Sulla Risposta costitutiva
Sulla Risposta costitutiva[1]
L’inizio è già una risposta, non così l’inizio dell’inizio. L’Archè che noi cerchiamo è già prima di ogni nostra autonoma ricerca intorno ad esso: “En archè en ‘o Logos”, dice l’Apostolo.
Ma noi cominciamo sempre dalla nostra risposta all’Appello iniziale e, cominciando da essa, la nostra risposta è, per noi, il nostro inizio. Un inizio così costitutivo che, in un certo senso, determina il nostro stesso orizzonte di ricerca. Ecco perché riteniamo debba chiamarsi: “ La risposta costitutiva”. A quella risposta, che è una scelta fondante, e che è resa possibile in virtù della, libertà che ci è data, noi sempre torniamo. Tanto che si può dire che funge da catalizzatore di ogni nostra possibile domanda, che di fatto è successiva a questa nostra “risposta fondante”.
Prima di continuare bisogna però dire qualcosa intorno ad uno dei miti fondativi della modernità. In genere, da Bruno a Kierkegaard, passando per Hegel, si ritiene che la libertà sia stata posta in essere grazie al peccato di Adamo, grazie a quel “no!” a Dio. Ma l’errore sta proprio qui – e le conseguenze di questo errore sono sotto gli occhi di tutti, ne è appunto un esempio l’irreligione[2] del nostro tempo. La libertà non consiste, infatti, nel dire “no!” a Dio, ma nel dire “sì!” a Dio. Certo, anche il “no!” a Dio presuppone quella stessa libertà che ci consente di dirgli “sì!” – anche se è solo per distruggerla - , ma non è la stessa cosa; le due risposte non sono equivalenti. Il “no!” è la rottura dell’Alleanza, il venir meno del “berith” costitutivo della stessa libertà, il “no!” è, dunque, libertà che si uccide. Il “sì!” a Dio è libertà liberata, libertà che si alimenta, che si rinnova ad ogni ripetuto “sì!”.
All’inizio, dicevamo, c’è l’Appello dell’Altissimo, è l’attimo che precede la nostra prima parola, perché la nostra prima parola è in verità già una risposta, è un “sì!” o un “no!”, e questo sì o questo no determinano la chiusura e l’apertura del nostro essere. Ma c’è sì e sì; c’è il sì che ritorna, che oscilla, che porta dentro di sé sempre il possibile no, è il sì che deve essere rifondato ogni volta, ad ogni istante, il sì che non si regge da solo. E c’è il “sì!” che non ritorna che è stabile, il “sì! Di Dio e quello della Vergine di Sion. In questo caso il “sì!” è stato un sì senza tentennamenti né ripensamenti. Altrove, il sì ha oscillato, da Abramo ai profeti, agli apostoli. La risposta presuppone la domanda, e questa domanda emerge nella nostra storia dal contesto in cui ci troviamo, dalla cultura cui apparteniamo, dagli eventi che ci interrogano. Se questi fatti ci trovano disponibili alla risposta, ecco allora che al domanda ci giunge chiara, attraverso il testimone e poi sempre più chiara attraverso la “stoltezza della predicazione” come dice S. Paolo.
Edith Stein afferma in Essere finito Essere Eterno[3] che “Ciò che penetra nell’intimo è sempre un Appellarsi alla persona. Un appellarsi alla ragione in quanto forza in virtù della quale si sente spiritualmente, cioè si capisce ciò che accade. È un appellarsi al senso, cioè cercare il senso di ciò che ci si avvicina. È appellarsi alla libertà: già la ricerca intellettuale del senso è un atto libero”[4]. Ma la ricerca è già il nostro rispondere ad un appello, a qualcosa che ci precede e ci interroga, il nostro stesso essere nella sua dimensione interrogante è già un rispondere. Questa “risposta costitutiva”, che è un vissuto intenzionale, volendo usare il linguaggio della fenomenologia husserliana, non appartiene solamente al singolo, ma segna di sé ogni epoca, anche se può differire – come di fatto differisce – da epoca ad epoca. Ogni periodo storico ne è investito, ogni epoca della civiltà, soprattutto Occidentale, è posto dinanzi a questo appello e ne risponde delle conseguenze. Augusto Del Noce ha perfettamente colto questo aspetto – senza peraltro tematizzarlo ontologicamente – quando afferma che “l’ateismo si presenta come il momento terminale di un processo di pensiero condizionato da una negazione senza prova della possibilità del soprannaturale”[5]. La civiltà