Il ritorno a Dio nell'ultramodernità: A. Del Noce e P. Florenskij

Se si esclude il concetto di peccato dalla riflessione filosofica si esclude Dio, infatti, la condizione di peccato dell’uomo diviene la sua condizione naturale e il male, che è in lui, come conseguenza del peccato, viene proiettato fuori di lui, verso la società. Rousseau e Marx, che su questo tema hanno posizioni simili, sono un esempio lampante di questa concezione. Questa visione delle cose ha preso il sopravvento nella modernità, impedendo di elaborare intorno alla modernità un discorso più sereno e meno legato agli Aut-Aut.  Del Noce e Florenskij sono due autori che, pur con percorsi doversi, si sono accorti di questo slittamento della modernità e ne hanno descritto con profondo acume la dinamica. L’eliminazione del concetto di peccato dall’antropologia filosofica, e non solo, premette poi di concepire il processo storico come un processo di emancipazione. In realtà, così facendo il processo diviene, dal punto di vista pratico, via verso il liberalismo che predica la libertà come “liberazione da”. Se noi, infatti, guardiamo da questo punto di osservazione lo sviluppo storico della modernità, cogliamo la trama che sottende l’intero processo storico. In questo senso Dugin ha perfettamente ragione quando dice: “Nel liberalismo il soggetto era l’individuo, libero da ogni forma di identità collettiva e di appartenenza”[i]. È proprio l’esclusione della condizione originaria di peccato dell’uomo, il rifiuto dello status naturae lapsae - tanto per intenderci – a generare il processo storico che porterà la civiltà occidentale e i suoi derivati verso l’ateismo. Ma la riflessione intorno alla condizione di peccato non è un argomento di sola pertinenza del discorso religioso, quanto di quello filosofico e religioso allo stesso tempo. Lo scadimento post-umano del tempo presente ha radici, dunque, profonde e antiche, legate al sorgere stesso della modernità. Lo stato di nuova innocenza, vantato dall’uomo all’inizio della modernità (e consistito anche nello spostamento del divino, al cui posto l’uomo ha posto se stesso), quello stato di innocenza che faceva essere la condizione mortale dell’uomo la sua condizione naturale, ha trovato nella tecnica il suo coronamento. D’altra parte, l’innegabilità dell’esistenza del male, di cui l’esperienza umana è piena e da tutti tangibile, eliminato il legame del male come sua conseguenza, ha poi spostato l’origine del male dall’uomo alla società. Le filosofie di Rousseau a Marx ne sono un chiaro esempio. Se, dunque, volessimo caratterizzare quest’epoca, con tutti i limiti che può comportare un’etichettatura, potremmo tranquillamente definirla l’epoca della “nuova innocenza”. il tratto caratteristico di quest’epoca, in cui ancora ci troviamo qui in Occidente, è proprio determinato da questo assunto, da questo assioma: nell’uomo non c’è peccato, cioè qualcosa che lo renda dipendente da un Salvatore, perché egli, per mezzo della tecnica, salverà se stesso e l’intera umanità. Questa è solo l’ultima forma che ha assunto l’utopia che, nel secolo scorso si presentava come utopia politica. Ecco allora emergere l’altro tratto caratteristico dell’uomo moderno: il suo rifiuto della dipendenza, qualunque essa sia, contro Dio, contro lo Stato, il genere, la sua stessa umanità; tale rifiuto è inteso come lotta per l’emancipazione[ii].

L’attuale tappa politica di questa illusione è l’irenismo; l’idea cioè che si possibile, anzi auspicabile, creare una società multietnica e multiculturale. Tornando al problema antropologico, che qui ora ci riguarda, non possiamo non notare che questo è il paradigma, (mi si lasci utilizzare questo paradigma kuhniano oramai entrato nel linguaggio comune di tutti) in cui si trova immersa oggi ogni manifestazione dell’umano, perfino quell’attività del pensiero, la più trascendente di tute quale è appunto la filosofia, avviene oggi senza riferimento alla Metafisica e dentro questo paradigma. Più ancora, avendo profondamente assorbito l’antimetafisica del nostro tempo, vera e propria mè-ontologia[iii], essa, come volontà di potenza è divenuta antropologia. Tuto il processo storico della modernità, dalla invenzione dell’individuo, come sostituto della persona, si presenta come un processo verso la “liberazione-da”, verso l’emancipazione da ogni forma di vincolo e di dipendenza. L’ateismo e l’irreligione di oggi, assieme allo sviluppo della tecnica, ne sono il coronamento. Ma questo processo storico, che ha portato all’irreligione di non è il destino della modernità, come riteneva erroneamente Heidegger; esso piuttosto è un processo generato da una opzione originaria, per cui si nega in maniera irrazionale e filosoficamente ingiustificata la condizione di peccato dell’uomo, come ha perfettamente dimostrato A, Del Noce ne Il problema dell’ateismo[iv]. Se Del Noce ha evidenziato quanto i mali del presente e le problematicità della modernità che da esso derivano, hanno la loro radice nel rifiuto della condizione di staus naturae lapsae , è stato Pavel Florenskij che ne ha studiato, dal punto di vista filosofico, la natura ontologica.

