Lo smascheramento ad opera di Hans Jonas dell’esistenzialismo gnostico di Heidegger

In un interessante articolo, contenuto in Organismo e libertà[1], Hans Jonas affronta un problema che riteniamo essere di capitale importanza per la comprensione della perdita del senso del concetto di persona nell’antropologia contemporanea. Facendo i conti con il pensiero di Heidegger, il filosofo che più di ogni altro ha influenzato il panorama filosofico europeo, e non solo, dal II dopoguerra ad oggi, ne evidenzia la matrice gnostica, di quello gnosticismo che del Noce ha definito “antropologico” per distinguerlo dal vecchio gnosticismo di tipo cosmologico. Il capitolo in questione si intitola – ed è un titolo decisamente emblematico – Esistenzialismo e nichilismo. La tesi centrale che Jonas sostiene è che la filosofia dell’esistenza (e checché ne dica Heidegger la sua è una filosofia dell’esistenza, in quanto pur ponendosi come una ontologia dell’essere avendo cancellato in partenza la differenza ontologica e a vendo ridotto l’essere all’essere dell’EsserCi la sua ricerca non può concludersi che in una filosofia nichilista) non è che una forma di gnosticismo.

La sua critica si basa su di una sua profonda conoscenza sia del pensiero gnostico sia di quello heideggeriano di cui lo stesso Jonas fu allievo. Non nel senso che la filosofia di Heidegger ne sia una pedissequa rielaborazione, ma che tra le due filosofie esistono degli elementi fondamentali riscontrabili in entrambe, tanto che da far avanzare a Jonas la suddetta tesi. Il saggio del filosofo ebreo tedesco, da noi citato, potrebbe sembrare un mero esercizio accademico, una serie di chiose jonasiane intorno al suo maestro da cui qui prende definitivamente le distanze. Anche perché oggi la filosofia heideggeriana sembra, e dico sembra, avere poco seguito nel panorama culturale italiano, mentre invece si trova a fondamento del pensiero di molti autori italiani. Invece, siamo convinti che un confronto con gli esiti della Wirkungsgeschicthe heideggeriana vada fatto, soprattutto in virtù del profondo legame di questi con Nietzsche. Del resto, solo prendendo le distanze da Heidegger, alla luce soprattutto delle critiche mossegli dalla Stein, si può oggi riproporre in modo costruttivo la questione dell’essere. A tale scopo sarà utilissimo analizzare proprio le critiche di Edith Stein ad Essere e tempo contenute in un arguto saggio che doveva concludere, insieme al commento del Castello Interiore di S. Teresa d’Avila, in qualità di Appendice, il suo magistrale Essere finito e Essere Eterno.

Aveva pienamente ragione Etienne Gilson quando diceva in L’ateismo difficile[2]: «proprio perché l’esistenza di Dio mi pare spontaneamente certa, sono curioso delle ragioni che altri possono avere per dire che Dio non esiste. Per me è la non – esistenza di Dio che è un problema»[3].  Ci pare che la filosofia di Heidegger, ponendosi come critica della metafisica, impedisca nel nostro tempo una corretta formulazione della questione dell’essere, e ciò in modo particolare perché il filosofo di Marburgo non tematizza affatto l’analogia entis di cui parla S. Tommaso. In più, esiste una sorta di distorsione ermeneutica che caratterizza l’industria culturale e le politiche didattico – editoriali del nostro tempo. Per fare solo qualche esempio, ci sia concessa la breve ma importante digressione, come mai, ci domandiamo, quando viene trattato, mi riferisco ai manuali scolastici, il pensiero per esempio di Karl Popper ci si limita al solo pensiero scientifico, mentre nulla si dice del suo pensiero politico? E come mai, sempre negli stessi manuali, si dà molto spazio ad Heidegger e solo qualche cenno a Gadamer che pur rappresenta un nodo di svolta del nostro tempo? A questo punto, qualcuno mi potrebbe obiettare che Heidegger è morto da un bel po’ mentre Gadamer da molto meno.  Argomento non valido, in quanto spesso, se non sempre, si dice poco di Edith Stein che ha tematizzato ed affrontato la questione dell’essere con altrettanto rigore scientifico e chiarezza filosofica. Inoltre, un filosofo del calibro di Augusto Del Noce è pressoché completamente ignorato. E così con molti altri esempi. Ma questi bastino! Intanto, va detto che la risposta è semplice: esiste una dittatura culturale, ma non sarebbe giusto nemmeno chiamarla così, che impedisce che ai nostri giovani vengano presentate alcune tematiche filosofiche. In realtà queste vengono sminuite per lasciar pensare e credere - soprattutto credere – che non esistano più. Mi pare questo il campo di una poderosa battaglia delle idee dalla quale non possiamo, né vogliamo, esimerci.

«Io sostengo – afferma Jonas –  che esistenzialismo e gnosticismo abbiano qualcosa in comune e che questo qualcosa sia tale per cui la sua individuazione, per somiglianza come per differenza, può condurre ad un reciproco chiarimento di entrambi»[4]. Sia Del Noce che Jonas, per vie diverse, sono concordi nell’affermare che la crisi dell’uomo moderno ha un carattere che ha lontane origini, fin dagli albori stessi della modernità. Infatti, «gli inizi della crisi risalgono al XVII secolo, quando prende forma la situazione spirituale dell’uomo moderno»[5]. Uno degli aspetti caratterizzanti questa crisi è indubbiamente la solitudine dell’uomo moderno; è come se questi cogliesse, sia pure a livello ancora non pienamente cosciente, l’esistenza di una frattura fra sé e l’universo intero, fra la sua storia attuale e quella precedente, all’interno della quale egli si coglie come nullità, fragile nullità pensante. «Estraniato dalla comunità dell’essere in un tutto, proprio la sua coscienza lo rende estraneo al mondo e testimonia in ogni atto di vera riflessione esattamente questa estraneità»[6]. Questa estraneità della natura le fa perdere la dimensione del destino inteso come destinazione; essa viene destituita della categoria del “telos” per apparire nella sua anodina indifferenza, nella sua ottusa matericità. In breve: essa non è più creatura, e non è più nemmeno il luogo della prima rivelazione di Dio. «L’indifferenza della natura significa che essa non ha rapporto con dei fini. Con la eliminazione della teleologia dal sistema delle cause naturali la natura, essa stessa priva di obiettivi, e di fini, ha cessato di dare ai possibili fini umani una qualsiasi sensazione»[7].

La natura denudata della sua creaturalità ha perso anche la sua vocazione a richiamare l’uomo alla sua condizione di natura  e, dunque, alla sua creaturalità, condizione che automaticamente rimandava al Creatore come Principio.  Un universo così fatto non offre più la sponda al mondo dell’etica umana. A questa etica l’uomo di oggi oppone la sua etica – laddove propone ancora un discorso etico – prometeica e nichilista fondata sulla volontà di potenza. All’uomo è stato strappato lo specchio della natura, specchio in cui l’uomo, guardandosi, incontrava le vestigia di Dio e perciò della trascendenza. Questo processo di emancipazione che culmina nella filosofia di Kant e nell’illuminismo è una fondazione mitica , la creazione di un grande racconto mitico che illude l’uomo facendolo credere autosufficiente.