europea degli ultimi quattro secoli – incluso il presente - ha optato per un “no!” all’Appello di Dio, giungendo nei fatti alla piena estromissione del Dio di Israele, Dio di Gesù Cristo, Dio che è Gesù cristo, dal suo orizzonte filosofico – culturale. Ma il rifiuto di Dio è una conseguenza del rifiuto della condizione iniziale dell’uomo quale peccatore. Infatti, continua Del Noce: “non è il rifiuto del peccato che consegue al rifiuto di Dio, ma è vero l’inverso; cioè è il rifiuto del peccato, dello status naturae lapsae, della caduta iniziale di un processo che porta all’ateismo”[6] e questo alla irreligione attuale.Sta di fatto che questo rifiuto è già una risposta all’appello che Dio rivolge all’uomo di rientrare in se stesso per scorgervi la sua miseria, e lì la misericordia di Dio manifestatasi in Cristo Gesù. La storia dell’uomo inizia con un appello da parte di Dio, dunque, che determina sempre una risposta da parte dell’uomo. Dopo aver creato l’uomo, Dio lo pose nel giardino dell’Eden e gli affidò un compito, quello cioè di coltivarlo e di custodirlo, così facendo gli assegna un compito e lo rende partecipe della creazione, e nel fare questo gli dà un comando, lo pone di fronte ad una scelta il cui esito naturale sarebbe stato il “sì!” a Dio aderendo al suo progetto. La parola rivolta è l’appello che invoca quella risposta che costituisce la libertà. La libertà non è una scelta tra il bene ed il male, ma è piena adesione la bene; la libertà è l’apertura alla luce che è Dio, consiste nell’accogliere questa luce: la libertà è il sì a Dio. Ma questa libertà implica responsabilità e obbedienza al comando di Dio. “ il Signore Dio diede questo comando all’uomo: tu potrai mangiare di tutti gli alberi del giardino, ma dell’albero della conoscenza del bene e del male non devi mangiare, perché, quando tu ne mangiassi, certamente moriresti”[7]. La conoscenza del bene e del male, conseguenza del peccato originale è già male. L’uomo era fatto per la sola conoscenza del bene e per compiere il bene conosciuto. Per comprendere meglio questo concetto è necessario comprendere pienamente il significato del termina ebraico corrispondente. “Yadah”, termine usato per indicare appunto la conoscenza non si riferisce solamente alla conoscenza di tipo concettuale, ma alla condivisione della vita fondata sull’accoglienza. “Com’è possibile? Non conosco uomo”[8] e ancora: nello stesso libro della Genesi è scritto: “Allora Adamo conobbe Eva sua moglie la quale concepì e partorì Caino”[9]. Dice infatti la Scrittura: “vehaAdam yadah et Chaivah ‘ishato vetahar veteled Qayin”. All’uomo, dunque, per essere uomo non necessitava la conoscenza del bene e del male, come taluni erroneamente sostengono, ma la conoscenza del bene, che ne implicava l’accoglienza e la condivisione. Invece, la conoscenza del bene e del male ha prodotto l’uomo scisso in se stesso, dilaniato nella sua libertà dall’alternativa tra bene e male: ecco l’uomo decaduto, l’uomo nella condizione di peccato. Nella modernità, epoca che vuol essere post – cristiana, l’uomo ha accolto questa condizione di peccato come sua condizione naturale, contribuendo così all’eclissi di Dio. Va da sé che una cosa è il tentativo iniziato con san Giustino, filosofo del II secolo d. C., di cristianizzare la filosofia greca precedente al cristianesimo, altro è il tentativo, cui si assiste oggi, di cristianizzare il pensiero post – cristiano tout court, poiché quello visse nella ignoranza di Cristo, pur cercandone i segni nelle cose; questo, invece, pur avendone i segni ne nega l’esistenza, mostrando pienamente la sua empietà. Certo, è sempre vero il detto di S. Paolo: “Esaminate tutto e trattenete ciò che è buono”. Ritengo, quindi, dannosi questi tentativi di cristianizzare il pensiero di Nietzsche o di Marx, Freud o di Heidegger; questo ovviamente non significa affatto rifiutarsi di leggerli, anzi!, ma significa sapere che non portano a nulla. Tant’è vero che il pensiero cristiano quando si è confrontato con la filosofia greca ha ritrovato in essa, o in parte di essa, anche “ i semi del Logos”, direbbe san Giustino e li ha fatti suoi.
