COMMENTO AL CANTO XV DELL’INFERNO

 

Dirò subito che il commento al Canto avrà decisamente un taglio più filosofico che letterario. Di ciò chiedo venia ai colleghi di lettere e soprattutto mi perdonerà il Sommo poeta Dante.

Per far comprendere l’impostazione metodologica che darò alla lettura del canto voglio raccontare un aneddoto contenuto nel Midrash. La parola midrash viene dalla radice ebraica darash che significa ricerca, ed è praticamente la raccolta delle interpretazioni non legali, sia allegoriche sia morali ai primi cinque libri della Bibbia, il pentateuco che in ebraico viene chiamato appunto Torah, la legge. È insomma, questa del midrash una sorta di teologia narrativa.

Ebbene, qui si dice che un giorno Mosè ottiene da Dio il permesso di tornare sulla terra per vedere cosa ne fosse dello studio della Legge. Tornato in Terra di Israele entrò in una Sinagoga nel giorno di sabato, quando vi è appunto la lettura liturgica ed il commento alla Torah, e si sedette ad ascoltare il rabbino che commentava la parashah, cioè il passo del pentateuco appena letto. Si narra che alla fine del commento alzatosi per uscire abbia detto al Rabbi: “Ma tutte queste cose io non le ho dette!”. I rabbini aggiungono:” Eppure sono tutte contenute già nella tua Torah”. Tutto ciò per dire che, pur nel rispetto della verità del testo e del suo senso letterale, ogni opera d’arte contiene un nucleo di verità che si manifesta dispiegandosi nel tempo, all’interno di quella storia delle interpretazioni che forma la tradizione, e dentro la quale noi sempre ci troviamo. In fondo, questo intendeva il filosofo tedesco Hans Georg Gadamer quando in Wharheit und Method, cioè in Verità e Metodo introducendo il concetto della Wirkungsgeschichte, cioè della “storia degli effetti” diceva: “La coscienza storica deve prendere consapevolezza del fatto che nella pretesa immediatezza con la quale essa si mette davanti all’opera o al dato storico, agisce anche sempre, sebbene inconsapevolmente e quindi non controllata questa tritura della storia degli effetti” (p. 624) …

Ci perdonerà quindi il sommo poeta se passando da queste parti con l’intento, come Mosè, di sapere cosa ne sia della sua “Commedia”, dovesse sobbalzare dalla sedia e dire: “Ma io tutte queste cose non le ho dette!”. Con l’impertinenza del discepolo, incantato dalla grandezza della sua opera gli risponderemmo:

ma per trattar del ben ch’i vi trovai / dirò de l’altre cose c’i v’ho scorte”.

 

Al canto, dunque.

 

Ebbene ci troviamo nel terzo girone, settimo cerchio; qui vengono puniti i violenti contro natura, ovvero i sodomiti. La scena si apre con Dante e Virgilio che seguono uno dei margini del Flegetonte, questo fiume di sangue ribollente da cui si leva un vapore di fuoco simile a nebbia che fa ombra e con il suo fitto velo ricopre gli argini e il ruscello salvandoli dalla pioggia di fuoco. E qui Dante paragona questo strano, ma fortuito fenomeno, alle dighe alzate dai fiamminghi tra Wissant, o Guissant e la città di Bruges per difendersi dal “fiotto”, ovvero: dall’alta marea dell’oceano. Oppure, ai padovani che lungo la Brenta fanno lo stesso per difendere le loro ville e i loro castelli, prima che la Carentana, cioè la Carinzia senta il caldo e faccia sciogliere le nevi. Allontanatisi dalla selva tanto da non riuscire più a vedere il punto nel quale ci trova, Dante incontra una schiera di dannati che si avvicinano lungo l’argine del fiume infuocato. Ciascuna di queste anime ci guarda senza vederci, come si è soliti guardare un altro quando c’è la luna nuova, ovvero in una notte senza luna.  E questi aguzzano la loro vista verso di noi come fa il vecchio sarto quando vuole infilare il filo nella cruna dell’ago. Così adocchiato fui – dice Dante - conosciuto da uno che mi prese per il lembo della veste e gridò: “qual meraviglia!”. Quando distese il braccio verso di me, piantai gli occhi nel suo cotto aspetto al punto di riconoscerlo e dire: “Siete voi qui, ser Brunetto?”.