In questo contesto il senso delle cose non è più “trovato” per mezzo di una ermeneutica della restituzione del senso, o della scoperta del senso (a nostro modesto parere si può e si deve rifondare intorno al principio di partecipazione), ma è dato appunto dalla Wille zur macht. A ragione Jonas sottolinea che «il valore non viene percepito più nella visione dell’essere oggettivo, bensì posto come atto della valutazione»[8]. Nell’epoca della cosiddetta morte di Dio, l’epoca del nichilismo compiuto,la visione dell’essere viene sostituita  dalla creazione dei valori da parte della volontà di potenza; in breve: l’essere, se è,  è perché è voluto dalla volontà di potenza dello Übermensch nietzschiano. Il tentativo del secondo Heidegger, come vedremo più avanti, di sostituire al nichilismo la dimensione dell’uomo inteso come EsserCi, come pastore dell’essere, basata sull’ascolto dell’essere, ci appare più come una prosecuzione, in altri termini, della stessa posizione nichilista che un vero ristabilimento dell’essere come credeva lo stesso Heidegger.

Nella prima fase dell’età moderna l’uomo pascaliano, sì spaesato da questo slittamento del cosmo verso l’universo, del finito verso l’infinito, poteva ancora fare affidamento alla fede. «La contingenza dell’uomo – osserva infatti Jonas – è ancora una contingenza secondo la volontà di Dio», ma già l’uomo si comincia a cogliere come volontà e il tutto diviene il luogo in cui questa volontà di potenza viene dispiegata. La tesi di Jonas sta nel ritenere – e a ragione – che proprio questo cambiamento nell’immagine della natura è alla base degli esiti nichilisti ed esistenzialistici del nostro tempo. Se è così, si domanda Jonas, cioè «se l’essenza dell’esistenzialismo è un certo dualismo, un estraniamento fra uomo e mondo con la perdita dell’idea di cosmo affine – che diviene però un acosmismo antropologico – allora non è necessariamente solo la moderna scienza naturale a poter creare una tale condizione»[9]. Potrebbe sembrare azzardato il paragone che Jonas pone tra gnosticismo ed esistenzialismo, ma in realtà non è così, poiché possiamo dire senza eccedere che lo gnosticismo è comunque una forma di esistenzialismo antico e l’esistenzialismo una forma di gnosticismo moderno. Aggiungo, di passaggio, che anche Augusto Del Noce ha trovato molti elementi gnostici nel concetto di rivoluzione[10], concetto tipicamente moderno, e difatti tali elementi gnostici si trovano anche nel marxismo, mentre Karl Jaspers li riscontrava nel freudismo.

Ritornando al tema della nostra riflessione è interessante osservare quanto il Becchi sottolinea nella Presentazione all’opera jonasiana citata; qui egli scrive che «interpretato in questo modo a partire dalla cioè dalla scissione uomo – cosmo l’antico gnosticismo diventa l’analogo  dell’esistenzialismo, o meglio, quest’ultimo diventa una sorta di sua secolarizzazione e, dopo che l’analitica esistenziale di Heidegger era servita a spiegare la gnosi, ora è proprio la gnosi a consentire di scorgere l’esisto fatalmente nichilistico di Sein und Zeit  e di buona parte della filosofia contemporanea»[11]. Molti critici, tra i quali lo stesso Becchi, ritengono per aderti aspetti la ricerca di Jonas quasi un gesto titanico, destinato però a soccombere. Non siamo affatto d’accordo. Dal canto nostro riteniamo, invece, che esista una possibilità per la civiltà europea di uscire dal nichilismo, per cui, mentre conveniamo con Becchi riguardo al fatto che «nei primi secoli dopo Cristo la teologia riuscì a sconfiggere il primo nichilismo gnostico con una sintesi totalizzante fra fede cristiana e platonismo», non siamo d’accordo con lui quando ritiene che «l’attuale nichilismo è troppo corazzato per venir sconfitto dal ritorno di una metafisica quasi aristotelica dell’essere». E meno che mai possiamo convenire con lui quando conclude dicendo che «se è vero che oggi […] nessun Dio può salvarci, è forse altrettanto illusorio pensare di puntare tutto come fa Jonas, sulla carta di una ritrovata ontologia»[12]. Il Becchi stesso si muove troppo all’interno della rivoluzione copernicana per potersi accorgere dei limiti oggettivi del pensiero heideggeriano.

Qui non ci interesseremo dello sviluppo della filosofia jonasiana , ma ci limiteremo alla sola presa di distanza del pensiero di Hans Jonas da Heidegger. Detto questo, bisogna indubbiamente riconoscere quanto il vecchio nichilismo gnostico sia diverso, per certi aspetti, da quello contemporaneo: il nichilismo compiuto, appunto. Il primo cosmocentrico, il secondo antropocentrico. Questo nichilismo, pur nato dalla scienza moderna, per quel suo rifiuto di misurarsi con la condizione iniziale di peccato dell’uomo resta malato e bisognoso di una profonda critica alla radice atea che lo ha generato.

