Pagine dostoevskijane 2

Tipi ultramoderni

ovvero tipi umani nell’ultra-modernità: Raskolnikov, ovvero del superuomo

 

 

Due parole, quali premessa.

Con Dostoevskij ci troviamo immediatamente dinanzi ad un paradosso, è uno scrittore ma, in realtà, è un vero filosofo, non nel senso che abbia elaborato un sistema filosofico, ma nel senso che egli affronta in maniera tipologica quelli che sono i problemi fondamentali che l’uomo si è sempre posto. Nessuno, infatti, come lui ha sondato gli abissi della libertà umana vivendoli e narrandoli dall’interno. I suoi personaggi sono idee, idee che camminano, come ha ben evidenziato Berdjaev, ed in questo, per certi aspetti, somiglia a Kierkegaard e a Nietzsche; non a caso viene ritenuto essere l’iniziatore della corrente russa dell’esistenzialismo. Ma anche questo, in realtà, non è che un accomodamento di storiografia filosofica, Dostoevskij, infatti, è molto più di tutto ciò.

Volendo, dunque, limitarci solamente ad uno studio di alcuni aspetti filosofici del suo pensiero su trovano temi che vanno dall’etica alla metafisica, dalla religione al sociale, dal Cristianesimo alla politica; e non mancano spunti davvero interessanti per questi ultimi tempi apocalittici che sitiamo vivendo. Indubbiamente, come ha perfettamente descritto Berdjaev, il cuore profondo della filosofia di Dostoevskij è il tema della libertà, la libertà cristiana. Sì, il vero obiettivo di questo gigante della letteratura russa e del pensiero mondiale è stato descrivere cosa accade all’uomo quando si separa da Cristo, i suoi personaggi sono l’equivalente della descrizione fenomenologica di quello cha accade all’uomo quando si separa da Dio, separandosi da Cristo. In lui c’è un cristocentrismo che posiamo trovare solo nella grande tradizione mistica cristiana Ortodossa e Cattolica e, per quanto riguarda i mistici della Chiesa Cattolica basti citare S. Francesco, Sante Teresa d’Avila, S. Giovanni della Croce, i santi monaci ortodossi, cui sicuramente si è ispirato.

Si è detto che Dostoevskij è lo scrittore meno russo tra i russi perché in lui traspare più che lo spirito russo la decadenza moderna, ma ciò non è esatto né corretto. Berdjaev scrive nel suo La concezione di Dostoevskij (124): “Dostoevskij è russo fino in fondo, come uomo e come scrittore. Non si può immaginarlo fuori dalla Russia. Da lui si può conoscere l’anima russa. Egli stesso ne è un enigma, e ne racchiude in sé tutte le contraddizioni. Da Dostoevskij gli uomini dell’Occidente conoscono la Russia”. Non solo, ma Dostoevskij ha sentito, anticipato e descritto, la tempesta che si stava per avventare sulla Russia e poi sul mondo; in ciò è stato veramente profetico. Molto si è scritto su di lui e molti ha scritto in maniera eccellente su di lui, chi analizzando la psicologia dei personaggi dei suoi romanzi, chi appiccicando il metodo freudiano ai suoi scritti quale criterio ermeneutico, chi quello sociologico o politico, nulla di tutto ciò coglie, a nostro modesto parere, il senso profondo del pensiero di Dostoevskij. Non è nostra intenzione stilare una galleria dei personaggi dostoevskijani allo scopo di far emergere da lì il suo pensiero e, quindi, il nucleo della sua filosofia; nostra intenzione è, invece, esporre ciò che ci parso essere l’unità profonda di tutta la sua opera, il suo centro catalizzatore …

 

Raskolnikov

Nell’accingermi a svolgere questo compito non posso non tenere presente che non ci si trova dinanzi ad un sistema concettuale ma dinanzi all’uomo stesso che agisce nell’orizzonte della sua libertà. Certo, non si può, né si deve, prescindere dall’opera ma l’approccio alla sua opera non sarà da parte nostra di tipo letterario, piuttosto filosofico. Tra gli uomini del sottosuolo, il giovane Raskolnikov è il più bilioso, forse, quello che più di ogni altro è “cattivo e malato”, come dice di sé il protagonista delle Memorie del sottosuolo. Anche l’afoso clima dell’estate pietroburghese contribuisce ad esaltare lo stato eccitato, eccentrico, patrologico dello studente universitario. Il suo stambugio è l’anti-crisalide che partorisce non la farfalla ma il pazzo superuomo, il folle assassino di Dio; poiché, da Caino in poi, “chi uccide un uomo uccide il mondo intero” come recita l’adagio. Seguiamo Dostoevskij nella descrizione della malattia, del delirio di onnipotenza che colpisce l’uomo quando cancella Dio dalla sua vita.

All’inizio di un luglio caldissimo, sul far della sera, un giovane uscì dallo stambugio che aveva in affitto nel vicolo S., scese in strada e lentamente, quasi esitando, si avviò verso il ponte K.”[i].

