Nel mese di febbraio 2010 è uscita per i tipi di Bompiani “Testi a Fronte”, Collana diretta da Giovanni Reale, il volume: Tommaso, La Felicità, Summa Theologiae q. 1 – 5,           a cura di Umberto Galeazzi.

Il volume possiede, oltre ad un interessante e aggiornata bibliografia di riferimento, anche un Glossario in ordine alfabetico delle “Parole Chiave” notevoli utilizzate dal Dottore Angelico, con ampia e precisa spiegazione del curatore; in più, l'apparato di note è ricco di rimandi e, infine, è stata inserita una sintetica vita del Dottore Angelico. Nel volume vengono presentate al pubblico soltanto le Quaestiones 1-5 della Summa Theologiae dell'Aquinate dove vengono affrontatialcuni temi legati alla definizione della Beatitudo, termine reso in italiano con “felicità” dal traduttore; se ne definisce l'essenza, il suo rapporto con l'agire umano, con le sue scelte e con il fine ultimo. La I questione tratta appunto del tema del fine ultimo dell’uomo; la II si interroga, e ci interroga, sulla realtà in cui consiste la felicità umana; la questione III su che cosa sia la felicità; la IV su quali siano le realtà richieste per la felicità; e, infine, la V sul conseguimento della felicità.

Il primo aspetto del volume da sottolineare - aspetto decisamente interessante - è che questo presenta, in forma tascabile, un estratto della Summa Theologiae dell'Aquinate. L'intento primo è, dunque, quello di presentare, in forma snella e più facile da consultare, più adatta all'uomodel nostro tempo - verrebbe voglia di dire - quei temi fondamentali della ricerca filosofica, che rispondono alla domanda di fondo dell'uomo di sempre: “In cosa consiste la felicità?”, e: “Cosa debbo essere e, poi, fare per ottenerla?”. Come ha giustamente sottolineato il curatore del volume, «la felicità […] è la questione decisiva dell'esistenza»[1]; il problema vero è, però, quello di definirne l'essenza. Umberto Galeazzi fa notare che Tommaso d'Aquino, pur non negando l’aspetto soggettivo – cioè ontico – della ricerca della felicità, «precisa che questa condizione di felicità non si dà senza il conseguimento di un bonum, che è realtà extra soggettiva e senza seguire la normatività iscritta nella natura della persona – evidentemente da Chi ha creato la natura – e dal suo desiderio»[2].

 

L'inattuale attualità di questa snella pubblicazione, merito della intelligente scelta del curatore - traduttore, sta quindi proprio nell'indicare la via per la felicità in un modo completamente opposto a quello della mentalità corrente, e questo è decisamente un merito piuttosto che un demerito. Questa è, allora, la sfida: opporre la “Volontà di Verità”[3] all'inganno nietzschiano e postmoderno della “Volontà di potenza”; la libertà del bene al potere e all'oppressione del male. In effetti, la sfida, che ci propone il testo, è quella di dire allo uomo rivoltato della post - modernità (che altro non è che un modo d'essere della stessa modernità) la Verità del suo essere; e perché ciò sia possibile, oggi è necessaria - a voler rimanere nell'ambito della metafora kantiana - una vera e propria “Controrivoluzione Copernicana”. L'uomo d'oggi è ingannato. Egli crede che la felicità stia nel pieno dispiegamento della vita che è in lui, nello smisurato amor fati di nietzschiana memoria, cioè nel “sì” alla vita come suo potenziamento, al di là del bene e del male. Il superuomismo di massa, Centro Commerciale delle possibilità esistenziali dell'uomo postmoderno, non fa che alimentare a dismisura il numero di scatole cinesi in cui l'uomo si trova imprigionato dal suo stesso inganno: credere di poter definire da sé, in modo pienamente variabile, fluido e soggettivo, a seconda delle situazioni e dei desideri effimeri che lo alimentano, le sua essenza; ovvero, il senso  stesso del suo esistere. Qui l'esistenza precede e definisce l'essenza – questo il motto sartiano – che, cantato dal paradigma affermatosi negli ultimi tre secoli come il “luogo della felicità”, è invece l'origine profonda della stessa infelicità, poiché infatti solo in Dio l'essenza coincide con l'esistenza. Ma l'uomo fallisce sempre quando vuol porsi come il deus della sua vita.