In questo senso, dunque, non si può non concordare con Jonas quando afferma che «la gnosi è una delle sfaccettature» che ci permettono di capire il nichilismo contemporaneo pur così diverso dall’antico in quanto essenzialmente «irreligioso, ovvero postcristiano, come Nietzsche definisce il moderno nichilismo»[13]. Dunque, nello gnosticismo antico l’uomo è convinto di poter superare la frattura inconciliabile tra uomo e mondo, attraverso la vera gnosi, conoscenza di una presunta verità da cui discenderebbe la sua salvezza. «Nel suo aspetto teologico, questa dottrina dice che il divino è estraneo al mondo e non partecipa all’universo fisico»[14] e dunque, il nuovo gnosticismo antropologico, ovvero la filosofia heideggeriana, solo per citare la più importante corrente del pensiero contemporaneo, presuppone una inconciliabilità tra Dio e la storia umana. Questo a-cosmico cosmo non conserva più nemmeno l’aspetto sacro e divino che pur conservava il cosmo greco. Il cosmo per lo gnostico è «ancora cosmo, ordine, ma un ordine tirannico, non affine all’uomo»[15];  la storia per il neognostico è un luogo che non ha niente a che fare con Dio, un luogo in cui regna sovrana una tirannia. L’uomo sballottato in questo cosmo ostile non prova che angoscia, Angst, l’esistenzialistica Angst, così l’uomo contemporaneo, non prova altro che angoscia di fronte alla storia. Infatti, prosegue il filosofo ebreo tedesco «angoscia come risposta dell’anima al suo essere-nel-mondo è un tema ricorrente della letteratura gnostica»[16].  Constata la situazione, il Nostro a questo punto si pone un interessante interrogativo che ci permette di gettare maggior luce sul problema. Ecco ciò che si chiede: «Se non sono state le scienze e la tecnologia, che cosa allora ha causato a quel tempo, per i gruppi in questione, il crollo della classica devozione verso il cosmo, su cui si fondava tanta parte dell’etica antica?»[17]. Egli ritiene che uno dei punti centrali di tale crisi vada riscontrato nel crollo dell’ontologia classica secondo cui la parte è organica al tutto, e per cui la parte esiste e ha senso nel tutto. Di tutto ciò la polis greca era stata l’esempio vivente. Finché l’uomo antico è riuscito a pensarsi come parte di questo tutto, di cui la polis antica era il modello, l’ontologia antica ha conservato la sua valenza fondativa. Infatti, Ethienne Gilson  nella sua monumentale Filosofia del Medioevo annota che «l’universo stoico non è che per una metafora una città perché esso è un fatto fisico, cioè il tutto stesso, dato quale esso è, le cui parti sono legate necessariamente dalla legge, contemporaneamente naturale e divina, dell’unità di pensiero,  armonia o solidarietà che le riunisce».[18] Ben diversa fu, invece, la situazione di quella parte del mondo antico che non risentì affatto della cultura greco-romana. Perciò «le masse nuove e atomizzate del regno mondiale, che non avevano mai preso parte a quella nobile tradizione, poterono reagire anche diversamente – degli ellenisti greco-romani o romanizzati – ad una situazione in cui si trovarono passivamente coinvolte».[19] L’uomo gnostico cercava l’autenticità del suo esistere e non aspirava più ad interpretare la parte assegnatagli dal tutto. Ora, l’uomo, soggetto ad una legge estranea di cui non comprende più la ratio, non partecipando più a quella cultura che l’aveva generata, cominciava a pensarsi estraneo o, almeno, a pensarla come insignificante per il suo destino. Proprio su questo punto si hanno convergenze decisive con il nichilismo contemporaneo, non tanto sul piano cosmico, quanto su quello antropologico ed etico, e ciò sta proprio nell’aver «minato l’idea di legge, di nomos» facendoci giungere a quello che Jonas definisce «l’antinomismo gnostico» che consiste nella  «negazione di ogni carattere vincolante della legge». Sta di fatto che allo gnostico e nichilista esistenzialismo moderno, di cui Heidegger, suo malgrado, è il padre ed uno dei maggiori esponenti, mentre nell’antico gnosticismo  «quel che è stato liquidato è l’eredità storica di mille anni di civilizzazione antica»in quello moderno, apparentemente portatore di epocali novità, ma in realtà rinnovata ed aggiornata copia dell’antico, «si aggiungono duemila anni di metafisica cristiana come sfondo dell’idea di una legge morale»[20]. A conferma di quanto si va sostenendo basti tener presente come Heidegger liquidi frettolosamente la tradizione metafisica medievale e cristiana di matrice latina in qualche breve sporadica nota nella sua pur poderosa opera sulla questione dell’essere[21]. Difatti,  né l’antico concetto di natura, fondativo dell’etica antica, né quello della rivelazione cristiana hanno più valore per il nichilismo compiuto. Inutilmente si batte e si dibatte Nietzsche nel volere un ritorno allo spirito tragico dei presocratici, in realtà ciò di cui parla il filosofo del nichilismo compiuto non è che una rilettura, in chiave moderna, dello gnosticismo antico. Fremiamoci un po’ su Nietzsche prima di confrontarci con Heidegger. per Nietzsche l’affermazione della morte di Dio non è solo la svalutazione dei valori supremi[22], ma anche l’avvio della scristianizzazione del continente europeo felicemente salutato da lui come l’aurora di un tempo nuovo in cui lo Übermensch, il superuomo, vivrà la dimensione tragica dell’esistenza. In un certo senso Heidegger tenta di sorvolare sulla dimensione decisamente anticristiana presente nel pensiero di Nietzsche affermando appunto che «le espressioni “Dio” e “Dio cristiano” sono usate nel pensiero di Nietzsche per indicare il mondo soprasensibile in generale. “Dio” è il termine per designare il mondo delle idee  e degli ideali»[23]. Vero ma solo in parte, in quanto Nietzsche ha di mira soprattutto il mondo cristiano e in relazione a questo il trascendentalismo platonico – aristotelico del pensiero antico, e sulla scorta di questo, anche di quello teologico medievale.

Così facendo, però, si elide la questione essenziale e cioè che senza la fede in Dio, anche se secolarizzata, come nell’etica kantiana per esempio, non c’è nessun valore condivisibile, ma solamente l’inversione antropocentrica iniziata nell’Umanesimo e culminata nel nichilismo. La trascendenza istituita dallo gnosticismo antico e dal suo epigone contemporaneo è una trascendenza irrelata. Infatti, come giustamente osserva Jonas «il dio gnostico, differente dal Demiurgo, è totalmente altro, estraneo, sconosciuto […]. Questo dio ha in sé più del nihil che dell’ens. Una trascendenza senza relazione normativa con il mondo è simile a una trascendenza che ha perso la sua forza reale»[24]. Il superuomo nietzschiano, o oltreuomo come alcuni preferiscono definirlo tanto per creare una distanza dalla vecchia interpretazione che Nietzsche stesso diede del suo pensiero, è l’implosione esistenziale di una trascendenza impossibile poiché auto-privatasi di Dio che è la Trascendenza che rende possibile ogni trascendenza.

La croce di Cristo non è soltanto il legno su cui fu crocifisso durante l’impero di Tiberio l’ebreo figlio di Dio Gesù di Nazareth, ma anche il simbolo e la struttura ontologica di ogni possibile trascendenza, dialogo e relazione. La croce è il luogo metafisico, l’unico luogo, in cui e per cui è possibile ogni possibile apertura all’essere. Essa è l’incrocio tra la verticale: la trascendenza dell’Appello di Dio ricolto all’uomo e la trascendenza dell’uomo verso l’altro uomo e verso il mondo. Essa è lo Shemà Israel scolpito nella radice profonda dell’essere cristiano, l’archetipo di ogni possibile relazione. Tra l’altro, concordiamo pienamente con Martin Buber che, in Ich und Du, concepiva la relazione io-tu costitutiva dell’io, e la concepiva in base alla originaria relazione io-Tu come Dio. Questo schema cruciato è fondativi della verità dell’essere dell’uomo; dico verità, in quanto l’uomo ne può perdere il senso se, liberamente, si chiude al Tu originario che è Dio. Esistere però è già essere stati chiamati da Dio all’essere; dunque, quando l’essere che l’uomo, ovvero l’io che io sono, si chiude al Tu originario, che è Dio, ne scade anche la relazione con l’altro tu e si perde il senso dell’altro che ci si manifesta come vocazione nella luce sorgiva del suo essere che è il volto.

