Pagine dostoevskijane 1

Tipi ultramoderni

ovvero tipi umani nell’ultra-modernità: Il Signor Goljadkin

 

Una nota introduttiva

            “Epoca dell’erranza”, così Heidegger definisce la nostra epoca, ma erranza è errore, deviazione dal tragitto, tragitto che S. Tommaso d’Aquino definiva: “verità ontologica” dell’ente; e Gabriel Marcel, che ha compreso perfettamente la posta in gioco, definisce l’uomo, Homo Viator[i]. Erranza è opposto di Pellegrinaggio, e significa deviazione dal tragitto, perdita del telos, del fine naturale che, l’ente, in quanto ens creatum, è chiamato a realizzare nell’arco della sua esistenza. Ovvero, che il venir meno del pensiero dell’essere è anche un venir meno all’ascolto dell’essere. Ascoltando il logos non me è saggio convenire che tutto è uno afferma Eraclito e ancora: Di questo logos gli uomini non hanno intelligenza né prima di averlo ascoltato né dopo… il punto di partenza determina sempre il senso della comprensione; la situazione di partenza, (quella che Husserl nelle Ideen chiama le opinioni intenzionali permanenti e Gadamer la pre-comprensione o i pre-giudizi, la situazione di partenza, dicevamo, può compromettere la comprensione) può compromettere la retta comprensione del messaggio e, addirittura, può diventare la conferma del nostro stero pre-giudizio. Perché dico questo? Lo dico per il semplice fatto che, sebbene il nostro essere sia un essere in una determinata situazione, non tutte le nostre prospettive dono equivalenti. Esiste un vedere che non è un vero vedere; ed un comprendere che non è un vero comprendere. L’errore esiste e non è solo logico, ma anche ontologico. Per capire meglio questo punto ci si può rifare a S. Tommaso. Nella dottrina dei “Trascendentali”, quando parla della verità dell’ente, il Nostro non la intende soltanto, con Aristotele, attinente al pensiero e, dunque, di pertinenza logica; egli la concepisce come pertinente anche all’ambito ontologico. Questa è la prima vera conseguenza dell’assunzione in filosofia della dottrina della creazione ex nihilo, rispetto alla Metafisica greca, per la quale ex nihilo nihil fit. “Omne ens est verum, quia omne ens est ens creatum et est adequatio ad intellectum Dei ". Ogni ente è vero perché è adeguarsi della cosa all’intelletto creatore di Dio. Tutto ciò sta a significare che ogni ente, in quanto creato, è vocato ad essere fedele alla sua essenza; e ciò in virtù del fatto che in ogni ente creato essenza ed esistenza non coincidono; ovvero, ogni ente non è tutto e pienamente se stesso nel momento in cui è. Questo discorso vale per tutti gli enti costituiti di materia e forma, non perciò per i puri spiriti finiti. Ora, alcuni enti naturalmente conservano la loro verità ontologica., anche se la realtà naturale è macchiata dal peccato, altri, quelli cioè dotati di libero arbitrio, creati cioè apposta liberi da Dio, sono stati da Lui chiamati a rispondere liberamente alla loro verità ontologica, che costituisce l’essere del loro essere; verità che potenzialmente è in loro. Da qui l’origine del peccato e del male; peccato che spesso è sdoppiamento, alienazione, separazione da se stesso e dalla sua stessa radice, come nel caso del Signor Goljadkin.

L’alienato Signor Goljadkin

Nessuno meglio di Dostoevskij ha descritto l’erranza della modernità, anticipando il vuoto di senso dell’ultramodernità, nella quale siamo immersi, ormai dall’inizio del secolo. La sua è una vera e propria fenomenologia dell’esperienza diabolica. Attraverso le sue opere egli indaga i diversi piani in cui, e attraverso cui, questo diabolico – frutto della perdita del telos del nostro stesso esistere, cioè di Dio – si manifesta, come follia e sdoppiamento ne Il sosia, in cui, tra l’altro, viene descritta l’alienazione dell’uomo, il suo diventare parte dell’apparato burocratico, della macchina moderna dello Stato; come ybris del superuomo in Delitto e castigo; come declinazione sociale e politica di quella stessa ybris ne I demoni; come uccisione del padre, metafora del parricidio del nostro tempo, ne I fratelli Karamazov. Ci soffermeremo brevemente su queste opere, nelle quali si manifesta questa profonda frattura che caratterizza l’ultramodernità[ii]. Dostoevskij, descrivendo i caos che allora stava nascendo in Russia, che pure era con Pietro I entrata nella modernità, ha descritto la profonda crisi del mondo moderno, nato e compresosi come “emancipazione” e “frattura”. Nota con grande acume una studiosa francese “la perdita della Trascendenza che dava al mondo umano i suoi punti di riferimento finali e inespugnabili comporta una crisi del significato e dei valori dell’esistenza in generale. La modernità è pervasa dalla crisi e, per dirlo ancora più brutalmente, la modernità tessa è un concetto di crisi[iii].