Quando essa si confrontava con un pensiero che non rifiutava il divino, tranne le filosofie materialiste, che pur parlavano di dei – sia pure indifferenti alle vicende umane – si confrontava all’interno di un orizzonte comunque religioso. Oggi, invece, il pensiero cristiano si trova in un mondo scristianizzato, ma, soprattutto, in questo contesto,m si trova a confrontarsi con un pensiero irreligioso, con un pensiero che pretende e vuole a tutti i costi essere post cristiano, cioè a – cristiano. Questo neo – pelagianesimo ha, dunque, delle caratteristiche completamente diverse da quelle del paganesimo antico. Inoltre, l’Occidente europeo è diventato vittima del suo stesso odio contro se stesso, delle sue radici, della sua storia. Giustamente notava Del Noce che “non può esserci ateismo completo che dopo il cristianesimo… ed è degno di nota che nessuna delle grandi direzioni del pensiero antico conclude nell’ateismo”[10] . ma la ragione parte in falsetto e ritiene quel suo partire in levare come un partire in battere, confondendo così la risposta o, meglio, ciò che è una risposta con l’inizio e pone se stesso come archè. Questo significa che il problema della conoscenza è un problema secondo, il primo vero problema riguarda l’essere. Nota con profonda acutezza Edith Stein che
“Se possiamo considerare predominante il problema dell’essere tanto nel pensiero greco che in quello medievale (…) constatiamo che il pensiero moderno, staccatosi dalla tradizione, è caratterizzato dal fatto d’avere considerato centrale il problema della conoscenza invece che quello dell’essere e d’aver sciolto di nuovo il legame con la fede e la teologia. (…) la filosofia moderna non ha visto più nella verità rivelata un criterio con cui controllare i propri risultati. Essa non è stata più disposta a lasciarsi imporre dei compiti dalla teologia, per poi risolverli con i propri mezzi. Considerò suo dovere non solo limitarsi alla luce naturale, della ragione, ma anche non estendersi oltre il mondo dell’esperienza naturale: essa ha voluto, in ogni senso, essere una scienza autonoma. Ne conseguì che diventò anche, in larga misura, una scienza priva di Dio. (…)
Gli ultimi decenni hanno portato un cambiamento di situazione che si era preparato da varie parti e innanzitutto in campo cattolico. Per comprendere quello che è avvenuto in questo se torre si deve pensare che la filosofia cattolica (…) non s’identificava con la filosofia dei cattolici. La vita spirituale cattolica era diventata sempre più dipendente da quella moderna e aveva perduto il legame con il suo illustre passato”[11].
Ma tutto ciò non determina ancora lo spazio della fede; determina, invece, quello che possiamo chiamare lo spazio della “religiosità naturale”. Per religione naturale possiamo, quindi, intendere quella predisposizione dell’uomo a compiere più o meno il bene, quella tendenza al sacro che attraversa sempre l’esistenza dell’uomo. Ma la ragione è capace di Dio. , apertura non ancora colmata dall’irrompere del divino nella storia di ogni uomo. Tuttavia, questa apertura può chiudersi di nuovo in sé, perdersi o ritrovarsi. La ragione non è autofondante, essa viene dopo. La sua capacità sta nella possibile apertura, in quel sottile crinale che è il “sì!” a Dio, rispetto all’illusione di poter bastare a se stessa. È la rinuncia al mito, anzi, al peccato adamico di poter porre da sé il confine tra bene e male. L’atto di fede è, così, costitutivo del nostro più intimo e profondo essere, ne costituisce lo spazio dell’essere stesso. Questa risposta costitutiva, come opzione fondamentale è il punto zero da cui io mi apro al mondo e, aprendomi, lo intenziono – come hanno ampiamente dimostrato nei loro scritti soprattutto Husserl ma anche Edith Stein[12] - contribuendo anche alla sua costituzione. Ma essa, in quanto esistenziale, comporta un pensiero che la giustifichi e la fondi, pensiero che mi apra al pensiero già dato. Altrimenti, la mia esistenza risulta essere scissa in sé, divisa tra vita e pensiero, che pure si chiamano l’un l’altro. In fondo, cerco sempre un pensiero che giustifichi la mia scelta costitutiva e, trovatolo, lo faccio mio, arricchendolo.
La fede è prima di ogni cosa, in quanto è l’esistenziale di fondo con cui io cerco di determinare l’essere che mi è stato dato. Esso, come già dato, è già una risposta. Perciò l’esistenza non precede l’essere; ma, anzi, nell’uomo non c’è affatto coincidenza tra essenza ed esistenza, in quanto l’essere mi è già dato ed è risvegliato dall’appello con cui Dio mi chiama all’essere e ad essere uomo, cioè me stesso.