Tornando al tema che stiamo trattando bisogna apprezzare l’arguta profondità del pensiero di Jonas in merito alla dimensione gnostica della filosofia heideggeriana quando ci fa notare che «nel suo scritto Lettera sull’Umanismo Heidegger obietta alla definizione tradizionale dell’uomo come animal rationale» perché ritenuta – sottolinea – limitativa in quanto basata sulla differenza dell’interno del genere animal. Il problema o, meglio, l’errore heideggeriana sta nel fatto che impedendo in tal modo la definizione dell’uomo a partire infondo dalla sua “natura”, si giunge non solo a definirlo in base ad un concetto pseudo-gnostico «un’esistenza transessenziale” che si progetta liberamente»[25], ma, ancor più, eliminata la natura, ridotta alla Wille zur macht, si elimina anche il nomos e l’uomo è nella illusoria terra del nulla.

Nel sottoparagrafo 5 intitolato Temporalità senza presente, partendo dall’analisi di un frammento valentiniano, Jonas passa ad un confronto serrato con la filosofia di Essere e Tempo riscontandovi fondamentali uguaglianze e convergenze. Il frammento di Valentino, gnostico dei primi secoli dell’era cristiana, è ripreso da Jonas dagli scritti di Clemente Alessandrino e recita così: «Quel che ci rende liberi è conoscere che eravamo, che cosa siamo diventati, dove eravamo, dentro cosa siamo stati gettati, verso dove corriamo, ciò da cui veniamo liberati; cos’è la nascita e cosa la rinascita»[26]. A questo punto ci viene fatto notare l’impianto dualistico dei termini, «la tensione escatologica fra essi, con la loro irreversibile direzione dal passato al futuro»[27]. Inoltre, non vi è nessuna affermazione dell’essere, ma solo dell’accadere, la conoscenza è sapere di uno sviluppo di eventi, di una storia. Insomma, appare quella che Heidegger chiamerà la Geworfenheit, ovvero la gettatezza, tanto che lo stesso Jonas è costretto a riconoscere che «fra questi concetti di movimento vi è qualcosa di estremamente familiare. […]. Per quanto ne so il termine è originariamente gnostico»[28]. E questo carattere della gettatezza è tanto costitutivo della filosofia di Heidegger che la dimensione del futuro è concepita come un pro – getto, ovvero come un nuovo gettarsi oltre la gettatezza da cui proveniamo, il passato appunto. Il presente, invece, come vedremo viene completamente svalutato dalla filosofia haideggeriana. Questa concezione è di derivazione gnostico – valentiniana.

Rimane però una sola differenza tra lo gnosticismo antico e il nichilismo gnostico contemporaneo. Secondo la gnosi antica l’essere gettati è una gettatezza dall’eterno e va verso l’eterno; mentre, il nichilismo contemporaneo è decisamente irreligioso ed immanente e, dunque, le gettatezza è dal nulla e va verso il nulla. Se ci concentriamo, con jonas, su Essere e Tempo notiamo che vi sono profonde concordanze con lo gnosticismo. Infatti, qui Heidegger parla di categorie dell’EsserCi che preferisce chiamare esistenziali, intendendole non alla stregua di funzioni della soggettività trascendentale che articolano l’oggettività – come accadeva in Kant -, ma come strutture del divenire temporale dell’interiorità del tempo interiore. Gli esistenziali, dunque, contengono gli orizzonti delle tre dimensioni temporali: passato, presente e futuro, che emergono solo in relazione a questi esistenziali[29] .  Jonas nota che ordinando in una tabella le categorie heideggeriana del DaSein si scopre che «la colonna dal titolo “presente” rimane pressoché vuota, per lo meno nella misura in cui si prendono in considerazione i modi dell’esistenza autentica»[30]. Il presente della situazione non ha consistenza ontologica, semplicemente è costituito dalla relazione passato – futuro e dai suoi reciproci rimandi, privo di permanenza autonoma, semplice cesura tra due abissi. «Non resta alcun presente, in cui il vero esserCi, potrebbe permanere, solo la crisi fra essere, passato e futuro, l’ultimo inaspritosi sul filo del rasoio della decisione la quale spinge in avanti»[31]. A questo punto, non possiamo no chiederci con Jonas quale metafisica sostenga un tale discorso heideggeriano. La risposta a questo quesito è di una semplicità e profondità sconcertanti: «la vittoria incondizionata del nominalismo sul realismo»[32]. E noi aggiungiamo, è il ritorno dell’antica sofistica di cui Nietzsche è l’emblema, anzi Nietzsche è il Gorgia redivivo ed Heidegger il Protagora. Accade in Heidegger che i valori non vengono colti più nell’orizzonte dell’essere, ma posti dalla volontà di potenza sullo sfondo del nulla, e questo proprio sulla concezione gnostico – nichilista della temporalità di Heidegger. in questo caso «l’esistenza è effettivamente condannata alla continua futurità con la morte come meta»[33].

Alla luce di quanto detto ci viene alla mente una considerazione. Applicando questo schema alla condizione dell’uomo del nostro tempo se ne deduce che, dal punto di vista del suo vissuto medio, egli giace sulla dimensione di un presente vuoto che affonda sul nulla in quanto eroso dalla dialettica passato – futuro. Ma periste ancora, al livello della natura, pur nel comune dualismo delle sue condizioni, una differenza costitutiva secondo cui, mentre l’uomo gnostico è gettato in una natura antidivina, creata da un dio minore ed ostile, l’uomo del nostro tempo vive in una  natura indifferente ed è gettato in una storia ostile. Quello antico è uno gnosticismo cosmologico, mentre quello contemporaneo uno gnosticismo antropologico, come ha giustamente notato Augusto –Del Noce. «ciò rende il moderno nichilismo infinitamente più radicale e disperato di quanto sia mia potuto essere il nichilismo gnostico con tutto il suo orrore del mondo»[34]. Sebbene sia al livello della frattura uomo – natura che si concentra l’attenzione di Jonas conveniamo pienamente con lui quando afferma che «la frattura fra uomo ed essere totale è alla base del nichilismo»[35]. Attraverso il pensiero di Heidegger la gnosi si propaga nel pensiero del Novecento sia filosofico e sia teologico. Ma la filosofia in questione è la causa o la cartina tornasole di un fenomeno culturale ancora in espansione che ha caratterizzato il secolo appena trascorso, fenomeno  in cui possiamo inserire anche il concetto di “rivoluzione” che deriva dalla stessa matrice gnostica? Per rispondere a questa domanda diviene necessario ora confrontarsi con la critica che la Stein muove alla filosofia heideggeriana e in particolare ad Essere e Tempo.

