Deuteros

 

Di queste cose ne me vado meco

ragionando e dico che questo mondo

è cosa, se nient'altro che l'eco

dell'imbrunire quasi moribondo

dell'ennesimo giorno di metallo

d'un aprile caustico, tremebondo,

che solo si asciuga al corallo

del tramonto e che quando l’ovatta

il silenzio pare quasi lo stallo

o 'l respiro della notte che s'acquatta

e che ti invoca giù dalla balza

o il bollettino della disfatta. 

Intanto, già la presa ti incalza

del giorno dietro l'angolo, la furia

della macchina, Molok che s'alza

coi suoi piedi di argilla, spuria

divinità di codesta Babele

che ogni cosa lascia nell'incuria. 

Per tutto questo ti diviene fiele

persino la mappa dell'Eldorado

e il ricordo di un bacio miele

nell'artico. Di queste cose vado

e d'altre ancora rimuginando

perché, certo, io sempre ci ricado

quando credo di trovare il bando

dietro ogni fenomeno o l'essere.

Resto comunque sempre un Rolando

con in mano la spada e le tessere

del mosaico, a far da architrave

e pietra angolare al malessere. 

Da ‘sta chiglia capovolta di nave

con la volta del cielo per fondale

e le stelle quali gusci di cave

perle la rete getto come a strale

fino a quell'azimut che solo

conserva nelle recondite sale

il distillato puro d'ogni volo

e dall'anima pesco un ricordo,

uno soltanto, che privo di dolo

barluccica laggiù, proprio nel fiordo

del cuore dove il tarlo s'annida

quando il dolore si fa più sordo.

Perché cosa rimane di questa sfida

da Don Chisciotte al destino

oltre il sogno di re Mida

o l'ordine amaro del latino

che grida, “Delenda Chartago”?

Sulla costa non resta che il corvino

delle mura bruciate perché pago

sempre sia Ares di tutto il sangue;

ma il desco ch'è orbo e vago,

di questo e d'altro ancora esangue,

riannoda sempre ogni cosa agli avi,

nel conteggio di tutto ciò che langue.

S'appresa l'uscita di scena dei savi

sette di Grecia e questi giorni tutti

uguali corrono come gl'ignavi

nell'inferno di Dante, lerci e brutti,

impastati di fango, senza meta,

alberi secchi senza più i frutti.

eppure un giorno lontano, a Meta

e Amalfi apre il corto sogno,

s'aggancia all'ultimo di Gaeta

quando la montagna spaccata scalogno

e pino offriva a mare e vento

e ‘l giorno come addio tutto insogno

si contorceva in attesa ‘ntento

all'alba che ogni cosa consuma.

Già, ma che dire dello stento

acerbo della prole? E la Duma

convoca per la quadratura,

dal camino bianca sia la fuma.