Ecco che l’esistenza, che erroneamente si crede prima e costitutiva, è già costituita dall’atto di fede, che è la risposta all’appello, con cui io stesso mi costituisco nel mondo come essere appartenente al mondo della vita. Questa esistenza che sono è spesso conflitto tra vita e coscienza, cioè in essa c’è come una voce che continuamente mi richiama alla radice, voce che posso tacitare vivendo nella falsa coscienza, questa esistenza non chiede una riconciliazione dialettica di tipo hegeliano e post hegeliano, un Aufhebung[13] immaginario, ma una Teshuvah[14], cioè un ritorno alla radice dell’essere, che è appunto la conversione.
Io posso però vivere e orientare tutta la mia esistenza giustificando la scelta costitutiva che mi allontanato dalla mia radice, quella scelta non – scelta che ha fatto di me il dio della mia vita, spezzando la radice e tacitando la voce all’appello. In questo senso io sono come uno dei personaggi di Dostoevskij: lucido e folle, costruttore del mio mondo senza Dio, falso nella presunta e ritrovata innocenza del divenire, come direbbe Nietzsche, giustificando proprio questo nichilismo senza Dio, questa esistenza oltre la cosiddetta morte di Dio. Questa potrebbe essere sia la mia storia, in quanto esistenza singola e sia l’esistenza di un popolo, di una civiltà in quanto scelta collettiva. La storia della modernità, dall’Umanesimo in poi, in fondo è proprio questo cammino oltre Dio, come ha perfettamente dimostrato Augusto Del Noce nei suoi scritti, motivo per cui egli suggerisce di considerare la storia della modernità come storia filosofica della modernità. Il cammino della modernità è, infatti, il cammino verso l’ateismo compiuto o irreligione, che è proprio il carattere costitutivo della nostra civiltà a partire dal secondo Novecento. Questa irreligione è il nichilismo compiuto che presuppone nell’uomo la coincidenza – falsa – tra essenza ed esistenza.
Ma come posso trasformare quello che è un momento secondo – la risposta all’Appello - ovvero l’opzione fondamentale o “risposta costitutiva” come è stata designata in questi scritti, in un momento primo, ovvero nell’atto che ritengo essere fondativi della mia stessa esistenza: il pensiero con cui mi penso e penso?
Se l’essere costitutivo del mio essere è sempre e comunque la risposta ad un appello, tale che solo come risposta ad un appello io pongo in essere il mio essere in quanto essere cosciente del mio stesso essere, deve necessariamente esserci un’altra voce che nel silenzio della prova si pone come pseudo appello, come appello deviante, toccando le intime corde del mio essere. Nella mia libertà – libertà donatami come costitutiva del mio stesso essere - posso anche concepire l’idea che, in fondo, la mia dipendenza dall’Essere eterno, è una forma di non – libertà, che posso infrangere con la mia libertà e nella mia libertà, con un ulteriore atto di fede ontologico e costitutivo. Questo nuovo atto di fede sostituisce all’idea della dipendenza - che mi viene dal dover rispondere ad un appello, il quale viene prima di me, quella della presunta indipendenza per mezzo della quale posso concepire me come l’oltredio[15] che vive nell’assenza di Dio. Alla voce della Verità che interpellandomi mi chiede un “sì!” e che chiedendo la risposta, il sì! mi costituisce, oppongo un effettivo “no!”. Questo atto di non – verità, che è un “no!” mi costituisce in modo illusorio come indipendente, creando di fatto, in me una scissione profonda tra la radice intima del mio essere e l’esistenza che sto costruendo a partire dal mio “no!”. Tanto il “no!” quanto il “sì!” presuppongono la libertà che si esplicita nella risposta, ma nel caso in cui io mi sono posto a partire dal “no!”, cado nell’errore di credere che questo “no!” a Dio sia costitutivo della mia libera umanità e, che anzi, con il “no!” a Dio sia di fatto iniziata la storia dell’uomo. In più, che tale “no!” sia necessario all’emancipazione dell’uomo, in questo senso, erroneamente – a mio modesto parere -, hanno letto ed interpretato il racconto biblico della caduta filosofi del calibro di Bruno, Hegel e Kierkegaard. Niente di più errato, proprio per come siamo andati argomentando la questione. A parte il fatto che questi filosofi non fanno che riproporre idee dell’antico gnosticismo e, pertanto irriducibili al cristianesimo, resta il fatto che l’interpretazione del passo biblico in questione da loro proposta, non coglie affatto l’essenza vera della libertà