 

 

2.2 Le critiche ad Heidegger dall’interno della stessa  scuola fenomenologica: Edith Stein

 

Per una forma, diciamo così, di distorsione storiografica, certamente voluta, sembrerebbe non solo che l’unico a riproporre la questione dell’essere nell’ambito della filosofia novecentesca sia stato il solo Heidegger con il suo monumentale Sein und Ziet, ma anche che questa filosofia sia l’unica forma di fenomenologia che l’abbia posta. In verità non è così. Contemporaneamente allo sviluppo della fenomenologia husserliana nel cantiere herideggeriano che avrebbe prodotto Essere e Tempo anche un’altra allieva ed assistente, sia pure in un tempo precedente, di Edmund Husserl, Edith Stein, appunto, andava elaborando la questione dell’essere. Questa volta però nell’incontro della fenomenologia del  maestro con il pensiero tomista. In genere la storiografia filosofica e la manualistica ignorano o passano in second’ordine questa diversa via dando ad Heidegger uno spazio che ci pare quantomeno eccessivo, se non completamente esagerato. Riteniamo, invece, estremamente interessante la via indicataci dalla Stein per il superamento anche delle aporie interne al soggettivismo ed idealismo dello stesso maestro della fenomenologia, nonché del superamento del nichilismo ontologico di Heidegger. e ciò proprio a partire dalle posizioni e dai suggerimenti della filosofa tedesca[36].

Tornando alla Stein, l’articolo in questione intitolato La filosofia esistenziale di Martin Heidegger, scritto che risale al 1936, e che originariamente doveva essere, secondo il progetto stesso della Stein, una delle due appendici alla sua opera fondamentale: Essere finito ed Essere eterno, fu pubblicato postumo negli Edith Steines Werke al volume VI. Qui non si tratta solamente di una questione soltanto bibliografica ma squisitamente filosofica. Infatti, l’intenzione della Stein di pubblicare in Appendice alla sua opera fondamentale, in cui affrontava ella stessa la questione dell’essere, questo scritto rivela tutta la sua preoccupazione per gli esiti devastanti  che la filosofia del marburghese poteva comportare ed inoltre, alla critica all’antropologia di Heidegger faceva da contr’altare il commento al Castello Interiore di S. Teresa d’Avila, della quale evidenziava la  totalmente diversa antropologia. Lo diciamo chiaramente: la filosofia di Heidegger non è affatto la riproposizione della questione dell’essere che giunge ad una conclusione positiva del concetto di essere, ma la sua semplice abdicazione al nulla. Questi, infatti, pone sì la questione dell’essere ma per eluderla nella sua effettiva realtà e per sminuirne la portata. In virtù della cancellazione della differenza ontologica l’essere di cui parla Heidegger si riduce all’orizzonte della physis, ma in virtù del suo nichilismo la stessa physis si è ridotta alla volontà di potenza che qui diviene mondo e progetto dello stesso DaSein.  Invece, «una dottrina generale dell’essere – conferma la Stein – non può limitarsi all’essere creato, ma deve prendere in considerazione la differenza tra l’essere creato e quello increato e il rapporto che intercorre tra essi»[37]. La stessa osservazione, ma più approfondita, la ritroviamo in nota in Essere finito e Essere eterno. In nota al testo la Stein sintetizza quali sono i limiti della ricerca heideggeriana. Li riportiamo per intero. Ella scrive: «Heidegger non ha rigettato la vecchia definizione della Metaphysica generalis come dottrina dell’ente in quanto tale, ma soltanto ha sottolineato che era necessario chiarire il senso dell’essere. E in questo siamo d’accordo con lui. Ha quindi un ulteriore passo, sostenendo che per comprendere il senso dell’essere, si deve indagare sulla comprensione dell’essere propria dell’uomo. poiché trovò il fondamento della possibilità della comprensione dell’essere nella finitezza dell’uomo, vide  nell’approfondimento della finitezza dell’uomo il compito assegnato a una fondazione della metafisica. Qui si devono sollevare osservazioni da due punti di vista. In metafisica si tratta del senso dell’essere in quanto tale, non solo dell’essere dell’uomo. Chi sorvola sulla questione  del senso dell’essere, risiedente nella stessa comprensione dell’essere, e, non curandosi di ciò, “progetta” la comprensione dell’essere dell’uomo; incorre nel pericolo di tagliarsi fuori dal significato dell’essere; Heidegger è appunto incorso in questo pericolo. Seconda riflessione: la comprensione dell’essere non appartiene alla finitezza in quanto tale, poiché vi sono enti finiti cui non è propria la comprensione dell’essere. Questa appartiene a ciò che distingue  un essere spirituale e personale da un altro essere. Si dovrebbe perciò distinguere la comprensione umana dell’essere da quella degli altri spiriti finiti, e ogni comprensione finita dell’essere da quella propria dell’essere infinito (divino). Che cosa sia la comprensione dell’essere in senso assoluto, non si può vedere prima che venga chiarito che cosa sia il senso dell’essere. Così il problema fondamentale per la fondazione della metafisica resta il problema intorno al senso dell’essere».[38] Perciò in Heidegger,[39] checché egli stesso ne dica, la questione dell’essere viene posta solo a livello antropologico (sebbene il suo sia un tentativo, per altro non riuscito, di determinare una ontologia dell’essere dell’esserci, alla fine ben si addice alla sia filosofia la definizione di esistenzialismo) e per nulla ontologico in relazione alla questione dell’essere. Egli critica la metafisica ma alla fine ne produce egli stesso una, sia pure una metafisica del non-ente e dell’essere ridotto alla temporalità dell’esserci. E ciò perché egli si rifiuta di discutere la questione del senso dell’essere a prescindere dalla questione dell’essere dell’esserci. È per via della matrice gnostica del suo pensiero che il marburghese non pone correttamente tale questione. Dunque, dopo aver concordato con l’eretico assistente di Husserl circa la necessità di riporre la questione del senso dell’essere la Stein nota che questi non fa che porre la questione dell’essere a livello dell’essere dell’uomo, o meglio alla comprensione dell’essere propria dell’uomo. Il passo successivo è quello di trovare il fondamento della metafisica nella comprensione della finitezza dell’uomo.

