LA DIMOSTRAZIONE ESISTENZIALE DI DIO COME ESSERE

Partiamo da un’affermazione fatta dalla Stein. “Tutte le volte che lo spirito umano nella sua ricerca della verità ha cercato un punto di partenza infallibilmente certo, si è imbattuto in questo qualche cosa inevitabilmente vicino: il dato di fatto del proprio essere”.

La Stein per dimostrare l’esistenza di Dio come essere parte dall’essere che lei è. Il partire dall’essere che io sono è stato ripreso da pensatori lontani, il primo S. Agostino che parla di Si fallor sum nel De Trinitate, Cartesio con Cogito ergo sum nel suo Meditariones di Philosophia prima.

S. Agostino si scontrò con lo scetticismo del tempo, il quale affermava che non ci fossero verità certe. Agostino diceva invece che esistevano verità matematiche e quindi certe, e  inoltre, asseriva che non si potesse dubitare del fatto che ognuno di noi è (anche questa era una verità certa!).

La Stein parte da questo, il punto di partenza è il proprio essere. Non posso dubitare del fatto che io sono, che sto qui, della mia esistenza che dal punto di vista fenomenologico è l’ampio campo della coscienza pura come campo di ricerca, come vita dell’IO. Posso dubitare dell’oggetto che percepisco ma non del fatto che percepisco, di ciò che sento ma non del fatto che io sento, di ciò che vedo ma non del fatto che vedo, ecc…..

Sia  nel vivere di S. Agostino, nel cogito di Cartesio, nella coscienza di Husserl si cela un IO sono.

Partiamo quindi dalla vita dell’IO, questo io sono viene colto intuitivamente, è un’Eureka, un ho trovato, è un’intuizione immediata che non è assolutamente dedotta.

Questa certezza del proprio essere è una conoscenza originaria in quanto è iniziale ed inseparabile da me. Non appena lo spirito si immerge nella riflessione io sono consapevole di essere IO.

In ordine temporale non è la prima certezza poiché l’uomo ha un atteggiamento rivolto verso il mondo esterno, e non è neanche la prima intesa come principio dal quale si possono ricavare le altre affermazioni. (Originaria = io prima vedo la cosa e poi torno indietro e mi rendo conto che sono io che sto vedendo)

E’ originaria perché è inseparabile da me, da ciò che mi è più vicino, è un punto di partenza al di là del quale non si può andare.

Questa certezza d’essere è una certezza non riflessa.

Non appena lo spirito si immerge con la riflessione nella considerazione del semplice dato di fatto del suo essere, sorgono tre interrogativi:

1)     Che cos’è l’essere di cui sono consapevole?

2)     Che cos’è l’io, che è consapevole del suo essere?

3)     Che cos’è quel moto dello spirito (atto), in cui mi trovo e in cui sono consapevole di esso in quanto mio ed in quanto moto?    

 

Se io guardo all’essere che io sono dentro di me, questo è essere e non essere. Ciò che io sono è sempre diverso, prima ero intento a mangiare un cioccolatino mentre ora sono attento a spiegare. C’è una diversità ed una uguaglianza, c’è un essere ed un divenire, c’è un essere che è passato e lascia il posto all’essere di ora (leggere le Confessioni di S. Agostino cap. 11).

Questo essere passa ma rimane, questo essere non si può separare dalla temporalità, è un essere puntuale compreso tra un non più e un non ancora.

Il non più è un ritenere come ricordo, il non ancora è il protendere verso…… 

In questo fluire nel quale io sono sempre un punto, sono quell’io che puntualmente assorbendolo da vita a questo vissuto che fluisce come passato ritenendolo, come presente vivendolo, come futuro aspettandolo.

Da qui dimostriamo e scopriamo questo essere che non è l’essere temporale che Io sono. Dentro questo essere che io sono ho scoperto l’idea dell’essere e del non essere, del fluire del tempo. Si è manifestata l’idea del non essere più presente di quello che era un tempo il vissuto presente.

Colgo anche l’attualità, quello che io posso essere in quel momento e si attualizza, mi si fa presente.

L’essere che sono io e che mi si è rivelato è pienamente vivente e puntuale, cioè l’essere è la vita dell’io. L’io è questo essere che vivo.

Il passato ed il futuro non sono essere in senso assoluto ma sono un vissuto che è stato o che sarà (poter essere), ciò può essere ripreso attraverso una ritenzione di ciò che è stato e può essere aspettazione di ciò che sarà nel futuro.

Passato e futuro hanno in fondo un essere che è conoscibile nel ricordo e nell’attesa, conoscibile grazie all’intelletto. Questo essere puntuale, che io sono, non è da solo né può essere pensato da solo; è un punto che sta in una linea che scorre, che fluisce, che si muove. Questo punto emerge nel punto in cui io sono, questo io vitalizza il vissuto. È un essere che ha una durata ma non è attuale nell’intera durata. Nel momento in cui io sono c’è la dinamica della potenza e atto, non è passaggio da essere a non essere, ma è modificazione dell’essere che si sviluppa e diviene. Atto e potenza sono contenuti come modi di essere e si ricavano da questo essere puntuale.