umana, ma ne copre l’autenticità, spacciando per vera una interpretazione che, puntando all’autosufficienza dell’uomo, è già inscritta essa stessa in quel “no!” iniziale che tenta, adesso, di giustificare razionalmente con il pensiero. Dunque, essa avviene già all’interno di quella opzione fondamentale per il “no!” che caratterizza la modernità, dall’Umanesimo in poi. Un vero umanesimo per essere tale dovrebbe essere Cristocentrico; invece, l’Umanesimo, così come poi si è sviluppato, ha portato alla società opulenta e alla irreligione del nostro tempo. Ma veniamo all’analisi del passo biblico in questione. I primi due capitoli del libro della Genesi sono dedicati al racconto della creazione che termina appunto con la creazione dell’uomo. L’elemento sui cui vogliamo riflettere è il comando da Dio dato all’uomo, comando che rappresenta la prova della libertà dell’uomo. Qual è questo comando? Dice la Scrittura: “Dio ribenedisse e disse loro: siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra; soggiogatela e dominate sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo e su ogni essere vivente che striscia sulla terra. Poi Dio disse: Ecco, io vi do ogni erba che produce seme e che è in tutta la terra e ogni albero in cui è il frutto, che produce seme: saranno vostro cibo”[16]. Nel secondo capitolo, invece, è scritto: “Il Signore diede questo comando all’uomo: tu potrai mangiare di tutti gli alberi del giardino, ma dell’albero della conoscenza del bene e del male non ne devi mangiare, perché quando tu ne mangiassi, certamente moriresti”[17]. Il primo brano chiarisce a quale missione l’uomo è chiamato sulla terra: quella di crescere, moltiplicarsi, soggiogare e dominare sulla terra, ma nell’otica dell’innocenza della quale la misura è l’obbedienza al comando vero e proprio: Non mangiare, perché moriresti! Questa seconda parte chiarifica: 1) che l’uomo è uomo, cioè limite; 2)che contravvenire al comando divino comporta la morte, infatti, “la morte è entrata nel mondo per invidia del diavolo e ne fanno esperienza tutti quelli che gli appartengono”[18] cioè che sono caduti nel peccato, cioè che hanno rotto l’alleanza con Dio. Il peccato genera appunto la morte.
Mi pare a questo punto necessario un approfondimento di questo tema. Nella Summa Teologica[19] S. Tommaso rispondendo alla questione se l’uomo nello stato di innocenza fosse immortale risponde positivamente, spiegando la cosa in questi termini: “Una cosa può essere incorruttibile in forza della sua causa efficiente. E questo è il modo in cui l’uomo sarebbe stato incorruttibile ed immortale nello stato di innocenza… il suo corpo quindi non era indissolubile in forza del suo vigore di immortalità, ma vi era nell’anima una virtù conferita soprannaturalmente da Dio con la quale l’anima poteva preservare il corpo immune da ogni corruzione, finché essa fosse rimasta sottoposta a Dio. E la cosa è ragionevole. Come infatti l’anima trascende i limiti della materia corporea, così era conveniente che le fosse conferita inizialmente, per conservare il corpo, una virtù che trascendeva le capacità naturali della materia corporea”[20]. Un chiarimento per noi di quanto ci viene dicendo il serafico Dottore lo troviamo nella Sacra Scrittura. Nel testo ebraico della Genesi versetto 4 capitolo III leggiamo infatti: “Vayyiomer hanachash ‘el-ha ‘ischah l‘o-mot ttemutun”, il testo greco della LXX traduce così:” kaì eipen o ‘’ophis te gynaikì, oy Thanatoh ‘apothaneiste”, san Girolamo, a sua volta, traduce dall’ebraico:”Dixit autem serpens ad mulierem: Nequaquam morte moriemini”. Possiamo perciò, in base alle lezioni precedenti, tradurre dunque in italiano: “Ma il serpente disse alla donna: certissimamente non morirete di morte”, cioè non sarete colpiti dalla morte. La morte, quindi, da quanto chiarito dall’Aquinate non era ontologicamente costitutiva dell’essenza dell’anima umana, ma è sopraggiunta con la rottura da parte dell’uomo dell’alleanza con Dio. Il passo citato della Bibbia chiarisce anche quando andiamo dicendo circa la risposta costitutiva. Infatti, il comando divino pone in essere la libertà stessa dell’uomo e lo invita a partecipare alla storia umana aderendo liberamente alla sua natura che consiste e si pone in essere pienamente solo nell’assenso alla voce divina. L’uomo è chiamato a diventare uomo nell’esercizio della sua libertà che, ribadiamo, si realizza totalmente solo nell’assenso all’appello, allora inizia la vera storia umana.