Il senso del mio essere, invece, mi è donato; ciò significa che, sebbene sia libero di determinare il telos del mio esistere, il mio essere è un compito che può realizzarsi solo alla luce della Verità, di quell'unica Verità che è Cristo. Tant'è vero che nel profondo abisso del suo cercare, nell'indeterminabile fila di viottoli in cui consiste il labirinto della sua esistenza, l'uomo avverte, in modo confuso, quasi senza sentire – direbbe Vico – quel pungolo nella carne, di kierkegaardiana memoria, che lo chiama, che gli si pone innanzi come l'Appello radicale. Egli avverte l'ineludibile appello alla felicità[4], iscritto nel suo codice genetico – se con questo termine intendiamo soprattutto l'essere creaturale dell'uomo – e dunque in modo ontologico, cui purtroppo l'uomo non sa più dare una risposta adeguata, anzi l'unica risposta possibile; tutto ciò è chiarito in modo inimitabile  dall'Aquinate. Infatti, il Dottore Angelico offre all'uomo moderno una risposta completamente diversa (e per questo veramente affascinante) da quelle, oscillanti e fluide, di buona parte della filosofia contemporanea. E ciò non nella forsennata ricerca di una franabile “Aufhebung di tipo hegeliano, e neppure nella coincidenza guerreggiata degli opposti tra posizioni inconciliabili tra loro (cioè nel mantenimento delle antitesi lasciando cadere la sintesi, come taluni da vario tempo erroneamente sostengono), ma nella scelta, scelta di cui la struttura delle Quaestiones tommasiane non ne  è che il corrispettivo logico. L'unica scelta possibile è dunque tra una forma di esistenza intesa come “erranza” ed un'altra intesa come “pellegrinaggio”.

L'altro aspetto interessante del Volume consiste nel presentare al pubblico il pensiero dell'Aquinate in una traduzione il cui linguaggio è vicino all'uomo di oggi, e ciò senza minimamente sminuire il senso del dettato di S. Tommaso; di ciò è un esempio lampante la felice traduzione di Galeazzi del termine tommasiano beatitudo con il più vicino a noi “felicità”. Senza voler entrare nello specifico della giustificazione ermeneutica delle scelte di traduzione – a tale scopo rimandiamo il paziente lettore al Saggio Introduttivo[5] - qui aggiungiamo solamente quanto segue. Tale traduzione trova il suo fondamento proprio nella Quaestio 3 dell'Aquinate. Qui, infatti, S. Tommaso definisce proprio la beatitudo come «il conseguimento dell'ultimo fine»[6], che implica il conseguimento del Sommo Bene; e tale conseguimento comporta la beatitudine, di cui la felicità è l'espressione. Dunque: «la felicità, non è semplicemente il verificarsi di situazioni empiriche, ma consiste nel raggiungere la perfezione ontologica, attraverso il riconoscimento della ragione e l'impegno della volontà»[7]. Il testo tommasiano, come giustamente sottolinea Galeazzi[8], non ci invita a tornare indietro, in una improbabile odissea dalla modernità verso una perduta Itaca dell'innocenza antica, ma la sua posizione si presenta come un decisivo superamento delle aporie della modernità stessa in campo etico: “l'immoralismo trasgressivo” dell'agire superuomistico al di là del bene e del male, di matrice nietzschiana e il “legalismo moralistico” di matrice kantiana.

Come uscirne, facendo propria la lezione dell'Aquinate?

Per quanto riguarda il legalismo moralistico di matrice kantiana si tenga presente che «l'umana ragion pura, la soggettività trascendentale che orgogliosamente aveva preteso in assoluta autonomia […] di darsi la legge morale […] deve poi riconoscere di non essere in grado di procurarsi, con le sue forze, la felicità»[9]. La rivoluzione copernicana, infatti, operata da Kant in campo morale, per la quale a volontà è buona in sé in quanto tende alla legge universale da lei stessa posta, non riesce a conciliare la felicità con il compimento della stessa legge morale, tanto da dover necessariamente “postulare”, senza poterlo più dimostrare, l'esistenza di Dio. Invece, i limiti dell'immoralismo trasgressivo «li possiamo capire anche da una lettura critica del vitalismo di Nietzsche che vede l'uomo in una prospettiva ancora più angusta del moralismo […] in quanto lo ritiene legato agli istinti e da essi determinato nel pensare e nell'agire»[10]. Ora, l'istinto è finito, limitato; momentaneo, mutevole, anti-razionale. Non dà pace, perché nell'uomo gli istinti non solo sono naturalmente sottomessi alla ragione, ma in lui c'è l'ontologico bisogno d'infinito che solo Dio può colmare. La riduzione della ragione all’istinto significa la negazione dello spirito, della trascendenza verticale oltre che orizzontale; significa la negazione della visione platonico – cristiana dell'interiorità e dell'uomo. Inoltre, l'esaltazione degli istinti determina la riduzione dell'uomo alla bestia, con la negazione della sua dimensione personale, individuale ed unica; elemento questo fortemente questo negato da tutti i totalitarismi di matrice giacobina, che hanno origine proprio nel razionalismo opzionale della modernità e che trovano pieno compimento nel modello illuminista della ragione e nei suoi derivati ottocenteschi e novecenteschi. Ma dobbiamo ribadire con forza, a scanso di equivoci e di improduttivi fraintendimenti, che l'attualità di S. Tommaso, la sfida decisiva che lancia alla modernità, è di tipo correttivo non di condanna. Essa diventa, in questo particolare tempo di negazione del senso, di declino e di tramonto dell'uomo, orgiasticamente annunciato come panacea da parte dei profeti del nichilismo, un'opportunità per lo sbandato uomo del nostro tempo che può trovare nella lezione dell'Aquinate una vera guida ed un vero Magister quale eco fedele dell'Unico e vero Maestro.