 

  Il protagonista del canto è dunque, Brunetto Latini, anzi, ser Brunetto Latini. E chi è questo Brunetto Latini, e cosa ci fa qui? Brunetto, figlio di Bonaccorso, è nato a Firenze vero il 1220 e morto nel 1293 sempre a Firenze. Fu notaio, letterato e cancelliere della Repubblica. Rogò atti importanti, come per esempio quello del 1254 che stabiliva una convenzione tra il Comune di Firenze e i guelfi di Arezzo; un atto scritto di suo pugno nel settembre del 1263 si trova poi nell’Archivio segreto del Vaticano. Nel 1260, fu inviato ad Alfonso di Castiglia dai guelfi di Firenze per chiedere aiuto contro Manfredi re di Sicilia. Dopo la battaglia di Montaperti, vinta dai ghibellini, esulò in Francia, qui tradusse la Retorica di Cicerone. Inoltre, scrisse in francese la sua opera principale il Tresòr e in volgare il Tesoretto, un poema allegorico e didattico in 2240 versi. Nel 1266, vinti i ghibellini nella battaglia di Benvenuto, Brunetto rientrò a Firenze. Qui ottenne fama e gloria, fu maestro di un’intera generazione. Villani nelle sue Cronache (VIII; 10) lo definì: “digrossatore dei fiorentini in farli scorti in ben parlare ed in sapere guidare e reggere la Repubblica secondo politica”. Vicario di re Carlo d’Angiò; a detta del Boccaccio fu maestro di Dante in filosofia naturale, secondo altri in retorica. Brunetto Latini fu posto da Dante nel De Vulgari Eloquentia (I, III, 1) alla stessa stregua di Guittone d’Arezzo, Bonagiunta, Gallo da Pisa, dei quali dice: “famosos viros… quorum dicta si rimari vacaverit, non curalia, sed municipalia tantum inveneintur”, ovvero: “Uomini famosi, le cui rime, se si avrà agio di esaminarle con attenzione, si troveranno non curiali, ma municipali”, cioè che non oltrepassano i confini della città per rinomanza. Insomma, per quanto riguarda la poesia Dante ha ben poco da apprendere da lui; per la politica, invece, molto ed egli stesso lo riconosce, quando al verso 82 e seguenti dice:

“che ‘n la mente m’è fitta, e or m’accora/ la cara e buona immagine paterna / di voi quando nel mondo ad ora ad ora / m’insegnavate come l’uomo s‘etterna: e quanto io l’abbia in grado, mentr’io vivo/ convien che ne la lingua si scerna”.

Che nella mente e ora mi accora la buona e cara vostra immagine paterna di quando mi insegnavate come l’uomo si eterna. E quanto io l’abbia in gratitudine, finché vivo, i deve riconoscere chiaramente dalle mie parole.

Ora, ci chiediamo, se Brunetto Latini condanna esplicitamente sia nel Tresòr che nel Tesoretto, la sodomia, qui dice, infatti: “Ma tra questi peccati – son vie condannati – Que’ che son sodomiti. – Deh come son periti – Que’ che contra natura – Brigan cotal lussuria”. Ebbene, cosa ci fa nel girone dei sodomiti?  Pochi critici ritengono per valida la tesi della ipocrisia del notaro fiorentino; altri, invece, come il Pezàrd, alle cui tesi ci sentiamo vicini, ritengono che il peccato contro natura di Brunetto Latini sia di ben altra natura. Di ciò ne sarebbe conferma quel “lerci” del verso 108,     

“d’un peccato medesimo al mondo lerci”,

usato da Brunetto Latini per definire i sodomiti, con i quali pur divide la pena.

Questa persa di distanza è sottolineata dal termine “masnada” utilizzato al verso 41, per indicare il gruppo di anime sodomite di cui all’inferno fa parte.  Per inciso, il termine militaresco di masnada qui non è usato in senso dispregiativo, ma esprime in un certo senso l’appartenenza ad un gruppo, sia pure con lo “iato ontologico” che abbiamo appena riscontrato e che andiamo ad argomentare. Del resto, se la menzogna fosse stata il suo peccato, ben altro luogo dell’inferno avrebbe dovuto accoglierlo.  Diciamo subito che per la comprensione profonda del canto la questione in sé è alquanto marginale e a tutt’oggi dibattuta tra i critici.