Il signor Goljadkin, Jakov Petrovič Goljadkin, così si chiama il protagonista de Il sosia, è il più gogoliano dei personaggi di Dostoevskij; come Gogol è di un’ironia feroce nei confronti dei suoi personaggi, così qui Dostoevskij lo è con il suo eroe, il povero impiegato “consigliere titolare”, quartultimo della tabella dei ranghi introdotta nel 1722 dallo zar Pietro il grande. Un tratto emerge con chiarezza, fin dalle prime battute di questo poema pietroburghese, come recita il sottotitolo del romanzo e cioè: il protagonista è solo, tremendamente solo, schiacciato dal suo ruolo, tramite il quale immagina di potersi riscattare ma che, in realtà, lo imprigiona, perché egli è la sua funzione, un vuoto guscio di noce, nulla più. “Io ho dei nemici, Krestian Ivanocič, ho dei perfidi nemici che hanno giurato di prendermi…” dice al suo medico. Ma non è in grado di dare un nome a questi suoi nemici, perché sono nemici impersonali, sono le forze dell’apparato che lo assorbono e lo divorano. Questa solitudine, che viene descritta da Dostoevskij non con tinte tragiche ma grottesche, sarà l’acido in cui si scioglierà la sua anima, lo specchio infranto attraverso cui il personaggio si sdoppierà, fino alla follia. I suoi giorni si aprono e chiudono nell’orizzonte dei tentativi di affermazione e dei conseguenti fallimenti, tutti giocati sul voler essere, ma il Signor Goljadkin non ha essere: è solo il suo ufficio, che diviene la proiezione delle forze che lo assorbano, lo smembrano come Dioniso con le menadi, ma in lui non c’è rinascita, ma soltanto un finale ancora più grottesco, finale in cui un barlume di coscienza della sua condizione, accompagna il viaggio di Goljadkin verso il manicomio. Un barlume di coscienza accompagnato da “un grido” non certo dalla parola; una coscienza che si presenta solo come presentimento e che si raccoglie tutta in quel gesto disperato, descritto con uno schizzo da Dostoevskij: “il nostro eroe gettò un grido e si afferrò il capo”.  È, forse, un Nietzsche ante litteram? Può darsi.

Infatti, il signor Goljadkin si sdoppia, si allontana da sé si aliena nel suo doppio Jakov Petrovič, mostra la sua alienazione che si fa presente come alter ego, come altro da sé, a lui stesso irriconoscibile; ma la sua alienazione è la nostra stessa alienazione, il nostro stesso sdoppiamento, che l’Apparato assorbe in sé, perché l’Apparato prima disgrega e poi assorbe. In questo senso, il progresso coincide con l’efficienza dell’Apparato con il raggiungimento del pieno regime della macchina stessa: l’Intelligenza artificiale, il cyborg, e l’assorbimento dell’uomo nella iper-natura virtuale, generata dalla onnipresenza della tecnica. Nel Signor Goljadkin è anticipata la nostra condizione nell’ultramodernità, dove ultramodernità intendiamo quel processo che caratterizza il nostro tempo; tempo in cui “al massimo dell’alienazione, dice chiaramente Augusto Del Noce[iv], “corrisponde la scomparsa del concetto di rivoluzione”: dove alla rivoluzione si stupisce la lotta per la modernità. Ecco come tutte le forze, cosiddette progressiste, coincidono con lo smisurato sviluppo della tecnica, cortocircuitando politicamente sinistra e capitale, in un abbraccio mortale con la destra liberista.

Di quest’epoca, inconsapevolmente, il povero Signor Goljadkin è la maschera, spogliata da ogni finzione. Ma in che senso, il personaggio dostoevskijano è l’uomo alienato del nostro tempo? Nel senso che egli semplicemente è la corteccia vuota, il pezzo dell’ingranaggio che, quando tenta di essere se stesso (ma chi è in fondo il Signor Goljadkin?) ovvero di vivere, è impacciato, fuori posto, ridicolo (ah con quale maestria Dostoevskij ci sa descrivere tutto questo!), perennemente altrove. Essere, come voler essere se stesso, e dover essere son lo “io” e il “tu” di questo poema gogoliano, perfettamente incastonato nella spettrale san Pietroburgo. Questo fa del Signor Goljadkin un uomo del nostro tempo; questo nostro tempo, in cui la perversità dell’Apparato assorbe financo la mente e non più solo il nostro corpo. Tempo della spersonalizzazione, della riduzione dell’uomo all’erranza nella follia, quando si tenta di scire dall’ingranaggio dello stesso Apparato. La condizione di Jakov Petrovič Goljadkin è lo spettro della nostra condizione e ciò perché proprio verso questa condizione ski dirige la nostra civiltà. L’Apparato, novello Moloch, divora e uccide, svuota, spersonalizza e sostituisce alla persona l’identità funzionale.

 



[i] MARCEL Gabriel, Homo viator, Borla, Roma, 1980.

[ii] Ho preferito scegliere il termine ultramodernità al posto di postmodernità per definire il nostro tempo, in quanto il postmoderno sembrerebbe essere un qualcosa di diverso dalla modernità; in realtà, questo nostro tempo è caratterizzato dal venire alla luce, in maniera completa e definitiva, proprio dell’essenza stessa della modernità.

[iii] REVAULT d’ALLONES Myriam, La crisi senza fine, Obarrao, Milano 2014, p 43.

[iv] DEL NOCE Augusto, Il problema dell’ateismo, Il Mulino, Bologna, IV ed. 1990, p 314.