Un ultimo punto ci teniamo a sottoporre all'attenzione del lettore. Dalla lezione dell'Aquinate, in linea con la tradizione del pensiero antico platonico ed aristotelico, emerge fortemente la certezza che la felicità è alla portata dell'uomo, qualora questi si apra all'unica via che può realizzare ontologicamente la sua stessa essenza. E questa felicità non viene dalla finitudine[11], sia pure la scelta che l'uomo fa di se stesso quale fine della felicità, ma dall'apertura a quell'Unico Infinito che può dare una risposta alla sua stessa sete di felicità: Dio. E questo perché «la nostra ragione è capacità di superare ogni limite, perché conoscere un limite come tale, significa superarlo»[12], come conferma il Santo Dottore nella Summa Contra Gentiles: «il nostro intelletto nell'intendere si estende all'infinito: ne è un segno il fatto che, data una qualsiasi estensione finita, il nostro intelletto è in grado di pensarne una più grande. Ora, questa apertura della nostra intelligenza all'infinito sarebbe vana se non esistesse una realtà infinita da conoscere»[13]. È dunque solo nell'adesione a Dio che l'uomo trova la felicità, in quanto solo Dio può colmare quel desiderio di infinito che è costitutivo dell'essere creatura dell'uomo in quanto Dio stesso, nel crearlo, lo ha posto in lui come dato ontologico e perciò ineliminabile del suo essere. E questa felicità, che è alla portata di tutti perché offerta da Dio a tutti, può già essere pregustata durante questa vita terrena come sottolinea fortemente S. Tommaso quando alla questione 4 dice: «in hac vita accedit ad similitudinem illius perfectae beatitudinis felicitas contemplativa quam activa, utpote etiam Deo similior»[14],ovvero: “In questa vita la felicità della contemplazione si avvicina alla somiglianza con quella perfetta beatitudine più della felicità dell'agire, anche perché più simile a Dio”. Questo concetto, tipico del cristianesimo, ma purtroppo troppo spesso da noi stessi dimenticato, viene ribadito e chiarito dall'Aquinate nella V questione all'articolo 8; qui si legge infatti che «aliqualis beatitudinis partecipatio in hac vita haberi potest: perfecta autem et vera beatitudo non potest haberi in hac vita»[15].

 



[1]          U. GALEAZZI, Saggio Introduttivo a Tommaso la Felicità, Bompiani, Milano 2010, 7.

[2]          U. GALEAZZI, ibidem, 7.

[3]          Cf. U. GALEAZZI, ibidem, 74.

[4]   Termine questo con cui, in modo felice, Galeazzi ha tradotto il termine Beatitudo utilizzato da S. Tommaso nella Summa, come diremo tra breve.

[5]            Cf. U. GALEAZZI, cit., 63.

[6]               TOMMASO, La felicità, Summa Theologiae I – II, q.3, a. 4. Bompiani, 2010.

[7]          U. GALEAZZI, cit., 64 - 65.

[8]          Cf. U. GALEAZZI, cit., 40 -50.

[9]          U. GALEAZZI, cit., 41.

[10]        Ibidem, 42.

[11]        TOMMASO, La felicità, Summa Theologiae I – II, q.4. Bompiani, 2010.

[12]        U. GALEAZZI, cit., 97.

[13]        TOMMASO, Summa Contra gentiles, I, c. 43, citato inU. GALEAZZI, Saggio Introduttivo a Tommaso la Felicità, Bompiani, Milano 2010, 97.

[14]        TOMMASO, La felicità, Summa Theologiae I – II, q.4. a.7, Bompiani, 2010, 344.

[15]        TOMMASO, La felicità, Summa Theologiae I – II, q.5. a.8, Bompiani, 2010, 366.