Va comunque notato che Fazio degli Uberti riferendosi all’inondazione di Firenze del 1333 aveva paragonato la città a Sodoma e Gomorra, dicendo che nemmeno qui si era trovato un solo giusto da impedire il castigo divino. Lo storico inglese Davidson, poi, nella sua monumentale Storia di Firenze osserva che “in nessun paese come in Italia, la pederastia veniva praticata in tale misura da laici ed ecclesiastici, e nell’Italia stessa Firenze aveva la palma, cosicché in Germania si dicevano “florenzer” i pederasti, ed il loro vizio “florenzen”, vale a dire “fiorenzare”.

 Per quanto ci riguarda, però, il vero peccato di Brunetto Latini non è un peccato contro natura nel significato letterale del termine. Alcuni sostengono, il Mari per tutti, che questo peccato sia consistito nella scelta del francese per il Tresòr e quindi sia stato un peccato contro le arti liberali, contro la sua lingua madre, contro la sua stessa natura umana, insomma. Questa tesi però ci pare un po’ forzata, in quanto ci sembra veramente poco per meritare questo tipo di pena.

E, allora?

A trovare il bandolo della matassa ci possono aiutare i seguenti versi del canto nei quali Brunetto Latini si rivolge a Dante non appena l’ha riconosciuto: “Qual fortuna o destino anzi l’ultimo dì qua giù ti mena” (vv. 46 – 7). Un uomo di cultura e di fede non avrebbe usato il termine fortuna, che sta per “il caso”; ma, senza dubbio, avrebbe indicato in destino, che sta per “grazia”, il motivo vero del viaggio così particolare di Dante. Si tenga poi conto del valore e del significato che il termine “fortuna” acquisirà da lì a qualche secolo nella teoria politica di un altro illustre, questa volta Segretario fiorentino, il Machiavelli, appunto; e ci si farà un’idea dell’orizzonte di significato all’interno del quale ci stiamo muovendo. Come non confrontare, allora, quanto dice qui Brunetto Latini con quanto dice Sallustio proprio all’inizio del suo Bellum Iugurtinum?

Falso queritur de natura sua genus umanum, quod imbecilla atque aevi brevis forte potius quam virtute regatur

Cioè: “Falsamente della propria natura si duole il genere umano, perché è debole e di breve durata, retta più dal caso che dal valore”.

Ancora, ai versi 55 – 60, Brunetto Latini aggiunge:

“Se tu seguirai la tua stella, / non puoi fallire a glorioso porto / se ben m’accorsi nella vita bella; / e s’io non fossi sì per tempo morto, veggendo il cielo a te così benigno, / dato t’avrei a l’opera conforto”.

Qui il notaro fiorentino si riferisce in particolare alla cosiddetta discesa in campo nell’agone politico di Dante avvenuta nel 1294, esattamente l’anno successivo alla morte del suo maestro di politica, non certo di poesia, e manco a farlo apposta nello stesso anno della ascesa al soglio pontificio di Bonifacio VIII. Pare che Brunetto dica a Dante “se seguirai la tua stella – per Il Bosco la stella è da intendersi solamente nel senso della guida nautica, mentre per gli altri, il Torraca in primis, vale come metafora astrologica -  se non devierai dal tuo cammino – dunque - se terrai il timone della tua vita dritto verso la meta che ti sei prefisso non potrai mancarla”. A sentir Brunetto Latini con più attenzione, come non udire nelle sue parole ancora e vieppiù l’eco delle parole di Sallustio:

Si hominibus bonarum rerum tanta cura esset quanto studio aliena ac nihil profutura multoque etiam pericolosa (ac perniciosa) petunt, neque regerentur magis quam regerent casus et eo magnitudinis procederunt ubi pro mortalibus gloria aeterni fierent”

E cioè: “se gli uomini dedicassero al bene l’impegno che mettono nella ricerca di cose disdicevoli, inutili e anche dannose, anziché trovarsi in balia del caso sarebbero loro a dominarli; e raggiungerebbero tale eccellenza da diventare per la loro gloria, da mortali a immortali”.