Che qui si stia trattando del tema ontologico su cui poggia l’intera essenza della modernità è indirettamente dimostrato dalla insistenza e ferocia verbale con cui Nietzsche, in diversi punti della sua opera, torna sul problema. Ci soffermeremo, in maniera particolare, su alcuni aforismi de La Gaia Scienza e sulla figura di Socrate in La Nascita della Tragedia. Nell’aforisma 135 de La Gaia Scienza Nietzsche si concentra sulla “origine del peccato”, tema apparentemente marginale e poco filosofico, eppure tanto importante per Nietzsche da dedicargli un intero aforisma. Il tema centrale è che il peccato è qualcosa di antiumano; la condizione dell’esistenza del peccato pone in essere la sudditanza dell’uomo nei confronti di Dio, un limite allo sviluppo della sua potenza del superamento della sua stessa umanità. Esso è una invenzione ebraica, dice Nietzsche, un qualcosa che distoglie l’uomo dalla sua condizione terrena, puramente terrena. Questo attacco a Dio è anche un attacco alla ragione umana, ragione che il filosofo di Rochën usa quando argomenta le su tesi, sia pure espresse in forma oracolare. L’attacco a Socrate sia nella Nascita della Tragedia sia nell’Aforisma 340 de La Gaia Scienza rappresentano l’attacco alla ragione che, in virtù del logos, domina le passioni. È con Socrate, infatti, che quel radicale cambiamento di paradigma della cultura greca che troverà in Platone e Aristotele il suo compimento. È Sempre Socrate che identifica l’uomo con la sua anime, ovvero con la sua psychè . l’attacco a Socrate è per Nietzsche l’attacco alla ragione umana ritenuta colpevole di voler ridurre la vita al concetto, Ma Nietzsche viene dopo Hegel e forse è qui la radice del suo fraintendimento, probabilmente ci sono in lui dei pre-giudizi e delle pre-comprensioni non tematizzate che gli impediscono di comprendere realmente come stanno le cose. Soffermiamoci un attimo su questo aforisma per comprenderne a fondo il senso e la portata.  Da una prima lettura si coglie subito che in Nietzsche è come se rivivesse l’acredine di Aristofane per Socrate. Il testo nietzschiano si presenta come una riflessione sulla morte di Socrate, così come ci è stata tramandata da Platone nel Fedone. Il passo in questione è proprio l’ultima esclamazione di Socrate che, rivolto a Critone, dice: " ‘O Kriton, efe, to Asklepio ofeìlomen alekruona”, e cioè: “O Critone, ricordati che siamo in debito di un gallo ad Asclepio”. Ora, Asclepio è per i greci il dio della medicina cui è tenuto a a fare sacrificio il greco quando è guarito da una malattia. Se non si tiene conto dell’intera ricerca socratica e della filosofia platonica, che da essa discende, ha buon gioco Nietzsche; nel senso che effettivamente Socrate ritiene che la morte si auna liberazione dell’anima dal corpo, ma perché in quanto libera dai vincoli della corporeità potrà finalmente contemplare le idee, ovvero la verità che è immateriale. Certo, per Nietzsche la vita è tutta qui, nell’immanenza; ma così dicendo non dice nulla di nuovo, porta semplicemente a compimento una delle linee della modernità, quella appunto verso l’immanenza. Tema questa dell’innocenza del divenire. Ma il vitalismo nietzschiano, che pervade tutto il nostro tempo, è la negazione più assoluta della trascendenza. Il superuomo è, infatti, fedele alla terra e la sua dimensione sta nell’essere per il tramonto. In realtà, il messaggio del Fedone è ben altro e consiste nella II navigazione, che è il fondamento della ontologia platonica e del cambiamento di paradigma all’interno della filosofia greca che non intenderà più la physis come il tutto.



[i] Alexandr G. Dugin, La Quarta teoria politica, Nuova Europa, Milano 2017, 11.

[ii] Quanto A. MacIntyre abbia, invece, colto nella dipendenza uno dei tratti caratteristici dell’essere dell’uomo emerge dal titolo di un suo lavoro: Animale razionale dipendente.

[iii] Per Mè – ontologia, termine utilizzato anche da Dugin, si intende la negazione ultima dell’essere cui è giunta la filosofia contemporanea da Nietzsche in poi; essa è comunque una riflessione che si fonda sulla contraddizione della negazione dell’ente, come ens crestum, e quindi dotato di statuto, ragione, essere, per sostituire ad esso la creazione dell’essere dal pensiero, ora non più universale, ma del pensiero divenuto volontà di potenza.

[iv] A. Del Noce, Il problema dell’ateismo, Il Mulino, Bologna, 1964.