Sul concetto di natura, alcune considerazioni a margine 

 

“Se Dio non esiste allora tutto è permesso”
(Fëdor M. Dostoevskij)

 

Nell’accingermi alla lettura della Meditazione sulla tecnica di Ortega y Gasset mi sono imbattuto nella Prefazione al testo di Luca Taddio, giovane e promettente docente di Estetica, dall’emblematico titolo: Tecnica e natura, un apparente conflitto nota introduttiva a Ortega y Gasset. Mi soffermo un attimo su alcuni punti di questa prefazione che trovo indicativi dell’intreccio tra tecnica, volontà di potenza ed erranza, che mi sembrano essere proprio i tratti caratteristici dell’ultra-modernità e che qui troviamo espressi, sia pure in forma implicita, tutti assieme. Mi soffermerò, dunque, su questo brano e, in particolare, su alcuni punti. Mi perdoni il paziente lettore se dovrò essere noioso, ma necesse est!
Il Taddio scrive: “L’identificare la spontaneità con la natura, contrapponendola all’artificiosità del prodotto della tecnica si fonda su una visione antropocentrica. La presunta immediatezza dell’una rispetto alla mediatezza dell’altra, ossia ciò che troviamo direttamente nella natura rispetto a ciò che è il risultato della nostra attività di produzione, sono distinzioni superficiali che non si inabissano verso il divenire in quanto tale delle cose artificiali o naturali che siano. Tale visione antropocentrica della natura ci fa dire ancora oggi che ci sono cose “contro - natura”. Può esserci qualcosa “contro” natura? Ciò che è possibile è anche naturale. Il fatto che esso si produca anche spontaneamente significa che la sua causa non risiede in una nostra azione, ma ciò non comporta un’assenza di causa. Se un fiore sboccia spontaneamente, oppure in una serra per mano dell’uomo, è un fatto contingente. Tale distinzione dipende dalla nostra prospettiva sulla natura e non dalla natura della cosa in quanto tale. Gli esempi si possono moltiplicare a piacere: non è meno naturale, in linea di principio, un bambino in provetta, un matrimonio omosessuale, la fecondazione assistita, l’eutanasia rispetto alla presunta spontaneità di questi eventi nel contesto definito naturale” ( p 22).
Ho ritenuto necessario riportare tutto il brano per meglio evidenziarne le aporie irrisolte e, a mio parere, irrisolvibili. Il brano può esser diviso grossomodo in tre parti, caratterizzate da affermazioni tra loro concatenate ma non argomentate a sufficienza. (1) da: “L’identificare…” fino a “…antropocentrica”. In realtà, è proprio vero il contrario e ciò è presto detto: nel suo accadere “spontaneo”, ovvero secondo necessità e legge, la natura bruta, cioè quella non dotata di intelletto e volontà, non fa che realizzare la sua verità ontologica che consiste, appunto, nel suo divenire necessitato secondo legge, rispetto a quel fine che è posto dal Creatore. L’agire dell’uomo, invece no; questo è un agire teleologico, rispetto a cui egli è chiamato ad aderire liberamente e che può volere o non volere. L’agire dell’uomo, inoltre, in quanto agire conseguente ad una scelta, è frutto di una deliberazione cui consegue una elezione, come insegnano Aristotele nell’Etica a Nicomaco (III, 4 - 6) e San Tommaso nella Summa Theologiae (I/II q. 1, art. 1 – 8). Difatti; mentre il primo nell’Etica afferma che “la scelta deliberata non è cosa comune anche agli esseri sprovvisti di ragione, desiderio ed impulsività sì” (Etica Nicomachea, III,10), riferendosi anche agli animali bruti; San Tommaso, nella risposta alla q. 1, art. 1, il cui oggetto era stabilire “se appartenga all’uomo agire per un fine”, afferma che “le azioni umane sono azioni proprie dell’uomo” e “l’uomo si differenzia dalle creature non razionali, perché è padrone dei propri atti”. Da ciò deriva che son propriamente umane quelle azioni che dipendono dalla volontà; ed è proprio in virtù dell’intelletto e della volontà che l’uomo è padrone dei suoi atti. Qui sta la profonda differenza tra l’agire spontaneo, ma sempre teso ad un fine, della natura e quello dell’uomo.