Vogliamo dire con ciò che l’orizzonte di Brunetto Latini non è per nulla un orizzonte cristianizzato; egli rimane nel mondo sì virtuoso, ma pagano dell’antichità.  Se tralasciamo, per il momento, l’invettiva contro Firenze e la profezia su Dante che riprenderemo poi, un’altra conferma di quanto andiamo dicendo la troviamo verso la fine del canto ai versi 119 – 120, dove il notaio fiorentino quasi implora il Poeta nel dirgli:

 

“Sieti raccomandato il mio Tesoro, nel qual io vivo ancora / e più non cheggio”.

 

Molto più vicino al moderno Machiavelli che al modernissimo Dante– diciamo noi con un paradosso; perché un Autore che vive solo della sua opera, per essa ed in essa, rimane prigioniero di una visione orizzontale dell’esistenza.

Insomma, il peccato contro natura di Brunetto Latini sarebbe, secondo la tesi del Casella, che facciamo nostra, il non aver compreso che “la dirittura morale e l’onestà civile, il ben fare politico e sociale, non possono essere e farsi norma stabile della condotta umana, quando non siano illuminati dalla coscienza del loro vero fine ultimo, Dio”.

La sapienza fine a se stessa, quella stessa sapienza che Aristotele nell’Etica nicomachea aveva definito come unione di scienza ed intelligenza (dove per scienza si intende il retto ragionare e per intelligenza la conoscenza dei principi primi), e l’aveva posta al vertice delle virtù dianoetiche, ovvero di quelle virtù superiori; ebbene, questa sapienza diviene insipiente quando esclude Dio.

E il paradosso per Dante sta nel fatto che mentre Brunetto Latini osannato in terra sta all’inferno, lui odiato in terra per quello stesso “ben far”, forse illuminato dalla fede, si trova in esilio, soffrendo. In verità, le virtù fini a se stesse, non possono raccogliere che ingratitudini, com’è dimostrato da Dante stesso ai versi 61 – 64 nei quali si manifesta l’ingratitudine dei fiorentini per il” ben far” di Dante:

Ma quello ingrato popolo maligno / che discese da Fiesole ab Antico / e tiene ancor del monte e del macigno, / ti si farà, per tuo ben far, nimico;”

Ed ancora continuando, / ed è ragion ché tra lazzi orbi /si disconvien fruttare al dolce fico. / Vecchia fama nel mondo li chiama orbi; / gent’è avara invidiosa e superba:/ dai lor costumi fa che tu ti forbi. ”.

 

Prima di analizzare l’aspetto che ritengo attuale e, perciò, centrale del canto, vorrei dire alcune cose su questa profezia che Brunetto Latini fa a Dante circa l’ingratitudine dei fiorentini nei suoi confronti. Troviamo eco di questi versi nella VI epistola  scritta da Dante il 31 marzo del 1311, anno della discesa di Arrigo VII in Italia. Qui Dante dice tra l’altro, ai suoi concittadini, cui è indirizzata l’epistola:

 

“Vos autem divina iura et humana trasgredientes, quos dira  cupiditatis ingluvies paratos in omne nefas illexit nonne terror secundae mortis exagitat?;

voi trasgressori delle leggi divine e di quelle umane, che le funeste fauci vi lusingarono ad apprestarvi ad ogni iniquità, non vi perseguita il terrore della seconda morte?, ovvero della dannazione.

 

An ignoratis, amentes et discoli, pubblica iura cum sola temporis terminatione finiri, et nullius presriptionis calculo fare obnoxia?

O forse ignorate, dementi e dissennati, che il diritto pubblico avrà fine soltanto quando sarà finito il tempo, e no può essere soggetto a nessuna eventualità di prescrizione?

 

Nel canto legiamo:

 

faccian le bestie fiesolane strame di lor medesime, e non tocchin la pianta, s’aduna surge ancora in lor letame,  in cui riviva la semente santa / di que’ roman che vi rimaser quando / fu fatto il nido di malizia tanta”.

E nella VI epistola troviamo:

“O miserrima Fesolanorum propago, et iterum iam punita barbaries! An parum timoris prelibata incutiunt?”

O miserabile discendenza dei Fiesoilani, o barbarie punita già per la seconda volta! Forse  quel che avete pregustato v’incute troppo poco timore?

