Il concetto di popolo nel pensiero di Edith Stein

Il concetto di popolo nel pensiero di Edith Stein

Il Dio è per noi la massima misura di tutte le cose

assai più di quanto lo sia, come si suol dire, l’uomo

(Platone, Leggi, 716 c)

 

 

    

            Caratteristica della comunità di popolo

Nella sezione intitolata La persona come essere sociale, dedicata appunto allo studio della dimensione sociale della persona umana, sezione che si trova ne La struttura della persona umana[i] Edith Stein scrive: “prendere in considerazione un individuo umano isolato è un’astrazione. La sua esistenza è un’esistenza nel mondo, la sua vita in comunità[ii]. E tutto questo, ovvero il suo essere sociale, è costitutivo, anche se non risolutivo ed esaustivo, dell’essere della persona umana. Tra le varie forme sociali, da lei analizzate, assume una rilevante importanza il concetto di “comunità”, intesa come “struttura nella cui formazione giocano un ruolo importante le persone, i loro atti sociali e i loro rapporti sociali”. Questa afferra le persone, prosegue poi la Stein “sin nel profondo e dà loro un’impronta duratura”[iii]. Tutte le comunità umane, secondo la nostra autrice, poi trovano il loro fondamento “sulla comunità universale che le abbraccia tutte: è l’umanità[iv]. La comunità, che per la Stein assume un ruolo fondamentale, è la comunità di popolo. Vogliamo sottolineare con forza l’aspetto centrale di questa riflessione nello sviluppo del pensiero sociale di Edith Stein per due motivi precisi: 1) perché in quanto ebrea tedesca, vissuta in Germania durante il nazismo e morta nel 1942 ad Auschwitz, in un tempo in cui l’attacco antisemita è rivolto in primis al popolo ebraico, avverte in prima persona il conflitto tra il suo popolo di nascita e il suo popolo di elezione, quello appunto tedesco. Vive cioè pienamente la frattura tra i due popoli, nonostante il processo di integrazione iniziato all’epoca dell’Illuminismo con l’Assimilazione; e 2) in quanto ebrea – cristiana vive dunque una doppia solitudine, sia rispetto ai tedeschi sia rispetto al suo stesso popolo ebraico. Perciò la riflessione intorno alla comunità di popolo e ai legami su cui si fonda è, dal punto di vista esistenziale, senza dubbio struggente e ontologicamente di una portata universale che trascende, illuminandola, la sua vicenda personale.

Escluso il problema della razza, per ovvi motivi, la sua riflessione si concentra sul concetto di popolo, inteso come “comunità nel senso più ampio del termine, cioè una formazione individuale cui appartengono persone individuali[v]. Se si differenzia dalle altre formazioni sociali per la sua estensione, la comunità di popolo è parte dell’umanità eppure trascende le persone in quanto formazione dotata di vita propria. “È proprio del popolo avere una vita che si distingue dalla vita del singolo che vi appartiene[vi]. Questa vita, intesa come vita del popolo si dispiega nel tempo come storia, dice la Stein. E questo è un dato estremamente interessante, il concepire cioè la storia come vita di un popolo che si dispiega nel tempo significa intendere la storia come bio-loghia del popolo, come traccia della sua vita complessiva, organica e spirituale, come sinolo, avrebbe detto Aristotele. Il che significa ricondurre la storia allo spazio, alla dimensione cosmica del suo accadere, senza perdere la sua destinazione, il telos, verso il cielo. Infatti, dice la Stein, “chiamiamo vita di un popolo storia” al punto che “ciò che denominiamo storia è esclusivamente, se non essenzialmente, storia di popoli[vii]. Questa storia si dispiega in uno scenario: la terra, “ed ogni popolo abita, per svolgervi la sua storia, uno spazio della terra[viii]. Terra che il popolo possiede, se non per sempre e se non sempre negli stessi confini, per un tempo stabile affinché possa realizzarvi la sua dimora. Ogni “popolo compie azioni e ha destini”[ix], dove il soggetto dell’esperire è il popolo e non il singolo essere umano. Qui destino va inteso come vocazione, appello della grazia, compito specifico, determinato dalla sua particolare natura di popolo che, se docile alla grazia di dio, diventa missione nell0economia della storia della salvezza e, perciò, suo specifico servizio all’umanità. Bisogna tener presente però, e su questo la Stein insiste molto, che “il popolo non è reale al di là e al di fuori dei suoi membri, ma in essi[x]. Anche nelle azioni dei singoli si manifesta la soggettività di un popolo, anche l’uomo politico agisce come parte del popolo e in nome del popolo prima che della sua parte e contribuisce alla realizzazione del destino di quel popolo; certamente per la Stein la dimensione dell’essere popolo di un popolo non si esaurisce nella sua storia terrena, come vedremo più avanti, ma si concepisce come finalizzata all’incontro con Dio del singolo uomo prima e dell’umanità poi. In più “visto da chi vive coscientemente come membro del popolo, anche l’agire degli altri acquista un senso che va oltre la vita individuale. Affinché un popolo esista come popolo e non come moltitudine, è necessario “che in qualche membro sia viva la coscienza di appartenere ad una totalità[xi].

