Dell'uomo e del suo destino
La questione antropologica, cosa sia l'umano, quale sia la sua essenza e se questa essenza dipenda solamente dalla volontà di potenza dell'uomo, ovvero dipenda dall'uomo dire cosa debba essere umano e cosa no, non è una questione meramente antropologica, cioè che riguarda semplicemente quella scienza il cui oggetto è l'uomo. La questione è, invece, strettamente filosofica, nel significato più pieno e originario del termine. Non si tratterà, quindi, di definire l'umano o di descriverne semplicemente la vita fattiva – come si è soliti dire – ma il coglierne il “che cos'è?”
già la scelta di questa via risponde ad una precedente questione filosofica: “che cosa significa pensare?” e di come, questo pensare, sia stato pensato nella storia della filosofia. Solo rispondendo a questa domanda si può porre la questione che cos'è l'uomo. Entra in giocola previa e annosa questione: “è l'essenza che precede l'esistenza o è, invece, l'esistenza che precede l'essenza?” e, in base a cosa si decide? Forse, per mezzo di un atto teoretico della volontà? E, ancora, si deve parlare di esistenza o di esistente? E, inoltre, si può parlare di via errata ed errante e sviata della questione del senso dell'umano? Ma questa questione, se errante, in che modo si è affermata? Ovvero, in base a quale criterio viene scelta come via di comprensione e di definizione del senso dell'umano? Tutto ciò ci riconduce a porre il senso della storia della filosofia. Del resto, solamente nella “modernità avanzata”, termine questo con il quale intendiamo il fenomeno del post-moderno, si può immaginare l'autonomia parcellizzata e, certamente, non produttiva delle singole scienze. Infatti, se io affermo che il senso dell'umano è nelle mani dell'uomo e che l'uomo può decidere cosa sia l'umano, pongo implicitamente e senza rendermene conto, la questione del senso dell'umano.
Dietro questa concezione c'è, indubbiamente, l'ontologia heideggeriana secondo cui l'essere dell'esserCi è progetto gettato. Ciò significa che il senso dell'essere dell'esserCi può essere posto solo da quell'essere nel cui essere ne va del senso del suo stesso essere, detto in termini heideggeriani. Ma così facendo ho già dato per risolta, senza affatto tematizzarla, la questione dell'essere che, invece, va nuovamente posta con un rigore ancora maggiore. In più, si riduce l'essere al semplice esserCi, dimenticando che l'essere trascende l'esserCi e che, quindi, il senso dell'essere non è posto dall'esserCi ma trovato, poiché non dipende dal mero esserCi né inautentico né autentico, tanto per rimanere nella terminologia del filosofo di Marburgo. Il che significa che la questione del senso dell'essere non va posta, ma trovata e non va posta certamente a partire dall'essere dell’esserCi per poi ridurre la questione al semplice senso dell'essere dell'esserCi, come fa invece Heidegger. Al contrario, se si vuol partire dall'essere che io sono – e certo lo si può tranquillamente fare, per prossimità -, questo essere, che non esuarisce il senso dell'essere, va visto all'interno dell'essere che trascende l’esserCi poiché, se il senso dell'esser compete a quell'ente che si pone la questione dfel senso dell'essere, il tutto si risolve in una decisione rimandata all'esserCi sul senso dell'essere. Una Wille zur macht che riconduce l'essere alla volontà. Ma questa stessa questione, che ha le sue radici in Duns Scoto e che ha trovato il suo pieno compimento in Nietzsche, va ricondotta alla sua radice storico – filosofica; non nel senso di una storia della filosofia, ma di una questione filosofica che si dà in un determinato momento della storia del pensiero. Questione quindi di filosofia prima e non di storia della filosofia.
Intorno alla questione antropologica, apparentemente una questione puramente specialistica, si pongono invece questioni di estrema importanza per il destino stesso dell'uomo; qui per destino si intende la sua libera destinazione – si potrebbe anche chiamare, con un linguaggio teologico, vocazione – il suo télos. Noi, cioè, troviamo qui, in nuce e quasi in piccolo, tutte le questioni filosofiche fondamentali e la questione stessa del senso della filosofia e tali questioni non sono antropocentriche ma einaicentriche. Si è scelto il termine “einaicentriche”, che sta a significare che il centro è l'essere, per sottolineare l'analisi filosofica che si vuole condurre, ma va da sé che per einai si intende principalmente l'Essere che è Dio e per partecipazione – secondo la dottrina tommasiana – l'essere degli enti, che in quanto creati sono creature. La questione del senso dell'essere diviene centrale, ma non può essere posta in termini di questione dello ‘essere di quell'essere che si pone la domanda sul senso dell'essere, poiché, così facendo, si fraintende già la questione stessa del senso dell'essere. Ancora, alcune questioni preliminari si impongono alla nostra attenzione. Può la verità essere scambiata per un pregiudizio e per giunta cattivo (nel senso gadameriano del termine)? Si impone una questione di metodo, ovvero di via che si lascia guidare dal suo télos come mai Edith Stein e Martin Heidegger, che utilizzano lo stesso metodo fenomenologico, giungono a posizioni diametralmente opposte circa il problema dell'essere? Sono sulla stessa linea di ricerca eppure inconciliabili, quale delle due erra e perché? Qui ci troviamo, seppure in maniera diversa, dinanzi allo stesso problema affrontato da Aristotele negli Analitici II. Si impone una ulteriore indagine; inoltre, già tentare di definire l'essere significa ridurlo all'essreCi, nel caso che si parli dell'Essere di Dio, in quanto Dio trascende ogni concetto umano, ma l'essere degli enti, che è posto in essere da Dio, è trasparente alla comprensione umana che metafisicamente ne coglie l'essenza. È la famosa equazione dell'adeguarsi dell'intelletto umano agli enti e degli enti tutti, nel loro essere, all'Intelletto divino, secondo la dottrina dei trascendentali di S. Tommaso. Infatti, già tentare di definire l'essere a partire dall'uomo significa ridurlo all'uomo, manipolarlo. Linguaggio questo che denota la sua matrice pragmatica della modernità e che trova nella industrializzazione dei processi produttivi il suo più pieno dispiegamento. Altrove, ho sottolineato quanto sia necessaria in filosofia una periagoghé, una controrivoluzione copernicana opposta a quella kantiana, che riporti la comprensione dell'essere dalla dimensione antropocentrica a quella einaicentrica. Il senso dell'essere, nemmeno di quello del suo essere, può essere posto da quell'ente che è l'uomo che solo per partecipazione all'essere è.