Per inciso: Dante ritiene che i fiorentini discendano in parte dai coloni Romani che avevano fondato Florentia, e in una parte assai più cospicua dai supersiti dell’antica Fiesole, che i romani stessi avevano distrutto perché i fiesolani nel 63 a. C.  avevano appoggiato Lucio Sergio Catilina nella sua famosa congiura.

 

Ritornando al tema che si discuteva, possiamo aggiungere che Brunetto Latini è il teorico di una religio delle virtù cosiddette naturali, fondate proprio sul “ben far” e basta! Ed è per questo motivo che Dante lo pone all’Inferno come un violento contro natura, perché distogliendo l’agire umano dalla sua meta, la visio beatifica di Dio, violenta la natura umana che consiste nell’essere creatura: questo è il vero peccato contro natura  di Brunetto Latini. Dunque, non la sodomia, ma l’aver distolto la politica e la conoscenza umana dal loro telos. Ecco perché i suoi compagni di sventura 

“tutti fur cherci e letterati grandi e di gran fama, d’un peccato medesimo al mondo lerci”

Dirà ai versi 106 – 108.

Quella di Brunetto Latini potremmo definirla una sorta di “sodomia dello spirito”, volendo allargare l’area semantica del concetto di “lussuria dello spirito” coniato da San Giovanni della croce per descrivere alcuni impedimenti dell’anima alla unio mystica con Dio.

 

 In questo senso, il canto che stiamo analizzando diviene il canto della modernità, di una situazione culturale di cui l’Europa oggi è emblema nel male e che sia Giovanni Paolo II che Benedetto XVI hanno più volte sottolineato. Il canto XV dell’inferno, insomma, a nostro modesto parere, assume un valore ed una portata filosofica indiscutibili; questo canto è cioè una vera e propria “cifra” della modernità, tanto che si può tranquillamente dire che se i canti VI dell’inferno, VI del purgatorio e VI del paradiso sono i canti politici della Divina Commedia, il canto XV dell’inferno potrebbe essere definito il canto della “filosofia politica”.  Tutto ciò perché qui Dante evidenzia il senso e la missione vera della politica, ma anche della scienza.

 

Non c’è dubbio, infatti, che il fenomeno caratterizzante il nostro tempo è l’ateismo, ma di una forma e di una specificità completamente diversa rispetto all’ateismo ottocentesco. Difatti, quest’ultimo che pur combatteva il cristianesimo ne conservava, ateizzata, la struttura, e puntava a sostituirsi ad esso, dando così l’illusione a parte della Chiesa di una certa conciliabilità con queste “religioni secolari” quali sono state appunto il comunismo, il nazismo ed in parte il fascismo. Si può tranquillamente definire l’ateismo del nostro tempo con il termine, coniato dal filosofo Augusto Del Noce, di “irreligione occidentale”. Tale fenomeno riguarda in modo particolare l’Europa, ma non tanto le Americhe, nelle cui Costituzioni non mi pare siano esplicitamente negate le origini cristiane. Come ha evidenziato Joseph Ratzinger nell’enciclica Spe Salvi: “L’’uomo attendeva la redenzione dalla fede in Gesù Cristo, ma oggi questa redenzione, la restaurazione del paradiso perduto, non si attende più dalla fede, ma dal collegamento (…) tra scienza e prassi” (S.S. 17), sia questa la scienza della natura o la scienza dell’economia. Il mondo orizzontale, è un mondo che in un certo senso ha perso la verticalizzazione delle cattedrali gotiche, è il mondo a due dimensioni: “godimento” e “ solo qui”. È il mondo nella peggiore delle ipotesi del “vivemus et amamus mea Lesbia”, o del “Chi vuol essere lieto sia, del doman non v’è certezza” e, nella migliore delle ipotesi, un mondo eticamente impegnato, ma di un’etica senza Dio, atea e centrata solo sul “ben Far”, sia pure aperta alla responsabilità del domani, secondo quell’imperativo etico che Hans Jonas ha individuato nel “principio di responsabilità”. Insomma, è il mondo di Brunetto Latini,  dal quale, per un errore di prospettiva, Dante sembrerebbe l’antico, e invece è lui il vero moderno; anzi, il futurista.