Volendo comprendere meglio cosa sia la vita di un popolo, la Stein distingue una vita “interiore da una vita esteriore”, intendendo per vita esteriore l’insieme delle sue relazioni con gli altri popoli. Con vita interiore, invece, si può intendere con la filosofa di Breslavia l’autoconfigurazione, l’autocomprensione, l’autoespressione, ovvero le forme dello spirito: lingua, arte, cultura, etc. In generale, è la cultura di un popolo, intesa come sua espressione più propria, a conservarlo in vita, al punto che la Stein afferma che “le idee di popolo e cultura mi sembrano richiamarsi vicendevolmente[xii]. Questa produzione del popolo è una unità di senso, proprio peer questo il popolo, come l’umanità è esteso “a tutte le funzioni vitali che sono essenzialmente creative e la cui durata consiste nel tempo in una serie di generazioni”[xiii]. Anche i popoli possono, come tutte le forme organiche, estinguersi, è vero, esistono infatti le etnogenesi, che provengono da ceppi familiari originari, come per esempio il popolo di Israele e altri, anche se la ricostruzione storica può essere complessa; ma anche subire innesti, trasformarsi, rigenerarsi svilupparsi. Edith Stein individua delle costanti nella etnogenesi dei popoli che sono: 1) la comunità di popolo può fondarsi sul legame di sangue, ma non lo presuppone necessariamente; 2) a questo legame si deve aggiungere una comunione spirituale; 3) non di regola popolo e Stato si identificano; 4) un popolo può sopravvivere alla sua forma statale; 5) lo Stato, vedi l’America del Nord, può precedere la nascita di un popolo[xiv]. In quest’ultimo caso ci troviamo di fronte ad un vero esempio di ingegneria sociale. Ma vi è popolo per la Stein se e solo se vi è un minimo di “comunità di vita”.  Ecco perché uccidere la comunità di vita di un popolo, smembrandone le parti, o colpendo la sua cellula originaria, cioè la famiglia, è già uccidere il popolo. Infine, ogni popolo in quanto comunità ha un suo proprio carattere vitale, che lo contraddistingua da tutti gli altri popoli. Solo quando il popolo viene ridotto a moltitudine di schiavi questo carattere viene meno si eclissa e a volte, può anche sparire del tutto.

 

Relazione del singolo con il popolo

Che relazione c’è tra il singolo e la comunità di popolo? Si chiede ora la Stein. Dalla ovvia esistenza di un popolo si deduce la nascita del singolo come parte di esso. Inoltre, “dal momento della sua nascita la comunità di popolo lo abbraccia mediante tutto l’ambiente da essa improntato e, nella misura in cui progressivamente lo accoglie in sé spiritualmente, gli conferisce un’impronta corrispondente al carattere di popolo, opera per conformarlo al tipo del popolo[xv]. Esiste quindi un popolo italiano, uno francese, uno ebraico, etc., ma non esiste un popolo europeo, sebbene lo si possa costruire a tavolino per mezzo dell’ingegneria sociale, dopo averne prima costruito uno Stato, anche se un’operazione del genere è destinata a fallire, per la natura e la storia stessa dei popoli europei. Tuto questo anche se i popoli europei hanno una matrice comune e un destino comune che proviene dalla stessa origine: il medioevo cristiano e le radici greco-romane.  E questo vale, secondo la Stein, “anche per colui che è nato in un popolo, ma non da questo popolo (ad esempio il figlio di genitori tedeschi nati in USA)[xvi]. Pur non coincidendo legame di sangue e comunità di popolo, essa, la comunità di popolo comprende in sé il singolo. Infatti, la Stein cita un esempio molto utile per comprendere l’attuale possibile rifiuto da parte di immigrati di seconda e terza generazione in Europa, nonostante possano esistere valide politiche di integrazione messe in atto dagli Stati che accolgono. Ella dice: “se una famiglia di emigranti si mantiene il più possibile separata dall’ambiente in cui vive; ancor di più, se vive in un’intera comunità di emigranti, nei suoi discendenti accadrà che il tipo di comportamento del paese di origine si modificherà poco[xvii] . esistono dunque, comunità di immigrati che vogliono sì godere dei benefici del paese accogliente ma senza uscier completamente dal contesto della loro comunità. Questo fenomeno, comune a tutte le forme di emigrazione, è più forte, o per motivi religiosi o per motivi socio-etnici, in alcune comunità di popolo che emigrano rispetto ad altre. In alcuni casi, ciò può accadere o per distanze incolmabili di storia e cultura o per motivi culturali profondi. L’integrazione, quindi, non è mai un fatto che riguarda il singolo da integrare, ma la comunità di appartenenza e la comunità che accoglie; e non sempre questo processo è possibile. A volte, fattori, religiosi, sociali, politici, impediscono che ciò possa accadere rendendo utopiche le politiche di integrazione, non stante tutte le belle intenzioni e le motivazioni del paese accogliente. Il rifiuto dei modelli culturali e sociali del paese che accoglie può essere determinato dalla volontà di conservare il più possibile l’appartenenza al proprio popolo. In questo contesto la cittadinanza diviene strumentale, per il semplice fatto che non ha come scopo quello di entrare a far parte di un nuovo popolo come singoli, facendone propri i principi costitutivi ed i valori, ma solo per ottenere i vantaggi sociali che provengono dalla cittadinanza. Dove c’è separazione non c’è trasformazione del tipo.

