Tritos

 

Ci prende la morsa delle cose

da fare quando la piega del vento

lancia, sorda, tra i cespi delle rose

il suono acuto di tenore; lento

allora risponde, quasi soprano,

nel sibilare dell'eco, il tormento.

Quale altro nome tu, all'insano

canto daresti, Živago? Tormenta

la rada, la squassa come Vulcano,

quando nel frago dell'Etna la spenta

pietra cede ai colpi della fiamma

per diventare monile ch’ostenta

passio; ché del grezzo dea s'infiamma,

della fuliggine, del nero pelo,

dell'acido sudor’ e fuoco, mamma

vuol essere la Ciprigna e da stelo

il nettare suggere come balsamo,

avvinghiata all'ombra del melo,

nel prato che soltanto fa da talamo

spargere ovunque la strenna,

come poeta che intinge nel calamo

ogni furia delle Muse: la penna.

O come il dio che nell'antro bigio

batte martello; batte in garenna

giugno che crepa nel vento e nel grigio,

il ferro che ti fiata la scintilla,

quando ti si piega al tempo ligio

o nave che tra Cariddi e Scilla

la rotta e ogni cosa ha perso

e schizza in notte come favilla.

Mangiare? Ma quando nel nervo 'l verso

sale, a che ti serve mangiare,

e tiene in gioco l'intero universo?

Piuttosto, tutte nel vento le tare

di Dioniso spargere dalla porta

di Elea, ché Parmenide le rare

parole si tiene tutte per scorta

a districar intera la matassa.

Ma ora, tutta pallida che smorta

discende la sera come carcassa,

si alzano gli archi per l'intera

notte, su e giù, finché lassa

tra le mani del poeta la cera

sia forma, canto e pietra miliare

e la Musa gema come leggera

farfalla su, su fino alle Arae

dove, dalla coda dello Scorpione

pare dal suo destino vita ottriare.

Ma quando l'alba sale dal torrione

e dura ostenta la resa dei conti,

ché di nulla vuol più sentir ragione,

né dell'acqua che ride sotto i ponti,

né del cielo che indugia nel pianto

lì, sotto l'uscio degli orizzonti,

allora, solo riemerge il canto

come sfida o spola che all'uggia

della routine offre di nuovo l'incanto.