La modernità di cui Brunetto Latini è emblema, la modernità che vuol essere post – cristiana, la modernità neo –illuminista, costruitasi su di un opinabile modello di ragione che a- priori esclude la fede perché la ritiene inutile per costruire un mondo  a dimensione umana, ebbene questa modernità genera un mondo che come ogni altro mondo si basa su di una “opzione fondamentale” che precede ogni visione stessa del mondo e ogni possibile progetto. Ben a ragione Augusto Del Noce affermava con occhio aquilino già nel 1963: “ non è il rifiuto del peccato che consegue al rifiuto di dio, ma è vero l’inverso; cioè è il rifiuto del peccato, dello status naturae lapsae della caduta iniziale, l’inizio di un processo che porta all’ateismo” (PdA, p. 368). Dunque l’opzione fondamentale  della modernità è il rifiuto pre – razionale del peccato come condizione originale dell’uomo,  con il conseguente il rifiuto dell’azione salvifica di Gesù Cristo. In fondo, è la risposta anassimandrea o rousseauiana alla presa di coscienza del male, all’esperienza del male e delle ingiustizie che la modernità sceglie in partenza, anziché  la risposta biblica, giudeo – cristiana  del male come rottura dell’alleanza con Dio.

Il frammento di Anassimandro che tutti abbiamo imparato a conoscere sui banchi del Liceo affermava infatti:

“Da dove gli esseri hanno origine, lì hanno anche la dissoluzione secondo necessità: essi pagano, infatti a vicenda la pena ed il riscatto dell’ingiustizia secondo l’ordine del tempo”:

Ovvero il male è nell’ordine delle cose;

Non a caso il filosofo tedesco Martin Heidegger nei suoi Sentieri interrotti riprende il detto Anassimandro, rilevandone tutta la sua portata ontologica per la modernità, e lo fa sulla scorta di quanto già Nietzsche aveva fatto in un’altra opera giovanile La filosofia nell’età tragica dei greci.

Oppure, per qualche nostalgico romantico, il male viene ancora attribuito, sulla scorta di Rousseau, alla società, per cui con il “ben far” della politica,  si può ovviare a questo male che, secondo questa visione del mondo, solo nella società risiede.

Dunque, il razionalismo ateo non è nient’altro che l’assunzione, in base all’iniziale suo rifiuto del peccato di Adamo, della condizione attuale dell’uomo a sua condizione normale. Se così stanno le cose, il finito, l’individuo, non è più l’irripetibile immagine di Dio, e per questo pieno di valore in sé; ma, pura e semplice negatività che deve essere assorbita nel tutto. Infatti, se assumiamo la realtà decaduta dell’uomo come sua norma, il destino di morte diviene condizione normale dell’essere finito, e la sua salvezza può venire solo dalla sua dialettica dissoluzione nell’Assoluto, sia esso lo Stato, il partito, la comunità perfetta instaurata dalla rivoluzione; oppure, dalla distruzione del principium individuations nello spirito orgiastico del dionisiaco.

Non è questo il luogo per discutere del complesso rapporto tra cristianesimo e sviluppo della tecnica, ma bisogna sottolineare che proprio lo sviluppo della tecnica ha contribuito alla disoggettivazione dell’uomo e alla sua riduzione assieme al mondo ad oggetto; in un processo di crescente oggettivazione il creato diviene materia,  puro oggetto che serve come materiale alle procedure della tecnica, e che contribuisce a nient’altro che al suo accrescimento. L’incremento della tecnica genera l’incremento della spersonalizzazione. Nella visione della tecnica l’uomo appare come l’unico centro pianificatore del mondo, dio egli stesso e solo artefice del proprio destino. È questa la promessa che la tecnica fa all’uomo: “diventereste come Dio”.

Il male diviene un dato sociale che il “ben fare” della politica può risolvere senza perciò mettere in gioco Dio: etsi Dues non daretur, come se Dio non ci fosse: ecco la modernità.

Tutte le visioni del mondo che possiamo elaborare o che sono state già elaborate, insomma, si formano in relazione ad una iniziale risposta al problema del peccato originale: questa è la vera opzione fondamentale.

Il completo ateismo del nostro tempo, e più ancora la sua irreligione (intesa come agnostico disinteresse per la trascendenza) quindi, non sta più nella risposta atea al problema di Dio, ma nella soppressione del problema di Dio.  E ogni opzione fondamentale contiene comunque una risposta al monito a priori  evangelico di Cristo: “Chi  con me è contro di me”.