Così inizia il romanzo, la storia di questo giovane superuomo che tanto affascinò Nietzsche, al punto da far sì che il filosofo tedesco, giunto ormai sulla soglia dell’abisso della sua follia, nella gelida Torino, si immedesimava  nell'episodio del sogno di Raskolnik, nel quale si racconta di un contadino ubriaco che, per puro divertimento, uccide il suo cavallo a frustate, tanto per far baldoria coi suoi compagni di bevute. Afa, e ombre, tenebre e arsura, fanno da sottofondo, da scenario, ai primi passi del Nostro. Ma non è tutto, in questo romanzo, in cui nulla è lasciato al caso, l’incontro o, meglio, l’essersi trovato presente, l’aver ascoltato il dialogo tra lo studente e il giovane ufficiale, in quella “trattoriuccia di infimo ordine”[ii], (плохенький трактиришко, recita il testo russo), dov’era entrato dopo aver impegnato l’anello di Dunečka presso la vecchia usuraia, è la manifestazione dell’azione tragica che in lui, nella sua mente alienata, ancora non aveva preso forma. Val la pena di citare per intero questa pagina del romanzo che, ritengo essere di importanza fondamentale per le implicazioni filosofiche che contiene. Ecco il testo:

"… sai che ti dico? Io quella maledetta vecchia l’ucciderei e la deruberei e, te l’assicuro, senza il minimo rimorso”, aveva detto lo studente accalorandosi.

Di nuovo l’ufficiale era scoppiato a ridere, mentre Raskolnikov trasaliva. Com’era strano tutto ciò!

“Senti, voglio farti una domanda seria,” aveva aggiunto lo studente, infervorandosi sempre di più. “Certo, io stavo scherzando, ma pensa un po’: da un lato, una vecchietta insulsa, assurda, miserabile, cattiva, malata, che non è utile a nessuno, anzi, è dannosa a molti, che non sa lei stessa perché vive, e che comunque presto morirà. Capisci? Eh?”.

“Capisco, capisco,” aveva risposto l’ufficiale, fissando attentamente il suo infervorato compagno.

“E adesso sentimi bene. Dall’altro lato, abbiamo energie giovani, fresche, che vanno in malora, così senza nessun appoggio, a migliaia; e questo succede dappertutto! Cento, mille opere e iniziative buone si potrebbero avviare e realizzare con i soldi della vecchia, che invece li ha destinati ad un monastero! Centinaia, forse migliaia di esistenze indirizzate sul giusto cammino; decine di famiglie salvate dalla miseria, dalla disgregazione, dalla corruzione, dalle malattie veneree, e tutto coil suo denaro. Ammazzala, prendi i suoi soldi e poi, con essi, mettiti al servizio dell’umanità e della causa comune: non credi che un piccolo delitto sarebbe compensato, in questo modo, da migliaia di buone azioni?

Per una sola vita, migliaia di vite salvate dal marciume e dalla rovina. Una sola morte, e cento in cambio: ma questa è matematica! Che cosa conta, sulla bilancia collettiva, la vita di quella vecchia tisica, stupida? Non più della vita di un pidocchio, di uno scarafaggio, anzi meno, perché la vecchia è dannosa. Rovina la vita agli altri…”[iii]

Questa pagina può essere definita il Prologo dell’anti-vangelo del superuomo, … il manifesto del superuomo recita: “Per una sola vita”, la vita della vecchia usuraia da uccidere, “migliaia di vite salvate dal marciume e della rovina”. Qui viene espresso il senso dell’anti-sacrificio anti-cristico, ovvero quello di uccidere un essere, ritenuto indegno di vivere e poi con il ricavato fare del bene all’umanità; già, proprio così, fare del bene all’umanità. Oh, sì! Com’ha ben espresso Solov'ëv[iv] l’anticristo sarà un filantropo ed un benefattore. E, ancora, fa dire Dostoevskij allo studente nella bettola: “ma questa è matematica”. Ecco l’essenza vera della civiltà della tecnica, di cui il liberalismo e il socialismo sono solo le facce di una stessa medaglia; e il liberismo e il comunismo solo gli esecutori fedeli. Ecco, la riduzione della qualità alla quantità, tanto sognata e teorizzata da Engels, con il suo “Diamat”. Tutto ciò non deve stupire, la vera triade è Lenin, Stalin e Ford[v]. Il taylorismo era, infatti, il sogno di Lenin e di Stalin, non solo del capitalismo, ma anche del comunismo; l’idea della riduzione dell’uomo alla macchina, della progettazione e pianificazione scientifica dell’uomo, l’idea del potere delle macchine di trasformare l’uomo e l’universo, di fonderli assieme armonicamente, sono tipici delle due teorie economiche. Il mondo come una fabbrica e l’uomo stesso, ridotto a merce e meccanismo, proprio da quel marxismo che avrebbe dovuto salvarlo e che, oggi, come materialismo senza dialettica e senza sintesi, è diventato la filosofia della borghesia vincente tinta di rosso liberal. Ma Dostoevskij, vero profeta russo che parla a tutta l’umanità, lo aveva, in un certo senso, presagito e descritto già nella patologia di Raskolnikov.

