, imbriglia il suo agire politico nelle spire del nulla.

Ci piace concludere questa  breve riflessione sul nichilismo marxista citando un passo de         I fratelli Karamazov in cui Dostoevskij esprime chiaramente il profondo pericolo insito nel socialismo. Ascoltiamo allora cosa ha da dirci lo scrittore russo: “Il socialismo non è soltanto la questione del lavoro, o del cosiddetto quarto stato (leggi proletariato) ma è, eminentemente la questione dell’ateismo, la questione della torre di Babele, da edificare appunto senza Dio, e non per raggiungere dalla terra il cielo, ma per portar giù il cielo dalla terra”[45]. Qui è espresso esattamente il nucleo del nichilismo marxista, e che Marx stesso aveva sintetizzato nella formula secondo la quale bisognava portare la dialettica dal cielo dello spirito, ove l’aveva  - a dire di Marx – relegata Hegel,  alla terra della storia. Con molta chiarezza Dostoevskij ha espresso qui il pericolo insito nel nichilismo marxista: costruire un mondo giusto senza Giustizia, un mondo vero senza verità, in breve: un messianismo senza Messia.

 

Infine, ma non per questo meno pericolosa è la maschera freudiana. La psicanalisi è la forma più sottile di gnosticismo del Novecento, in quanto presume, in virtù di una acquisita “conoscenza”, di produrre “salute”, ovvero “salvezza”. Inoltre, anch’essa si presenta come una fede, e questo accade perché “la psicanalisi come fede è possibile in base ad errori scientifici di fondo”[46]. Secondo jaspers questi errori sono: 1) Al posto della dialogica comprensione del senso che avviene in terapia viene opposta la spiegazione causale che è estranea al senso. Nella prima c’è l’appello alla libertà, nella seconda la necessità. 2) “Il modo dell’azione terapeutica è dubbio”[47]. Già Italo Svevo profondo conoscitore della psicanalisi, tanto da aver tradotto in italiano L’Interpretazione dei sogni di Freud, nella sua La coscienza di Zeno ci consiglia di tenere in modo scherzoso e canzonatorio nei confronti delle pretese onnicomprensive della psicanalisi. Ma, cosa più importante è mettere in guardia dalla pretesa di una guarigione totale, sia perché dalla psicanalisi emerge che la sogli che divide sanità  e malattia è sempre meno marcata (ovvero l’intera società  sarebbe nevrotica detta di Freud) e sia perché l’individuo parrebbe sano solo a partire da certi pregiudizi. Quest’ultimo aspetto è stato usato dai suoi epigoni nichilisti per giustificare la dissoluzione di ogni morale universale. Si nota questo aspetto quando costoro che pur si richiamano in un certo modo alle conquiste freudiane poi sono gli stessi a tacciarlo di perbenismo borghese quando definisce come perversioni e malattie psichiche comportamenti da costoro lodati e ritenuti segno di libertà.  Bisogna liquidare definitivamente la psicoanalisi? Non lo ritteniamo. Bisogna però, con Zeno Cosini assumerne nei suoi confronti un atteggiamento disincantato di chi ha scoperto il suo trucco. Che sia una setta lo si capisce già dal fatto che Freud scomunicò Jung perché si differenziava dalle sue tesi, ed altri che dissentivano dalle sue posizioni, o si allontanarono o ne furono allontanati. Certo, mi si può obiettare che il campo delle scienze dello spirito è diverso da quello della natura per oggetto e per metodo, e che quindi le diversità di pensiero e di metodo sono un portato stesso della dimensione  prospettica ed ermeneutica. Su questo punto ritorneremo tra breve, qui diciamo solamente che stiamo contestando la sua pretesa di universalità: la psicanalisi o è scienza o è filosofia.