Nell’articolo dedicato allo studio della filosofia heideggeriana la Stein, dopo una fedele esposizione del pensiero del filosofo tedesco, ne valuta il senso e la portata. A noi interessa in modo particolare questa analisi in quanto non solo vengono evidenziati i limiti di tale filosofia, poiché ne vengono messi in luce i fraintendimenti costitutivi, ma anche perché rappresenta una critica alla filosofia di heidegger che gli viene mossa dall’interno del movimento fenomenologico di cui i due filosofi, pur nelle loro differenze fanno parte. La Stein nota che in essere e Tempo, intendendo con l’essere dell’esserCi l’essere umano «si dice chiaramente che l’essenza dell’uomo è l’esistenza. Ciò non significa nient’altro che per l’uomo si rivendica ciò che secondo la philosophia perennis è riservato solo a Dio: la coincidenza di essere ed esistenza». Qui però l’uomo non viene sostituito a Dio, EsserCi, infatti, non è l’essere in quanto essere, «ma un particolare modo di essere che si contrappone agli altri modi d’essere».[40] L’eccezionalità dell’esserCi nella posizione dell’eretico assistente sta nel fatto che è l’unico cui si possa porre la domanda sul senso dell’essere e questo ne fa di lui un «piccolo dio»[41]  come nota giustamente la Stessa Stein. Il problema è che riducendo l’uomo all’esserCi, e il suo essere all’essere dell’esserCi, ci si priva di uno studio della sua dimensione corporale e di una dottrina dell’anima, come sottolineato dalla filosofa carmelitana scalza. La filosofia di Heidegger è una filosofia autolimitantesi ed incongruente, soprattutto sul versante razionale, eppure è una filosofia che l’occidente ha fatto propria, dando ad essa il suo assenso e pensandosi nei termini da essa definiti. Ciò conferma, a nostro modesto parere, che esiste una opzione fondamentale, meglio una Risposta Costitutiva che precede il pensiero stesso, da cui la modernità ha pensato se stessa, risposta che va verso la scristianizzazione stesa dell’Occidente e in cui la filosofia di Heidegger giganteggia come vera e propria icona.

Edith Stein pur riconoscendo la magistralità di Heidegger nell’individuazione dei modi di autentico ed in autentico dell’esistenza - ma forse le è sfuggito che proprio questi termini rimandano alla matrice gnostica del suo pensiero, come ben evidenziato dallo Jonas -  come costitutivi dell’essere dell’Esserci, però si chiede: «Ma tale costituzione fondamentale è analizzata nel modo migliore in vista di una chiarezza ulteriore dell’essere umano?»[42]. Il concetto della gettatezza, la Geworfenheit, di cui già abbiamo ampiamente parlato prima, esprime con chiarezza il fatto che l’uomo esiste senza sapere come sia giunto all’esserci. Il problema sta non solo nel fatto che questo concetto è di matrice gnostica, ma anche nel fatto che Heidegger non individua in questa gettatezza la creaturalità dell’uomo. questa critica viene mossa ad Heidegger non solo dalla Stein, ma anche dal filosofo ebreo-polacco Abraham J. Heschel[43]. La prima scrive appunto che la gettatezza si rivela come creaturalità, mentre il secondo sottolinea che il mio esistere non dipende da me e che la gettatezza presuppone un ordine, un esisti! appunto, come radice del mio esistere. Esistere è già rispondere ad un appello, dunque, come abbiamo già evidenziato nella II Ricerca sulla Risposta Costitutiva. Da quanto emerge, invece, da ciò che lo stesso heidegger dice riguardo alla deiezioni al par. 38 di Sein und Zeit, in cui afferma che «l’interpretazione ontologico esistenziale non ha la pretesa di formulare giudizi ontici sulla corruzione della natura umana; e ciò non perché ne manchino le prove, ma perché la sua problematica si pone al di qua di qualsiasi giudizio sulla corruzione o sulla non corruzione degli enti» risulta un rifiuto dell’accettazione della dimensione della temporalità in senso alla questione dell’essere, e tale appunto viene proprio da colui che ricuce la questione dell’essere al tempo? In verità mi sembra troppo poco, perché Heidegger incorre nell’errore di considerare la questione della corruzione o non corruzione dell’ente come una questione meramente morale, mentre è invece una questione decisamente ontologica. Perciò, ha pienamente ragione la Stein quando afferma che «bisogna dire che l’insegnamento della Chiesa che riguarda il peccato originale è la soluzione dell’enigma che emerge dalla descrizione di Heidegger dell’Esserci deietto»[44]. In più si può trovare conferma di ciò nella brillante analisi che fa Del Noce ne Il problema dell’ateismo quando dice che «l’ateismo si presenta come momento terminale di un processo di pensiero condizionato all’inizio da una negazione senza prove della possibilità del soprannaturale», come rifiuto dell’iniziale status naturae lapsae. Infatti «le concezioni del mondo si formano in relazione ad una iniziale risposta al problema del peccato originale»[45]. Ed Heidegger l’ha decisamente accantonato. A questo punto Edith Stein si chiede da dove provenga ad Heidegger la conoscenza di un essere autentico da lui presupposta. La risposta non la si può trovare che nel concetto appello, chiamata, che ogni essere riceve attraverso la voce della coscienza. ma colui che chiama all’autenticità [46] non può essere lo stesso che è chiamato come presuppone ingenuamente proprio Heidegger. Per questi il passaggio dalla condizione in autentica dell’Esserci a quella autentica avviene nell’essere-per-la-morte intesa come comprensione della morte e un «anticiparsi per la morte»[47] . E quanto sia gnostico questo concetto lo abbiamo appena dimostrato. La Stein, giustamente, rileva che «se il senso ultimo dell’esserci deve essere l’essere-per-la-morte, allora attraverso il senso della morte dovrebbe essere chiaro il senso dell’Esserci. Ma come è possibile ciò se della morte non si dice altro che è la fine dell’esserci?». E aggiunge argutamente «non è un circolo vizioso?» [48].

La sezione B è intitolata Considerazioni ed è strutturata in tre parti che nascono dalle seguenti domande che ella si pone: 1) Che cosa è l’Esserci? 2) L’analisi dell’esserci è fedele?; 3) Essa è un fondamento sufficiente per porre adeguatamente la questione del senso dell’essere? Circa la prima questione, ovvero: Che cosa è l’esserci? Edith Stein ne individua subito il nucleo  centrale quando afferma che «Heidegger  con il termine Esserci intende l’essere umano»[49] , me rimane il fatto che per Heidegger, come già prima sottolineato, ma è il caso di ribadirlo, «l’essenza dell’Esserci consiste nella sua esistenza»[50]. Ma ciò rimanderebbe ad una natura divina dell’essere umano che non sussiste affatto. L’uomo però non è sostituito da Heidegger completamente a Dio poiché, con l’esserci, non viene inteso l’essere in quanto tale, ma un particolare modo d’essere contrapposto ad altri, l’essere utilizzabile, l’essere semplicemente presente. resta il fatto che per il filosofo tedesco «l’uomo è considerato come un piccolo Dio, in quanto l’essere umano è ritenuto come un essere eccezionale al di sopra di tutti gli altri e come l’essere dal quale si può sperare l’unico chiarimento sul senso dell’essere»[51]. Di Dio si tace o se ne parla in Essere e Tempo in modo marginale o in qualche nota allo scopo di escluderlo; l’essere di Dio è escluso a priori ed in modo ingiustificato dalla riflessione. Riguardo alla scelta del termine EsserCi per indicare l’uomo, Edith Stein ne individua due, una positiva e l’altra negativa. Quella positiva è dettata dal fatto che all’essere dell’esserci appartiene l’essere condizionato, ma questo tema era già comparso in Husserl prima ancora che Heidegger si avvicinasse alla fenomenologia e precisamente già nelle Ideen, il suo essere qui e il poter essere lì, ovvero ciò che in termini aristotelico – tomisti (termini che Heidegger rifiuta a priori) si può esprimere con il termine “potenza”. La motivazione negativa è dettata dal rifiuto della definizione dogmatica dell’uomo come composto di anima e corpo, anzi come «composto da due sostanza, una spirituale ed una corporea»[52]. A parte il fatto che la filosofia tomista, e sulla stessa linea si muoverà poi la Stein, non parla affatto di due sostanze come invece crede Heidegger confondendo Cartesio con la Scolastica medievale, ma di una sola sostanza. Certo, riconosce la filosofa tedesca, Heidegger non rifiuta all’esserci la nozione di corporeità, parlandone anzi a lungo.  «Invece, il modo in cui si parla di anima non lascia intendere altro che questa sia un termine dietro al quale non c’è nessun significato chiaro»[53]. Sebbene egli voglia disfarsi di questa separazione di anima e corpo, egli on vi riesce pienamente; ciò è dimostrato «dal fatto che egli parla continuamente dell’essere dell’esserci: ciò -  spiegala Stein – non avrebbe alcun senso se si fosse inteso con Esserci nient’altro che l’essere umano»[54]. Inoltre, quando in Essere e tempo si parla di essere-nel-mondo[55] il Chi dell’esserci è separato dal mondo ma anche dall’in-essere, si ha come risultato che il termine Esserci viene utilizzato per cose diverse, intimamente collegate, tanto da non poter stare l’una senza l’altra, pur essendo diverse. Ne consegue che «per Heidegger l’Esserci indica sia l’uomo (per questo motivo si indica il Chi o il Sé) sia l’essere dell’uomo (in questi casi scegli per lo più l’espressione essere dell’Esserci)»[56] inteso come esistenza.