La comunità di popolo che si dispiega nel tempo, trascendendo le generazioni, è, dunque, secondo la Stein, la sua storia; ed entrare a far parte di un popolo significa entrare a far parte della sua storia. Ma questo legame non impedisce che il singolo possa distaccarsi dal suo popolo e aderire ad un nuovo popolo. Vivere quale membro di un popolo è una relazione biunivoca, nel senso che è sia vivere del patrimonio ereditario del popolo sia incrementare l’essere del popolo con il proprio essere. Certo, l’essere personale non si esaurisce nella sua appartenenza, anche valoriale, al popolo poiché “esiste una responsabilità del singolo per il suo popolo, ma c’è qualcos’altro che egli deve proteggere e di cui deve rispondere” ed è la sua relazione, in quanto uomo, con “Colui che tutto abbraccia con lo sguardo[xviii]. E questo perché la vita di un popolo è anch’essa un dato finito, temporalmente parlando, che si misura nel suo essere dinanzi a Dio; l’uomo come singolo e come popolo conserva la sua libertà, Dio infatti non impedisce all’uomo o al popolo di misurare il senso del suo essere eliminando Dio quale misura. Inoltre, afferma la Stein, “un popolo no è un’associazione che nasce per volontà di alcuni individui. Deve la sua esistenza ad un’unica idea[xix]; ciò significa, tra le righe lo si legge benissimo, che la Stein esclude la teoria contrattualistica della nascita dello Stato come fondazione dello Stato moderno perché la teoria contrattualistica prescinde proprio dall’idea di popolo e ritiene l’uomo come individuo, già sradicato dalla comunità di popolo. Infatti, la Stein concepisce la comunità, e quindi anche la comunità di popolo, come organismo. In un suo precedente scritto, che appartiene a quella che la Ales Bello definisce “la trilogia fenomenologica di Edith Stein[xx], la filosofa di Breslavia concepisce la comunità come qualcosa di diverso dalla società proprio perché “diversamente dalla società la caratteristica della comunità consiste nel fatto che essa non è prodotta o annullata, fondata o dissolta, da un atto arbitrario, piuttosto cresce e si estingue proprio come un essere vivente[xxi]. Lo scopo della sua esistenza non è esterno ad essa come lo è per la società, ma in quanto organismo il suo scopo è immanente a sé, coincidendo con la sua tessa formazione.  Dato che la vita del singolo non si esaurisce nella vita della comunità di appartenenza può quindi avere con i membri di un altro popolo relazioni diverse da quelle che le due comunità di popolo hanno tra loro e viceversa. Molto importante è la relazione che esiste tra Stato e popolo. Intendendo, cosa che la Stein studia in un precedente scritto intitolato Una ricerca sullo Stato[xxii], la sovranità come l’esercizio legittimo della forza e del diritto ne consegue che necessariamente, anzi quasi mai Stato e popolo coincidono. Infatti, “dalla equivalenza fra stato e sovranità deriva, inoltre, la separabilità fra comunità statale e comunità di popolo, che spesso sono ritenute necessariamente connesse l’una all’altra, se non identiche[xxiii]. Certo, lo stato si fonda su di una comunità ma non ne esaurisce l’essere, infatti nel Medioevo, pur esistendo la comunità di popolo non esisteva la comunità statale. La radice di tutto ciò sta, secondo la Stein, nel fatto che “mancava del tutto l’idea della legislazione e del diritto positivo come separato dalla legge naturale, “ciò che è giusto è stabilito da sempre[xxiv]. Dunque, la legge umana traduce nella polis l’ordine divino di cui il sovrano è mediatore, il che vuol dire che la lex humana non è sorgiva ma derivata. Tutto ciò, a detta di Edith Stein, perché “alla base della concezione medievale si trova l’idea di un diritto puro che non è ancora separato dall’idea della moralità”[xxv] e, quindi, conclude l’allieva di Husserl, “se manca l’idea del diritto positivo viene meno anche quella del potere legislativo. Il monarca che appare come il momento più alto dell’ambito pubblico medievale, non è la fonte del diritto, ma il suo difensore designato”[xxvi]. Perciò non c’è Stato, in quanto, “dove manca l’idea del diritto positivo, là non può essere compresa – come si deduce dalle nostre considerazioni – l’idea di Stato[xxvii], conclude la Stein. Tutto ciò sta a significare che lo Stato sorge come creatura tipica della modernità, come sua invenzione, per legittimare le strutture nazionali al di fuori della compagine imperiale che nel Medioevo assieme alla Chiesa governava il popolo di Dio.