È nell’essenza del progetto freudiano fagocitare nella psicoanalisi ogni aspetto della cultura umana, i fondamenti di questo sconfinamento, operato da Freud si trovano nella identificazione del sogno con qualunque altro prodotto culturale inteso come pura e semplice rappresentazione psichica. E perciò soggetto alle stesse leggi cui vanno soggetti i fatti psichici e in particolare le nevrosi.  “Il sogno e i sui analoghi vengono così a collocarsi in una regione del linguaggio che si preannuncia come luogo delle significazioni complesse in cui un altro senso nello stesso tempo si dà e si nasconde in un senso immediato”[48]. Questo fatto fa sì che tutte le produzioni della coscienza vengono declassate a puri fatti psichici, e la coscienza stessa altro non diviene che il mero apparato psichico. Questo slittamento, apparentemente lieve, rende possibile la fagocitosi da parte della psicoanalisi  di ogni prodotto dello spirito; anzi, lo spirito stesso viene ridotto ad una scarica libidica. Ora, poiché il sogno necessita di una interpretazione, e poiché tutto è assimilato al sogno e al suo linguaggio simbolico, tutto viene ridotto all’esercizio del sospetto, visto che in Freud a questo si riduce l’interpretazione. L’ermeneutica, quindi, viene ridotta a tecnica demistificante; ciò significa che tra noi e le cose si pone questo nuovo velo di Maya, e spetta all’edotto della tecnica psicoanalitica decifrarne l’enigma: “là dove un uomo ha sognato, profetizzato o poetato, un altro uomo si erge ad interpretare”[49] afferma Ricoeur. Il problema è che questo altro uomo deve essere uno psicoanalista o un esperto della materia, quasi che la psicoanalisi sia l’unica forma valida di interpretazione, l’unica che abbia i crismi per poter interpretare le cose.

Kark Jaspers individua nel freudismo quella “concezione totalitaria dell’uomo che nella sua struttura di pensiero è analoga al totalitarismo della concezione politica”. Questo decadimento è dovuto “alla confusione tra conoscibilità e libertà” [50]. E qui sta proprio il punto dolente, non solo del freudismo, ma anche del marxismo e del vitalismo nietzschiano: sostituire alla  libertà individuale, l’ineluttabilità di un meccanismo cui l’uomo non può sfuggire. Se questo fatto non si comprende bene in Nietzsche, mascherato com’è dietro alla morte di Dio, in Heidegger viene pienamente alla luce, e precisamente nel concetto di deiezione e di gettatezza.

Ma è un altro aspetto quello che fa di Marx, Nietzsche e Freud dei pensatori fondamentalmente nichilisti: la convinzione che la coscienza è falsa coscienza, e per questo punto che li accomuna vengono definiti i maestri del sospetto. Con essi il dubbio circa la cosa diviene il dubbio di sé intorno a sé; come si è espresso felicemente Ricoeur con Marx, Nietzsche e Freud “dopo il dubbio sulla cosa, è la volta del dubbio sulla coscienza”[51]. Tornando alla psicanalisi che, a detta di Jaspers, “non offre che soluzioni apparenti”[52] essa conserva la sua matrice nichilista proprio nell’esercizio del sospetto, del pregiudizio che, in quanto tale, la coscienza sia sempre falsa coscienza. Del resto, proprio Jaspers che nasce come psicopatologo, e quindi, come ottimo conoscitore del freudismo, lo definisce “ stregoneria in una nuova forma e negazione della vera scienza”[53]. Come accade ciò? Oltre alla sua origine nichilista, che fa della psicanalisi un ulteriore progetto di negazione di Dio, o come dice Ricoeur, per Freud “la realtà è il compendio di un mondo senza Dio”[54]. Ciò accade perché in fondo la scuola fondata da Freud somiglia più ad una setta che ad una comunità scientifica i cui saperi, invece, sono limitati ad un campo della realtà, e i cui enunciati sono verificabili. E rimane sempre valido il monito di Kant secondo cui “non è un accrescimento, ma uno storpiamento delle scienze, quando se ne confondono i confini”[55]

Ma la riflessione intorno al nichilismo freudiano ci porta nel pieno della riflessione sull’ermeneutica, e questa già di per sé nel campo di quella che chiamo la controrivoluzione copernicana.