Questa potenzialità che diventa puntualità, è una via di mezzo tra essere e non essere, questo essere diviene gradualmente. Vi è un presente che può non essere pienamente vivo ( per es. il mio volere uscire dall’aula è anche un poterlo non fare).

Cos’è che fa che il poter essere diventi atto?

È l’atto intenzionale che lo assume. Tutti questi modi appartengono al mio essere attuale, alcuni sono intenzionati ma fan parte di un qualcosa di più grande che ha una copresenza di tanti possibili vissuti e di potenzialità d’essere.

Il tempo deriva dall’attualità multiforme dell’io, la coscienza del tempo è costitutiva del mio essere e poter essere è quella luce puntuale che è il mio io e proprio questa capacità di produrre tempo ed essere tempo lo rende finito.

La dimensione della temporalità è quindi quella della finitezza.

L’essere punto che io sono così come l’ho vissuto è tempo, ciò che ogni persona è, è un divenire di tanti punti di contatto. Edith Stein  scopre l’essere che è in noi e scopre che questo essere che potrebbe obliarsi è contenuto nell’essere. Nell’essere puntuale che io sono trovo l’immagine di un essere eterno, infinito il quale mi sostiene e mantiene. Io colgo in me un essere che mi trascende.

Per Sant’Agostino il tempo è l’estensione della coscienza mentre per la Stein il tempo è il presente passante per il punto di contatto esistenziale ( per contatto esistenziale intende l’io che significa vissuto).

Nella fenomenologia il tempo è insieme di atti intenzionali, questo essere è dato dalla somma di tanti piccoli esseri finiti che determinano questa identità dell’io e ciò dalla nascita alla morte.

Il passato è vissuto, è stato e posso ricordarlo, il presente è l’io pienamente vivente mentre il futuro è un non ancora vivente. All’interno dell’unità del vissuto che è pienamente vivente c’è qualcosa che raggiunge continuamente il livello dell’essere, è la sua attualità, è il suo contenuto( per es. l’argomento che il professore sta spiegando è un atto intenzionale che viene reso presente in quanto ricordo passato, questo passato è reso vivo e viene fatto diventare essere solo per un attimo).

L’io è vivente ma puntuale e come tale può conferire per un attimo la vita al vissuto. La sua vita ha bisogno di contenuti perche l’io è coscienza, una coscienza che non è mai vuota ma è sempre coscienza di .. qualcosa.

Quindi è come se avessimo del nostro tempo un’esperienza di vita puntuale e non avessimo la forza di andare oltre quel punto.

Ricapitolando, abbiamo visto la puntualità dell’io, che il vissuto è anche puntuale ed è tenuto in vita dall’io, abbiamo scoperto che ogni volta viene conferito all’essere un contenuto seppur diverso e abbiam capito che questa esperienza è condizionata dal contenuto datogli dall’io stesso.

Ma questi contenuti dell’io senza i quali l’io è vuoto da dove vengono? La vita dell’essere ha per forza bisogno di contenuti, l’io è questo punto, la vita è l’essere dell’io ma l’io non ha l’essere da sé. L’essere di questo io vive di attimo in attimo e diviene nel tempo e dentro il mio essere io incontro un altro essere che tiene in vita il mio stesso essere, è il fondamento che lo sostiene.

Un essere che io sono ed è ora finito può diventare ciò che potrà essere ma ha necessità del tempo.

L’altro essere, che scorgo dentro di me, è l’Essere eterno che mi tiene in vita. Dentro di me incontro un  essere eterno che di volta in volta mi fa essere. Dentro di noi c’è una parte nella quale incontriamo Dio.

Quando Edith Stein parla di scienza della croce per scienza non intende la teoria come semplice complesso di proposizioni vere né di costruzioni ideali congeniate da un processo logico di pensiero ma intende la verità viva, reale, ed attiva seminata nell’anima come un granello di frumento che getta radici e cresce e dà all’anima un’impronta speciale che determina la condotta al punto da risultare discernimento.

È sì scienza ma, scienza dei Santi o realismo dei Santi, ciò che la Stein riscontra in San Giovanni della croce.

San Giovanni della croce nella sua teologia non parla di croce in senso interpretativo ma di notte oscura, di spirito, è la Stein che vede, leggendo il pensiero di San Giovanni, la croce come vissuto esistenziale. La Stein si chiede: Come si può realizzare questo vissuto in un santo? Come si forma questa scienza della croce? Perché si realizzi questo ci devono essere dei fattori che per San Giovanni sono: il realismo dei santi, l’iper recettività di un bambino rispetto al suo percepire e la sensibilità artistica ( linguaggio poetico).