Quanto finora detto non esaurisce per la Stein l’essere della persona che è tale in quanto è il “tu” di Dio. Come infatti il popolo non può esistere senza i suoi membri e pur non essendo, in quanto comunità di popolo, la semplice somma dei suoi membri; l’essere dell’uomo non si liquefa totalmente nell’essere parte di un popolo. La sua intima natura gli è talmente propria che solo in Dio trova la sua ragion d’essere[xxviii]. Per concludere, possiamo quindi affermare che la concezione della Stein non è assimilabile al liberalismo moderno, il quale concepisce l’uomo come individuo separato dalla comunità di popolo, sradicato dal suo naturale humus, ovvero la polis; e non è nemmeno assimilabile alla concezione collettivistica socialista (sia di destra che di sinistra). Il suo è un personalismo politico, una nuova forma di populismo personalista cristiano che trova il suo equivalente in Berdjaev e nel concetto russo di narodničestvo[xxix] per giungere fino a Dostoevskij. Da quanto punto di vita, ci pare di poter affermare che quello della Stein è una forma di populismo religioso.

 



[i] STEIN Edith, La struttura della persona umana, Roma, Citta Nuova, 2000, presentazione di Angela Ales Bello.

[ii] STEIN Edith, op. cit. p. 187.

[iii] Ivi, p.189.

[iv] Ivi p. 190.

[v] Ivi p. 199.

[vi] Ivi p. 200.

[vii] Ivi p. 200.

[viii] Ivi p. 200.                                                                                                                                                                         

[ix] Ivi p. 200.

[x] Ivi, p.200.

[xi] Ivi, p.201.

[xii] Ivi, p. 202.

[xiii] Ivi, p. 202

[xiv] Cf. cit p. 203.

[xv] Ivi, p. 204.

[xvi] Ivi p. 204.

[xvii] Ivi p. 205.

[xviii] Ivi, p. 210.

[xix] Ivi, 213.

[xx] ALES BELLO Angela, Presentazione, in STEIN Edith, Psicologia e scienze dello spirito, Roma, Città Nuova, 1999, p. 7.

[xxi] Stein Edith, op. cit. p. 277.

[xxii] STEIN Edith, Una ricerca sullo Stato, Roma, Città Nuova, 1993. Anche questo testo appartiene alla suddetta trilogia fenomenologica.

[xxiii] Stein Edith, op. cit. p. 31.

[xxiv] Ivi, p. 84. Non si può quindi confondere la lex naturalis di cui parla S. Tommaso con il diritto positivo, in quanto la prima si ricava dalla legge naturale, il secondo non necessariamente, essendo appunto positum, ovvero posto in essere dal legislatore.

[xxv] Ivi, p. 84.

[xxvi] Ivi, p.84.

[xxvii] Ivi, p. 85.

[xxviii] Cf. Edith Stein, LA struttura della persona umana, cit. p. 213.

[xxix] Con il termine narodničestvo, da narod popolo si intende appunto quella concezione che ritiene la comunità di popolo precedente l’individuo seppur neon esauriente del suo essere persona. A tale scopo si veda la sua brillante opera sul problema della libertà, pubblicata in italiano da Bompiani. Cf. BERDJAEV Nikolaj, Schiavitù e libertà dell’uomo, Milano Bompiani, 2010, in particolare il capitolo III in tutte le sue sezioni, pp. 377 – 607. Inoltre, è interessante consultare anche BERDJAEV Nikolaj, La concezione di Dostoevskij, Einaudi, Torino, ultima edizione 2002, i capitoli VI e VII in particolare.