 

 

 

 

 



[1] G. Vattimo, Nichilismo ed emancipazione, Garzanti, 2003. D’ora in poi NE.

[2] NE, p.32.

[3] Parmenide, Peri juseoS, Premio, v. 29.

[4] NE, p. 24.

[5] NE, p. 27.

[6]  NE, p.30.

[7] NE, p.31.

[8] Cfr. Emanuel Levinas, Totalità e infinito, Jaca Book, 1990.

[9] Cfr. Martin Buber, Ich und Du,  in Il principio dialogico e altri saggi, trad it. Edizioni san Paolo, 1993, cit p. 72.

[10]  NE, p. 33.

[11] Hans Jonas, Il concetto di Dio dopo Auschwitz, trad. it, il Melangolo, Genova,  2000. D’ora in poi CDdA.

[12]  CDdA, p. 29.

[13]  CDdA, p. 30.

[14]  NE, p.33.

[15] Edmund Husserl; Die Krisis der europanischen Wissenschaft und die transzendental Phanomenologie, trad it, Milano, 1961. D’ora in poi  Krisis.

[16]  Krisis, trad .it, p.44.

[17]  Krisis, p.45.

[18] NE, p. 42.

[19]  NE, p.58.

[20] G.W.F. Hegel, Introduzione alla storia della filosofia, Laterza, Bari, 1992. p. 72.

[21] G. Vattimo NE, p. 61

[22] Riportato in Martin Buber, Il cammino dell’uomo, edizioni Qiqajon, 1990, p. 64.

[23] NE, p.61.

[24] Gen 1,28.

[25] NE, p. 61

[26] NE, p. 63

[27] NE, p.75.

[28] questo fatto è estremamente importante, altrimenti corre il rischio di identificare il marxismo con le strutture delle religioni bibliche.

[29] Karl Jaspers, Vernunft und Widervernunft in unserer Zeit, Munchen, 1950. tr. It Ragione e Antiragione nel nostro tempo, Milano 1999, p. 19. D’ora in poi VuW. Anche se noi, come appena spiegato, preferiamo il termine fideismo al posto di fede, per evitare fraintendimenti, quando citeremo Jaspers, lo citeremo fedelmente, qui però sottolineiamo la differenza semantica che è anche una differenza filosofica tra il nostro pensiero e quello di Jaspers circa la fede religiosa.

[30] VuW, p. 17.

[31] VuW, p.19.

[32] VuW, p. 20.

[33] Cfr. VuW, p. 21

[34] VuW, p. 22.

[35] Una conferma a quanto andiamo scrivendo la si può trovare nelle tesi che Henri Perenne espresse magistralmente nella sua  Historie de l’Europe  des invasion au  XVI siecle, tr. it.  Storia d’Europa dalle invasioni al XVI secolo Roma 1991, pp. 116 -122, alla cui lettura rimandiamo. D’ora in poi  HP

[36] cfr. HP, pp.167 -177.

[37] NE, p. 100.

[38] Cfr. NE, p. 101.

[39] NE, p.104.

[40] NE, p. 105.

[41] VuW, p 57.

[42] VuW, p. 65.

[43] VuW, p. 65.

[44] VuW, p. 65.

[45] Feodor M. Dostoevskij, Brat’ja Karamazovy, tr. it  I fratelli Karamazov , Einaudi, 1993, p. 36.

[46] VuW, p.23.

[47] VuW, p. 24.

[48] Paul Ricoeur; De l’interpretation. Essai sur Freud, Paris 1965. Della interpretazione. Saggio su freud, Il Saggiatore, 1979. D’ora in poi DI

[49] DI, p.31.

[50] VuW, p. 25.

[51] DI, p.47.

[52] VuW, p.27.

[53] VuW, p.27.

[54] DI, p.362.

[55] Immanuel Kant, Kritic der Reiner Vernunft, tr. It. Lombardo Radice, Critica della Ragion Pura, Laterza, Bari, 1985. d’ora in poi CRP. Prefazione alla II edizione p. 16.