Sullo stato della nostra scuola
Che la Riforma della scuola, da quel binomio di geni che furono Berlinguer e De Mauro, non ha fatto che sottostare al dogma marxista, che tanto piace al capitalismo postmarxista, secondo cui la società civile si deve appiattire al sistema produttivo e ad essa adeguarsi in tutto e per tutto, è cosa ormai acclarata. Questa è infatti l’anima della “riforma senza fine” che ha ucciso il principio umanistico della nostra scuola, la quale, invece, mirando alla formazione globale della persona, di quella cultura umanista e scientifica, se ne faceva un vanto. Paradossalmente, proprio quell’impianto che ci ha resi grandi, e tali ci conserverebbe con appena qualche ritocco, è divenuta un intralcio per poter creare lo stupido specialista di cui l’Apparato ha urgente bisogno in quest’epoca dominata dalla tecnica.
Il sistema produttivo, e la società del controllo capillare, hanno bisogno non di uomini ma di tecnici, di gente che sia versatile in tutto, che obbedisca e che sia facilmente spostabile da un posto all’altro, senza radici, senza cultura, senza più “Humanitas”; di uomini, insomma, non-più-uomini; non di persone ma di cose. La tradizione umanistica della nostra scuola che conservava, sia pure in forma laica, i principi del Cristianesimo, frutto di due millenni di inculturazione, andavano distrutti. In più, le pressioni della “cricca di Bruxelles” e le urgenze di scaricare il centro dalle spese per addossarle alla periferia, hanno prodotto questo ossimoro esistenziale che è la scuola dell’autonomia, che di autonomo non ha un fico secco. Se si voleva rendere la scuola autonoma, le si doveva dare lo stesso potere decisionale che hanno le scuole inglesi private: Eton, per esempio. Se aziende devono essere aziende siano, in tutto e per tutto; giocoforza che lo Stato deve lasciare margini molto più ampi di autonomia nell’ambito della didattica oltre che in quello gestionale (come reperire fondi, ad esempio, indipendentemente dai gangli dell’apparato amministrativo e della sua filiera). Ma lo Stato giacobino non può, né vuole, rinunciare al monopolio sull’istruzione, da cui pilota le sue tappe della rivoluzione, facendo proprie le istanze mondialiste. Il paradosso dei paradossi della nostra epoca è che la rivoluzione è al potere. Ne è prova la perfetta riuscita della conquista dell’egemonia culturale con cui il giacobinismo ha infiltrato, e continua ad infiltrare, formandoli, i suoi uomini in tutte le casematte della società civile; farne la lista è inutile, tanto è evidente.
Detto questo, cosa si può fare e cosa si deve fare. Ben poco, in verità, date le sottili opposizioni ideologizzate di parti dell’Apparato, le pressioni delle lobbies (www.trellle.org, per citarne una). Comunque sia, andrebbe soprattutto la struttura Commissioni d’esame, dove i presidenti - presidi, ostaggio del RAV, per lo più puntano a screditare le altre scuole, dove i Commissari esterni, senza conoscere gli alunni vanno all’assalto di Fort Apache, mentre gli interni devono difendere il loro lavoro di anni e anni. Spesso, sembra di assistere, a quelle grandinate estive che rovinano il raccolto e il contadino sconfortato deve star lì a guardare. La logica di questa operazione risponde alla follia del rapporto tra fondi e risultati, numero di alunni ed autonomia, che ha reso le scuole tutte simili e tutte in conflitto tra loro, in particolare i Licei; Le scuole senza più identità, specificità, storia e radici, sono diventate solo finte aziende, in competizione per una fetta di materia da formare: gli alunni, appunto, il nuovo materiale umano, come si è soliti dire. Il sistema di formazione del credito scolastico dell’alunno è soggetto alle logiche illogiche del triennio, la didattica, che scivola sulle insulse competenze, abbandonando i contenuti che hanno formato generazioni di geni, artisti e scienziati che il mondo ci ha sempre invidiato, appare una raffazzonata collezione di eventi, di azioni sconnesse; tutto appare come uno show business. Per inciso, le Commissioni di tutti commissari interni bocciavano di più; e anche oggi esistono i diplomifici; ergo: questo tipo di esame non ha risolto affatto i problemi per cui fu messo in piedi. Ma c’è anche il fattore ideologia e la conquista del futuro che premono sull’organizzazione della scuola.
In tutto questo noi docenti, sanfedisti o giacobini che si sia, continueremo, per passione e per amore, ad insegnare; ci ritaglieremo, in questo orizzonte degli eventi, scie di luce e di senso, per formare uomini, perché per noi tutti educare rimane sempre un e-ducere; per noi la “Bildung” è costruire. Comunque sia, resisteremo alla deriva e pur attenendoci scrupolosamente alle indicazioni ministeriali, continueremo a formare l’uomo come, dall’antica Latinitas, attraverso il Medioevo e l’Umanesimo, da noi si è sempre fatto.