Successivamente la filosofa di Breslavia risponde alla seconda domanda: l’analisi dell’esserci è fedele? Dopo aver costatato che l’influenza durevole del libro è dovuta all’analisi dell’Esserci quotidiano la filosofa tedesca affronta la questione centrale della sezione circa la deiezione, ovvero della gettatezza. Da questa analisi, come abbiamo già detto emerge che la deiezione può essere letta solo alla luce del concetto di creatura, in quanto appunto l’essere gettato presuppone un gettante. Il termine poi, come prima dimostrato con Jonas ha delle assonanze decisamente gnostiche e quindi è poco adatto a descrivere la dimensione della creaturalità. Il fraintendimento heideggeriano sta nella sua opzione fondamentale, della sua risposta costitutiva, di Heidegger come uomo e come filosofo appunto, a partire dalla quale la domanda intorno all’essere si riduce alla domanda intorno all’essere dell’esserci, questione da cui il filosofo tedesco non può più prescindere. Nel concetto do gettatezza sta proprio il limite della sua ontologia esistenziale. Infatti, quando gli si pone innanzi la domanda circa l’essere di questo esserci, la sua risposta non fa che approdare al nulla. La Stein riconosce all’assistente eretico di Husserl il merito della esposizione dei problemi notando però che gli manca la chiave per poterne comprendere appieno il senso in relazione all’Essere. E ciò, ci pare, emerga proprio per la dimenticanza della fondamentale  e fondante “analogia entis”. Non solo, ma la Stein, a ragione, si domanda: «Heidegger non ha reso impossibile sin da principio la chiarificazione necessaria di questo ruolo eminente rifiutandosi di parlare di Io e di persona, invece di interrogarsi suoi possibili significati di queste parole?»[57]. Ovvero, Heidegger si è limitato a cancellare, senza argomentarlo, il contributo di tutta la filosofia medievale e cristiana  apportato al pensiero Occidentale; o, quando lo cita lo fa semplicemente per decostruirlo. Insomma, è presente in lui, sia pure a livello latente, il pregiudizio illuminista e protestante nei confronti della tradizione latino-medievale. Anche nella tematizzazione del “Si impersonale” è, di fatto, presupposta una persona che vive questa condizione, mentre Heidegger lascia completamente nell’oblio questo aspetto.

A parte il fatto che questa filosofia si iscrive pienamente nella filosofia dell’eclissi di Dio o, meglio, della sua cancellazione opzionale e ciò  perché anche qui il tema del peccato originale è completamente obliato, liquidato nel suo aspetto morale, e non considerato nella sua dimensione ontologica, soprattutto per quanto concerne la questione della “deiezione”, come osserva con profonda lucidità la Stein. Ella afferma che «bisogna dire che l’insegnamento della Chiesa che riguarda il peccato originale è la soluzione dell’enigma che emerge dalla descrizione di Heidegger dell’esserci deietto»[58] Quando poi questi definisce l’essere dell’esserci come essere-per-la-morte non fa che produrre un circolo vizioso perché «attraverso il senso della morte dovrebbe essere chiaro anche il senso dell’EsserCi. Ma come è possibile ciò se della morte no si dice altro che essa è la fine dell’esserci?»[59].

In questo senso la filosofia di Heidegger si iscrive pienamente nell’eresia della modernità che consiste proprio nel passaggio ingiustificato dalla trascendenza all’immanenza, questa, con la iniziale cancellazione della condizione di peccato dell’uomo, porta all’ateismo moderno e alla irreligione contemporanea.

 



[1] Cf.  JONAS H., Organismo e libertà, Einaudi, 1999.

[2] GILSON E., L’athèisme difficile, Librairie Philosophique, Paris, 1979, tr. it. a cura di Angela Contessi, L’ateismo difficile, Vita e Pensiero, pubblicazioni dell’Università Cattolica, Milano, 1983.

[3] GILSON E., L’athèisme difficile op. cit. 13.

[4] JONAS H., Organismo e libertà, op. cit. 263.

[5] JONAS H., Organismo e libertà, op. cit. 265.

[6] JONAS H., Organismo e libertà,  op. cit. 266.

[7] JONAS H., Organismo e libertà, op. cit. 260.

[8].JONAS H, Organismo e libertà, op. cit.  267.

[9] JONAS H., Organismo e libertà, op. cit.  268.

[10] Cf. DEL NOCE A., Il problema dell’ateismo, op. cit. pp.  59 – 211. Inoltre,  Cf. Jaspers in  Ragione e Antiragione nel nostro tempo, SE, Milano, 1999  . Si tratta di comprendere le radici di questo fenomeno che senza ombra di dubbio vanno ricercate nella contrapposizione antropocentrica Quattrocentesca a quella geocentrica del Medioevo.

[11] BECCHI P.  Presentazione a H.JONAS, op. cit. XII.

[12]BECCHI P.  Presentazione a H. JONAS, Organismo e libertà, op. cit.  XIII.

[13] JONAS H, Organismo e libertà, op. cit. 269.

[14] JONAS H. Organismo e libertà, 270.

[15] JONAS J. Organismo e libertà, 270.

[16] JONAS H. Organismo e libertà, 272.

[17] JONAS H., Organismo e libertà, 273.