Tutto questo, questo perché possa essere compiuto, presuppone il “sì!”, ovvero: l’assenso a Dio e la presa di coscienza della propria creaturalità questo “sì!” viene detto nella libertà e produce una storia di libertà. Ma il primo uomo[21] cade nell’inganno di Satana, e pronuncia il suo “no!” al progetto di Dio. In questo modo non inizia la “storia umana” come erroneamente credono Bruno ed Hegel, ma inizia, semplicemente, un’altra storia, quella dominata dal peccato, nella quale l’uomo si è all’inizio trovato e che, in questa economia ha previsto un’incarnazione di croce del Verbo di Dio.
Un’altra cosa va aggiunta per chiarire meglio la questione, ed è questa: la fede non è un sentimento, ma un atto costitutivo e fondamentale dell’essere umano. E lo è a tal punto che, senza tener conto di che cosa ontologicamente sia l’atto di fede dell’essere uomo, si rischia di non comprendere affatto il “ti estì?” dell’uomo metafisicamente parlando. È questo l’ontologico fondamentale costitutivo della natura dell’esserCi, molto più del parlare, del comprendere e della situazione emotiva stessa, come riteneva invece, in più punti, nei suoi scritti Martin Heidegger[22]; essa poi, non è affatto un caso specifico della situazione emotiva, sempre per rimanere in polemica con il filosofo di Friburgo. Insomma, è questo ciò che sostengo con forza: la fede è un ontologico fondamentale, anzi: l’ontologico fondamentale. E lo è perché la ragione non è, per sua natura e struttura, autosufficiente e fondativa, essa sola, non basta. Il punto iniziale e quello finale del pensare non appartengono al pensiero, inteso logicamente, come discorrere deduttivo, assenso infatti, il punto iniziale e quello finale del pensare determinato dall’assenso o dal diniego all’appello che Dio rivolge ad ogni uomo, anticipando il sorgere del pensare lo interroga, lo agita ne fa cogito “co –agito”, movimento verso la comprensione del senso, o meglio verso la comprensione dell’intelligibile, della sua essenza, appunto per questo il pensiero è un tendere verso, una profonda teleologia. In linguaggio fenomenologico: un intenzionare della coscienza, un tendere della coscienza verso il suo oggetto intenzionato. Il pensiero, per sua intima natura e struttura, presuppone un “atto di fede”, cioè una scelta libera pro o contro la verità, e quindi verso Dio che interpella ed interpellando, in un certo senso, si rivela. Il punto finale, che diviene una conseguenza logica del punto iniziale e del ragionamento stesso, invece, in quanto conclusione, invoca un ulteriore atto di fede del pensante nei confronti del pensato. Ovvero, invoca un “ergo”, un dunque invocato come risposta al pensare interrogante. “Nell’atto libero – suggerisce Joseph de Finance[23] - la volontà si comporta come causa efficiente, l’intelletto (…) come causa formale. Ora la prima si riferisce all’esse (…) la seconda all’essenza. Il primato dell’esse, chiave della metafisica tomista, implica dunque il primato dell’efficienza e quindi della volontà nell’ordine dell’agire. Se è vero che la volontà sceglie perché si trova ‘informata’ in un certo modo dall’intelletto (in quanto il bene proposto dall’intelletto è la forma della sua azione), essa stessa ha voluto questa informazione. E ciò non in virtù di un’informazione antecedente, ma in virtù della pura spontaneità del soggetto”[24] che ontologicamente si fonda sulla risposta costitutiva, su quella apertura all’Appello che è la radice profonda dell’essere umano.
Ma l’inganno sta nella proposta fatta da Satana al primo uomo di conoscere il bene e il male, proposta che si inserisce in questa stessa apertura come tentazione all’aseità, all’autosufficienza senza Dio. L’uomo non è stato creato da Dio per questo, è stato creato, invece, per la conoscenza del bene, perché Dio è il bene ed in Dio non vi è che Bene. Il male si genera nel momento in cui la creatura si ribella al Creatore, ontologicamente parlando, si può dire che il male è l’uscire dal bene ed il chiudersi ad esso e alla sua azione. Dio, che è Creatore, non è minimamente toccato e dal male nella sua natura divina; l’uomo, invece, non è in grado di reggere il male, ne è vinto, stravolto, sradicato da Dio che è il telos stesso, il fine per cui l’uomo è stato creato. L’inganno, quindi, sta nell’aver proposto all’uomo qualcosa che non compete alla sua natura e che non è in grado di reggere. La sfacciata proposta del “diventereste come Dio” di cui parla la Bibbia, sta appunto nell’aver fatto “credere” all’uomo che poteva reggere al peso della conoscenza del male – così come siamo venuti intendendo il concetto di conoscenza – accanto a quella del bene. Ma è proprio questa conoscenza che rende l’uomo decaduto. È iniziata così la storia di peccato dell’uomo, non la storia in quanto storia, come erroneamente hanno creduto Bruno, Kierkegaard ed Hegel, ma una delle storie possibili: quella iniziata con il “no!”.