2) Punto ontologico. Tale punto che, a nostro avviso, risente dell’ontologia severiniana cui egli implicitamente si rifà, va da: “la presunta immediatezza…” fino a “… artificiali o naturali che siano”. Soltanto da una prospettiva di pensiero che concepisce l’essere come volontà e questa come volontà di potenza, la cui base ontologica consiste nel concepire l’essere come tecnica, ovvero come ciò che si fa, si può giungere ad affermare che l’agire della natura e l’agire dell’uomo sono sullo stesso piano. Tra l’altro, solo in una visione di questo tipo l’essere dell’ente è agguantato e alla mano. È questa la vera visione antropologica che discende dall’avere risolto il problema dell’essere dell’ente all’interno dell’orizzonte di quell’ente che si pone la domanda sull’essere dell’ente, ovvero solo facendo propria, completamente o in parte, la riduzione dell’ontologia all’antropologia fatta da Heidegger.
La visione onto-centrica di Aristotele e quella teocentrica di san Tommaso, invece, consento un approccio all’ante di tutt’altro spessore. La visione teocentrica, quella che concepisce la natura come creatura, concepisce il divenire dell’ente come realizzazione della sua verità ontologica. Solo così il nichilista può cancellare la differenza tra l’agire dell’ente privo di libertà, cioè privo di libero arbitrio, e l’agire dell’ente dotato di libero arbitro. Aggiungo che qui andrebbe specificata la differenza tra libertà liberata, cioè nella grazia e libertà non liberata, impicciata ancora nel peccato e del loro rapporto con il lume della ragione naturale, ma rimando ad atro articolo tale differenza, scusandomi con il paziente lettore. Entrambe, natura in quanto creatura sia se dotata sia se priva di ragione, sono nell’agire orientate ad un fine che coincide con la loro verità ontologica. Ed è questo schiacciamento annichilente che conduce ad annullare la differenza tra gli enti creati, la legge di natura, e l’essere spontaneo dell’agire della natura priva di intelletto e volontà. È ovvio che per l’autore della prefazione l’essere è la tecnica e, all’interno di questo tutto, la tecnica stabilisce cos’è la natura dell’ente e il suo divenire, la sua teleologia.
In più, quando il Taddio afferma che “tale distinzione - riferendosi alla spontaneità dell’agire naturale – dipende dalla nostra prospettiva sulla natura e non dalla natura della cosa in quanto tale” non ci spiega affatto come il pensiero potrebbe cogliere la natura della cosa se non pensandola; cioè, vien voglia di dire che, il pensiero potrebbe cogliere la natura dell’ente al di fuori del pensiero stesso, quasi in una unio mistica di tipo plotiniano con la natura dell’ente che non tenga conto del pensiero. Ma nemmeno in questo caso andrebbe bene, perché no appena avuta andrebbe pensata e, dunque, sarebbe sempre la natura dell’ente colta attraverso l’atto del pensare. Come si può cogliere la natura dell’ente se non pensandola?
Prima ancora aveva affermato: “ciò che è possibile è anche natrurale”. Ma anche questa affermazione, da cui discendono una serie di affermazioni a grappolo, che “si possono moltiplicare a piacere” (Prefazione, 22, grassetto nostro), la quale è profondamente nichilista e non tiene conto, né volendo potrebbe, della differenza tra gli enti dotati di libero arbitrio e quelli privi. Da qui, come già mostrato, discende la negazione della differenza tra naturale e artificiale.
Pura follia, a nostro avviso, di cui si può dire ciò che Aristotele disse di Parmenide: “A livello di discorso, queste affermazioni sembrano quadrare, ma a livello di realtà, pensare così è prossimo alla follia” (Aristotele, De Generatione et Corruptione 1, 8, 325 a), E noi aggiungiamo: agire in base a ciò, cioè affermando che la realtà è prorpio quella descritta dalla prefazione, in cui i diversi agire si equivalgono, definendo possibile e perciò naturale, fa di questo tempo il tempo della follia pienamente dispiegata.