[18]  GILSON E. La Filosofia nel Medioevo, Sansoni, 2004, 183.

[19]  JONAS H., Organismo e libertà, 274.

[20]  JONAS H., Organismo e libertà, 275.

[21]  Di questo argomento dovremmo interessarcene in maniera approfondita nel prosieguo del saggio. Qui si può solo anticipare, in maniera decisamente poco esaustiva, dicendo che le motivazioni che lo stesso adduce a sostengo di questa liquidazione sono decisamente poco convincenti.

[22] Cf. il famoso aforisma 125 della Gaia Scienza, in NIETZSCHE F. La Gaia Scienza, tr. it Giorgio Colli, Adelphi, Milano, 1984, 129.

[23] HEIDEGGER M.., Holzwege, tr. it. Pietro Chiodi, Sentieri Interrotti, Firenze, 1984,198.

[24] JONAS H., Organismo e libertà, op. cit. 276.

[25] JONAS H., Organismo e libertà, op. cit. 278.

[26] Clemente Alessandrino, Excepta ex Theodato, LXXVIII,2, in JONAS, Op cit. p 279, grassetto nostro.

[27] JONAS  H., Organismo e libertà, op. cit., 279.

[28] JOPNAS H., Organismo e libertà, 289 – 280.

[29] Gli esistenziali son appunto la situazione affettiva, il comprendere ed il parlare, come trattato da Heidegger in Cf. HEIDEGGER M. Essere e Tempo, tr. ti. P. Chiodi, Milano, 1976, pp168- 221.

[30] JONAS  H., Organismo e libertà, op. cit., 281.

[31] JONAS H., Organismo e libertà, op. cit. 281.

[32]JONAS H., Organismo e libertà, op. cit. 283.                                      

[33] JONAS H., Organismo e libertà, op. cit. 283.

[34] JONAS H., Organismo e libertà, op. cit. 283.

[35] JONAS H., Organismo e libertà, op. cit. 284.

[36] Un’altra cosa dev’essere messa in chiaro, ed è questa. Heidegger non avrebbe mai potuto riproporre in ambito filosofico la questione dell’essere se non fosse stato preceduto dalle ricerche di Husserl. È infatti solo a partire dalle ricerche d’essenza di Husserl che è possibile avere gli strumenti per poter porre la questione d’essere nell’ambito del pensiero moderno tutto teso alla fondazione dello statuto delle scienza e alla riduzione della filosofia a scienza. La stesa formazione giovanile di heidegger in ambito neokantiano non gli avrebbe permesso questo passaggio. Spetta dunque alle ricerche fenomenologiche dell’ambiente husserliano il traghettamento della filosofia contemporanea alla questione cruciale dell’essere. Del resto solo le ricerche intorno all’essenza di cui la fenomenologia trascendentale è la scopritrice in ambito moderno rendono possibile questo passo, poiché l’essenza stessa in quanto quid rimanda alla questione del suo essere e di conseguenza a quella generale dell’essere in quanto essere.

[37] STEIN E., La Struttura della persona umana, op. cit., 63.

[38] STEIN E., Essere finito e Essere eterno, Roma, 1999, 57- 58, in nota. Grassetto nostro, corsivo della stessa Stein.

[39] Cf. HEIDEGGER M. Essere e Tempo, Milano 1976, 65 – 75.

[40] STEIN E., La filosofia esistenziale di Martin Heidegger, in STEIN E., La ricerca della verità, Roma, 1999, 178.

[41] STEIN E., La filosofia esistenziale di Martin Heidegger, op. cit. 178.

[42] STEIN E. La filosofia esistenziale di Martin Heidegger, op. cit. p 180.

[43] Per quanto riguarda l’appunto mossogli dalla Stein si tenga presente quanto segue: «L’essere umano è indicato come gettato. In tal modo si esprime in modo eccellente che l’uomo si trova nell’Esserci senza sapere come vi è arrivato, che egli non è da sé né per sé e non può aspettare dal proprio essere alcun chiarimento sulla sua origine. Perciò non si può porre la questione sull’origine a partire dal mondo. Si può tentare ancora di metterla a tacere violentemente o di considerarla senza senso, tuttavia essa emerge sempre inevitabilmente, e in modo sempre nuovo, dalle caratteristiche presenti nell’essere di questo essere umano, in sé senza fondamento, che deve essere fondato, qualcuno che getti il gettato. Allora la gettatezza si rivela come creaturalità (Gëschopflichkeit)». In Stein, op. cit. 180. Heschel muove ad Heidegger la stessa critica quando afferma: «la domanda retorica di Heidegger: “il DaSein, come tale, ha mai deciso liberamente no sarà mai in grado di decidere se nascere o meno?”, è stata risolta da gran tempo: “Contro il tuo volere sei nato, contro il tuo volere vivi e contro il tuo volere sei costretto a rendere conto…”. La trascendenza dell’essere umano è in tal modo espressa come una vita che ci è stata imposta, così come ci è imposta la resa dei conti e la stessa libertà. La trascendenza dell’essere è un comandamento, l’essere qui e ora è obbedienza. Non sono stato io a far esistere il mio essere. Né sono stato gettato: il mio essere obbedisce a un ordine: “Esisti!”». In HESCHEL A. J. Chi è l’uomo?, Milano, 2005, 114.

[44] STEIN E., La filosofia esistenziale di Martin Heidegger, op., cit. 187.

[45] DEL NOCE A. Il problema dell’ateismo, op. cit. 356.

[46] Sarebbe meglio dire alla verità in opposizione alla falsità piuttosto che usare la coppia autentico-inautentico, poiché i termini utilizzati da Heidegger mirano proprio a cancellare la dimensione veritativa dell’ente, mentre l’introduzione dei termini gnostici autentico in autentico esclude il rapporto tra Essere creato e Creatore che la coppia di termini verità-falsità presuppone.

[47] HEIDEGGER M. op. cit. p 450.

[48] STEIN E. La filosofia esistenziale di Martin Heidegger, op. cit. 189.

[49]STEIN E , La filosofia esistenziale di Martin Heidegger, op. cit. 178.

[50] HEIDEGGER M. op. cit. 64.

[51] Stein E, op cit. 178.

[52] HEIDEGGER M, Essere e Tempo, op. cit., 295.

[53] STEIN E, La filosofia esistenziale di Martin Heidegger, op cit. 178- 179.

[54] STEIN E, La filosofia esistenziale di Martin Heidegger, op cit. 179.

[55] HEIDEGGER M, Essere e Tempo, op. cit., Cf. par. 76 e ss.

[56] STEIN E, La filosofia esistenziale di Martin Heidegger, op cit. 179.

[57] STEIN E, La filosofia esistenziale di Martin Heidegger, op cit. 182.

[58] STEIN E, La filosofia esistenziale di Martin Heidegger, op cit. 187.

[59] STEIN E, La filosofia esistenziale di Martin Heidegger, op cit. 189.