Va ancora aggiunto – per come si è venuto a sviluppare il discorso sin qui fatto – che a differenza di quanto ritiene Pareyson[25] Dio non si è trovato a scegliere tra il bene ed il male; essendo, infatti, Egli l’essere ed il bene, e non esistendo affatto il male, nemmeno come possibilità dall’eternità. Ribadiamo con forza che il male è una dimensione dell’essere possibile della creatura che nella sua libertà può rifiutare il progetto di Dio. Dall’eternità non esiste altro che Dio e Lui solo, cioè il bene, Dio sceglie se stesso amando il suo stesso se stesso, lui che è l’amore. Il male non è al livello del bene, il bene infatti è dall’eternità. Il male è un atto libero che viene posto in esser nel tempo. Il problema di Pareyson e, secondo noi il suo limite, è consistito nell’aver posto l’essenza della libertà, la sua ontologia, nella scelta stressa e non nel fatto che ogni atto del soggetto essendo radicato nell’Io stesso trova in se stesso la sua ragione profonda.
Volendo concludere con quanto Joseph de Finance andava scrivendo nel lontano 1985, sia pure in relazione ai fondamenti metafisici della libertà, possiamo dire con lui che “Dio ci appare (…) come la Libertà suprema, l’archetipo della libertà. E con ciò, non solo nel suo agire verso la creatura ma nel suo agire ‘interno’, , anzi nel suo essere stesso (identico per altro con il suo agire). Questo può sembrare troppo ardito, o addirittura assurdo. Ma lo è soltanto se mettiamo l’essenza della libertà anzitutto e fondamentalmente nella scelta. È assurdo infatti pensare che Dio avrebbe potuto scegliere il non essere o il non essere Dio”, come del resto in un certo senso ritiene Pareyson, mentre in Sarte troviamo proprio l’assolutizzazione della libertà fatta consisterenella scelta senza presupposti. Ma, continua de Finance “se poniamo l’essenza della libertà nel fatto che l’atto del soggetto ha la sua ragione decisiva nel soggetto stesso, nell’Io, e non nelle determinazioni della sua natura nelle circostanze, o in qualche necessità a priori, allora vediamo che la libertà ha la sua realizzazione perfetta in Dio solo. E vediamo anche che, a quel livello, non si oppone alla necessità: tutt’e due esprimono aspetti complementari dell’Atto assoluto di essere” [26],cioè di Dio.
[1] Anziché chiamarla “opzione fondamentale” , come naturalmente sarebbe venuto dalle riflessioni intorno al pensiero di Del Noce riguardo al fenomeno dell’ateismo e della irreligione, per non incorrere nel fraintendimento con il corrispettivo concetto, trattato in Teologia morale, ritengo che vada usato il termine “risposta fondante” o “costitutiva”; in essa c’è sia il concetto dello “assenso fondamentale” sia quello del “dissenso fondamentale”, cioè del “sì!” o del “no!” all’appello che Dio fa ad ogni uomo sia esso cristiano o non cristiano. Ovviamente esistono delle diversità di responsabilità e di servizio alla verità, ma è chiaro che nella sua vita ogni uomo sceglie se indirizzarsi al bene o al male. Infatti la scrittura è chiara in merito, quando afferma che il Verbo illumina ogni uomo che viene nel mondo, ma le tenebre non l’hanno accolta. Sorge il problema che se uno, pur essendosi volto al bene, o a quello che crede essere il bene – perché il bene vero che è Dio non gli è stato ancora rivelato - si trova poi, di fatto, nella condizione di combattere contro il Bene, credendo di compiere il Bene. È esemplare in tal senso iil caso di Saulo quando, credendo di lottare per Dio, di fatto lottava contro di Lui quando perseguitava i cristiani. Comunque sia, esiste questo momento nella vita di ognuno,; esso è la risposta ad un Appello e poiché è una libera risposta, costituisce l’uomo libero nella sua essenza, e perciò in grado di decidere, ponendolo così nella storia. All’Appello dell’Altissimo l’uomo risponde e per mezzo di questa “risposta costitutiva” determina il proprio essere e le scelte conseguenti. Va da sé che in qualunque momento è possibile determinare in modo diverso – anche se con profondi sforzi – la propria scelta costitutiva – ovvero la risposta fondante - e in tal modo orientare diversamente la propria vita, verso il bene o viceversa verso il male.