La prima parte della Scienza Crucis ha come titolo il Messaggio della Croce nel quale la fenomenologia cerca di analizzare quali sono stati i luoghi nei quali il messaggio della croce è giunto a San Giovanni. Quindi abbiamo una sezione intitolata “Primi incontri con la croce”, poi un’altra “Il messaggio della Sacra Scrittura”, poi “Il sacrificio della Messa”, “La visione della croce”, “Il messaggio della croce”, “Il significato del messaggio della croce”.

Quali sono i primi incontri di San Giovanni della Croce con la croce? L’ambiente familiare dove è vissuto, in modo particolare la madre, la figura del padre che per sposarsi dovette rinunciare all’eredità, la vita grama, il lavoro presso la bottega di artigiano, ma in maniera particolare la sua esperienza fatta nell’ospedale vicino casa.

Quindi si è avvicinato alla croce, anche attraverso la sofferenza di altre persone. Ha imparato a riconoscere non solo le malattie corporali ma anche quelle spirituali di quegli uomini. A spingerlo verso questo ambiente era l’amore per il crocefisso che egli voleva seguire per quella strada dura, rigida, stretta conformandosi sempre più al suo modello.

Contemporaneamente decise di fare gli studi presso i Gesuiti. Importante nella sua crescita è stato il messaggio della Sacra Scrittura. Anche prima di entrare nell’ordine carmelitano proprio attraverso la vita quotidiana il messaggio si attualizza. Per la regola del Carmelo la frequentazione della Sacra Scrittura doveva essere costante e continua. Si dice che lui conoscesse a memoria moltissimi passi. Quindi sia nella formazione teologia che in quella filosofia dei Gesuiti, ma anche la vita carmelitana lo hanno guidato a comprendere il messaggio della croce attraverso la scrittura. Tutti gli scritti teologici di San Giovanni della Croce sono pieni di citazioni bibliche, dell’Antico Testamento e del Nuovo. Le opere dove troviamo più citazioni del Nuovo Testamento sono “La fiamma viva dell’amore” e “Il cantico spirituale” mentre “La salita al monte Carmelo” è caratterizzato da citazioni dell’Antico Testamento.

Siamo autorizzati dice la Stein a pensare che il messaggio della croce contenuto nella parola di Dio abbia permeato l’intera sua vita  suscitando nel suo cuore sempre una nuova eco.

Ma che cosa è questa croce? Come viene assunta? Questa croce viene assunta a modello di tutto ciò che è difficile, gravoso, contrario alla natura; è cioè un’esperienza di morte, di limite e di riduzione.

L’uomo per predisporsi (lo dice ne “La salita al monte Carmelo”), deve scegliere di fare ciò che è difficile invece di ciò che è facile, quindi un’esperienza di una via crucis esistenziale. La croce secondo la Sthein diventa l’emblema dell’inizio del cammino mistico. All’interno della Sacra Scrittura anche il rapporto tra il profeta ed il suo Signore non presuppone una vita semplice, anche quella del profeta è una via di croce e quindi il rapporto tra il profeta ed il suo Dio diventa emblematico di questo cammino di croce. Questo implica un abbandono della creatura nei confronti del creatore perché l’esperienza del profeta è comunque un’esperienza di rottura con il quotidiano e con la comunità e non a caso la regola carmelitana ha come fondatore ideale il profeta Elia; quindi il profeta nella sua dimensione esistenziale è colui che vive anche in parte questa esperienza di croce e nella regola carmelitana rappresenta la separazione dalla comunità.

Per E. Sthein uno dei modelli esemplari è la teologia di Paolo che viene definita la dottrina della croce. Il vangelo di Paolo dice la Sthein rappresenta la dottrina della croce.

L’altro punto interessante nella dottrina della croce è il sacrificio della Messa, cioè l’attualizzazione nella messa dell’esperienza di croce. La messa intesa come dinamica di attivizzazione. C’è un aspetto interessante legato alla sua prima messa, celebrata nel giorno della Santissima Trinità nella quale, secondo la tradizione, gli appare Cristo che gli chiede che cosa vuole, lui risponde “di subire le pene di un peccatore senza commettere peccato”. In questo c’è il desiderio di assimilarsi a Cristo sofferente, che soffre per l’umanità.

Numerose sono state le visioni della croce, molte e diverse, una famosissima che è stata l’oggetto di un famoso quadro di Salvatore Dalì, un quadro di Cristo dipinto dall’alto.

S. Giovanni fu mandato in esilio nel convento di Ubeda dove c’era un superiore che non lo sopportava.

Qual è quindi questo messaggio della croce?

Bisogna intendere le sofferenze  e i dolori della vita. Queste sofferenze ed assimilazioni a Cristo vanno intese all’interno della sua esperienza di pedagogo e di guida delle anime verso l’esperienza mistica stessa.

Altro aspetto importante: la sua esperienza di direttore delle monache e di pedagogo va letta proprio in queste sue esperienze, l’unità dell’esperienza mistica di S. Giovanni della Croce consiste proprio in questo, all’identificazione con la croce stessa e con questa apertura verso l’eterno che da la croce stessa.

Nota. Cf Edith Stein, Essere finito Essere eterno, Roma1999.