Domandare è trascendere
Se l'essere è stato ridotto alla volontà, per cui l'essere è ciò che si vuole che sia, dell'essere non è più nulla, non perché sia nulla ma perché non lo si pensa più nella luce dell'essere; allora l'essere dell'uomo, che così facendo è stato colto, a partire dalla modernità, sulla scorta di una lettura antropologica della concezione dell'essere che è Dio, fatta da Duns Scoto, è nelle mani dell'uomo stesso, anzi dello Übermensch. Ora, quelo che è successo nell periodo postnietzschiano è una lettura debole dello Übermensch stesso, che non è più la volontà eccezionale di chi è oltre l'uomo, ma della volontà, se così ci si è può esprimere, dell'uomo della strada, dell'uomo comune, ci si trova nell'epoca del superuomo di massa, che crede di porre in essere l'essere, ma che, in realtà, è più manipolato che mai da quei poteri che lo hanno reso un semplice homo consumptor del sistema di produzione di massa globalizzato, un semplice acquirente. Non per questo però, per il semplice fatto che lo si voglia, l'essere è nulla; in realtà si è annullata nell'uomo la capacità all'essere, poiché egli stesso si è posto nell'ombra non dell'essere che lo illumina, ma rivoltandosi, si posto l'essere alle sue spalle non riuscendo più a vederlo, vederlo nel senso più greco che si possa dare al termine. L'essere, infatti, è e continua ad essere ciò che è. Con l'essere, cui si è volto le spalle, viene meno anche il pensiero, che è sempre pensiero dell'essere che accade nella luce dell'essere. Perciò la nostra epoca è anche l'epoca del declino o del tramonto della Filosofia, l'epoca in cui della filosofia, luogo in cui si dà il pensiero, si declina come filosofie o, peggio, si pretende di ridurre la filosofia a contenitore delle scienze sociali e di sostituirla con esse.
Ma perché si è giunti fin qui? E che significa tutto questo? La riduzione dell'essere alla volontà, alla Wille zur macht, è il segno della fine del sogno illuminista, del sogno di Kant. In unc erto senso, Nietzsche è il cantore della marcia funebre dell'illuminismo, di quel progetto autofondativo ed autoreferenziale della filosofia illuminista, della autonomia della ragione, cioè della ragione che è legge (Nómos) a se stessa (Autós). Eppure, questo non è il destino dell'occidente, ma solo uno dei suoi possibili esiti; uno dei suoi percorsi nella modernità, non l'unico, si badi bene, anche se è quello che si è imposto e che viene spacciato per unico, nei manuali scolastici di storia della filosofia. Ciò intorno a cui si discetta è il senso stesso della modernità, dunque.
Ritorniamo per un attimo alla questione prima: la perdita del senso dell'essere. Dire che l'essere è nulla significa dire che l'essere non ha, di per sé, nessun senso che non gli venga, di volta in volta, attribuito e ciò solo momentaneamente, dalla Wille zur macht dell'uomo comune (?). Ma se l'essere è nulla perché porne la questione? E se non ci si pone prima la questione dell'essere ha senso poi porre una qualunque questione? E l'uomo è uomo se smette di porre questioni? Cioè, di interrogare e di interrogarsi? Interrogarsi è, infatti, la prima esperienza di trascendenza. Se le cose stanno così, cioè se interrogare è trascendere, è il trascendere stesso che deve essere indagato. Indubbiamente, è un atto umano che può essere descritto e così è stato fatto da Husserl, E. Stein e la scuola fenomenologica, nella sua essenza di fenomeno che si dà alla coscienza. Questa indagine non può prescindere da una Filosofia prima di cui la stessa fenomenologia è scienza seconda. La pretesa, infatti, della fenomenologia di essere autofondativa, egocentrica, è parziale; essa, come ha dimostrato la Stein in Essere finito Essere Eterno, rimanda alla questione dell'essere. Eppure, certamente possiamo partire dal dato e dalla datità dell'interrogare stesso per poter poi giungere, necessariamente, alla questione dell'essere. Nell'interrogare si fa presente il trascendere, di fronte al limite della propria ignoranza chi interroga riconosce che la risposta rimanda ad un al di là che è al di là delle possibilità dell'interrogante. E ciò perché l'interrogare stesso è già un trascendere. L'interrogare non è soltanto un ontologico fondamentale dell'esserCi, esso è possibile in quanto metafisicamente fondato nella struttura stessa dell'essere creato. L'assenza di fondamento è infatti l'implicita denuncia della fallimentare auto progettazione della ragione moderna, ragione che prescrive ad essa stessa le sue regole credendo di porle in esserle per il solo fatto di averle pensate senza riferimento al vero fondamento che è l'essere.