[2] Con il termine irreligione, coniato da Augusto Del Noce nel suo saggio Appunti sulla irreligione occidentale, si intende il fenomeno dell’agnosticismo di massa, caratteristico dei nostri tempi. Si tratta del disinteresse alla questione di Dio. Tale irreligione, tratto caratteristico della civiltà della tecnica, differisce profondamente dall’ateismo del primo Novecento, i cui tratti fondamentali consistevano nella sostituzione dell’ideologia alla religione, e nello scontro frontale con il cristianesimo.
[3] Edith Stein, Essere finito Essere Eterno, Città Nuova, Roma 1999. D’ora in poi: EfEE.
[4] Edith Stein, EfEE, p. 453.
[5] Augusto del Noce, Il problema dell’ateismo, Il Mulino, Bologna, 1964, pp. 355 -356. d’ora in poi: PdA.
[6] Augusto Del Noce, PdA, p. 366.
[7] Gen 2,16s.
[8] Lc 1, 34.
[9] Gen 4,1
[10] Augusto Del Noce, PdA, p. 347 347.
[11] Edith Stein, Essere finito essere eterno, Città nuova, Roma,1999. pp. 41- 42.
[12] Cfr. Edmund Husserl, Ideen zu einer reinen Phanomenologie und phanomenologischen Philosophie, tr. It. Idee per una fenomenologia pura e una filosofia fenomenologica Einaudi, Torino, 1965, ed. 2002.
Edith Stein, Einfhurug in die philosophie, tr. It Introduzione alla filosofia, Città Nuova, Roma, 1991, ed 2001. In modo particolare vanno tenute presenti le differenze di metodo tra Husserl e La Stein che portarono quest’ultima, assieme ai discepoli di Gottinga, ad allontanarsi dagli esiti sempre più idealistici della fenomenologia husserliana, per tendere “verso le cose stesse”, secondo lo stesso motto husserliano, che la Stein trovò nel ritorno alla filosofia di san Tommaso.
[13] Con il termine Aufhebung (che letteralmente significa sia “togliere” e sia “conservare”) Hegel intende il compimento del processo dialettico, qui gli opposti sono conservati e conciliati nella loro opposizione. Questo concetto hegeliano si rifà appunto, alla coincidenza degli opposti di Eraclito, ripresa poi da Bruno, e intesa non solo come processo logico, ma anche processo stesso della realtà secondo l’antica concezione eraclitea.
[14] Termine ebraico che può essere reso con il greco metanoia e con l’italiano conversione questo termine significa appunto il cammino di ritorno dell’uomo, del popolo eletto, al suo Dio in seguito alla chiamata che Dio stesso fa attraverso i profeti, gli apostoli etc..
[15] Con questo termine intendo l’esistenza che si caratterizza oltre il concetto nietzschiano della morte di Dio. Nietzsche utilizza il termine Ubermensch che significa superuomo, o oltreuomo coma taluni traducono. In effetti non credo si possa utilizzare tale termine nietzschiano, in quanto lo Ubermensch è fedele alla terra, l’uomo della tecnica, invece, è fedele solo a se stesso. Ho preferito, perciò, forzare la lingua italiana coniando – se me lo si concede – questo termine per sottolineare l’intenzione dell’uomo dell’epoca della irreligione di voler vivere come suo stesso dio, architettando la sua esistenza come se si trovasse nel Centro Commerciale delle idee e dei modelli, unico e divertito artefice di sé.
[16] (Gen 1,28s)
[17] (Gen 2,16s)
[18] (Sap 2,24.)
[19] S. Tommaso d’Aquino, Summa Theologica, ESD, Bologna, 1996.
[20] S. Tommaso d’Aquino, Summa Theologica, Q. 97, art 1.
[21] Adamo ed Eva, poiché Adam è l’unione di maschio e femmina; il femminile in ebraico di Adam è Adamah, cioè la terra di cui Adam è fatto. A conferma di quanto detto si legga Gen 1,27
[22] Cfr. Martin Heidegger, Sein und Zeit, tr. It Essere e tempo, a cura di P. Chiodi….
[23] Joseph de Finance, I fondamenti metafisici della libertà, in “Per la Filosofia”, anno II, n° 5, Settembre – Dicembre, 1985, Massimo, Milano, 1985, pp2 – 9. D’ora in poi: FMdL. De Finance è stato docente di Metafisica presso la Pontificia Università Gregoriana di Roma.
[24] Joseph de Finance, FMdL, p. 9.
[25] Luigi Pareyson, Ontologia della libertà, Einaudi, Torino, 1995. cfr. Parte II cap. III, pp. 235 – 292.
[26] Joseph de Finance, FMdL. p. 8.