Il delirio della modernità, come luogo della negazione della “trascendenza verticale”, si fonda si due concetti: 1) emancipazione e riduzione della persona ad individuo; 2) cancellazione della condizione di peccato dell’uomo, della sua caduta iniziale e sostituzione dell’uomo a Dio.  Tutto ciò comporta lo schiacciamento del concetto di “libertà” su quello di “liberazione”. Su questo principio si basa il prossimo passaggio della nostra civiltà: liberazione dal proprio corpo e, tramite la tecnologia informatica e robotica, unione tra umano e macchina nell’info-spazio cibernetico. Tra l’altro, nell’orizzonte della tecnica, in questo tipo di società dove la condizione inziale dell’uomo è l’innocenza, come “innocenza del divenire”, ovvero tempo privo di colpa, al posto della condizione inziale della nostra storia umana come condizione di caduta e di peccato, viene meno la distinzione, e dunque il limite, tra ciò che è secondo natura e ciò che è contro-natura. “Eh, mio caro “, dice lo studente nel passo del romanzo su citato, “la natura si può correggere e dirigere”, ed è vero, ma dove e come? verso quale telos? Sta tutto qui il problema. (…) “Che cosa conta, sulla bilancia collettiva, la vita di quella vecchietta tisica, stupida e malvagia?

E così, questo prototipo dello Übermensch ante litteram è il nichilista progressista per il quale la morte di un uomo non conta niente se poi, da quella morte, si può iniziare un processo di azioni il cui fine sarà il bene dell’umanità. Cos’è, infatti, la morte della “vecchia” usuraia per il “giovane” Raskolnikov? Qui c’è un tema antropologico che, finora, non mi pare sia mai stato trattato dagli studiosi di Dostoevskij: quello, appunto, dello scarto generazionale. In fondo, è proprio lo spirito del progresso che ha trasformato l’antico in vecchio.

In questo romanzo, Dostoevskij affronta il tema dal punto di vista antropologico; sarà ne I demoni che lo stesso tema verrà affrontato da un punto di vista sociale e politico. L’usuraia, questa sarebbe la sua colpa peggiore, è anche vecchia; è, dunque, simbolo della sclerosi, di ciò che si è fossilizzato, di ciò che deve essere abbattuto e superato, se si vuole costruire una nuova umanità. Raskolnikov compie il male, ma è in lotta con se stesso, in lui permane un barlume di umanità. È solo, separato dal suo popolo. Ecco un elemento no ancora sufficientemente sottolineato. Il narodničestvo (народничество) dostoevskijano qui emerge con estrema chiarezza, un populismo religioso che permea tutta la sua opera; un narodničestvo religioso che, per essere pienamente compreso, va collegato al potere salvifico del suolo russo, della Santa madre Russia. Qualcosa di simile al motto di Bellarmino: “Extra Ecclesia nulla salus”, determinato dal differente rapporto tra Sacerdozio ed Imperium che c’è tra Oriente e Occidente e, in particolar modo, da come questo si è sviluppato in Russia.

Raskolnikov, dunque, si è separato, sua sponte, dal popolo russo che è la Chiesa russa (includendo ovviamente in esso anche il sacerdozio). Dostoevskij non a caso ce lo presenta, fin dall’inizio, in questo modo, solo nel suo stambugio. Ma Raskolnikov, il cui nome esprime con chiarezza il suo essere separato (Raskol, e letteralmente Raskolnikov раскольников significa scismatici, separato dal popolo, nel suo significato appunto religioso), possiede in sé ancora una scintilla di bene, di luce: la sua coscienza che lo tormenterà sin dall’inizio e che sarà il suo inflessibile e incorruttibile accusatore fino a condirlo alla confessione del suo crimine e, così, ad iniziare il cammino di redenzione che lo ricongiungerà con la sua terra e con il suo popolo. La sua coscienza non è ancora completamente morta, può redimersi, la grazia in lui può ancora agire; il peccato, riconosciuto come tale, può essere espiato.  E tutto ciò grazie anche al legame affettivo familiare, ancora potente, della madre e della sorella, qualcosa di vivo rimane in lui.

Insomma, Raskolnikov è un uomo russo in quanto uomo ontologicamente   pre-ultramoderno, in lui la ultramodernità, intesa come epoca della morte di Dio pienamente compiuta, non agisce ancora pienamente su di lui, non così con i protagonisti de I demoni che anticipano quelli della generazione del ’17. Egli, ripetiamo, può cioè iniziare un cammino di conversione, che è anche cammino di riconciliazione con la terra, con l’humus da cui viene, un cammino verso Oriente, è questo infatti, il senso del suo esilio in Siberia.



[i] Fëdor M. Dostoevskij, Delitto e castgo, Parte I, cap. I

[ii] Ibidem Parte I, cap VI

[iii] ibidem

[iv] Cfr. Vladimir Solovëv, I tre dialoghi e il Racconto dell’anticristo, Fazi editore, Roma, 2017, p. 158.

[v] Cfr.  Orlando Figes, La danza di Natasha, Einaudi, Torino, 2008, pp. 395 – 397 e Tzvetan Todorov, L’arte nella tempesta, Garzanti, Milano, 2017, pp.  14 – 22.