I pensatori religiosi russi e l’anima dell’Europa
Introduzione
La filosofia russa di Pavel Florenkij, Nicolaij Berdjaev, Vladimir Solovëv, solo per citare qualche nome, ha un compito attualissimo da svolgere nei confronti della filosofia, della cultura e della civiltà dell’occidente ed europea in particolare, inimmaginabile finora e, per certi versi, non ancora manifestatosi pienamente. Tale compito viene dalla missione che il pensiero russo è chiamato a svolgere nei confronti dell’Europa. Questa missione gli viene dal suo essere l’Oriente dell’Occidente, dal suo avere un compito e una responsabilità nei confronti dell’Europa che viene dalla Provvidenza, vichianamente intesa; l’altra Europa di quell’Europa che ha smarrito se stessa, che ha perso il legame con le sue radici e che non sa più nemmeno cosa è. Non è guardando all’estremo occidente, alla terra dell’ultimo tramonto e della sua filosofia decadente che l’Europa può ritrovare la sua anima. È invece guardando dentro l’anima del popolo russo che potrà ritrovare se stessa e riconciliarsi con suo destino, inteso come destinazione cui è chiamata e, quindi, ritrovare il suo compito storico. Dostoevskij in fondo aveva ragione quando diceva che un giorno l’Europa avrebbe scoperto la Russia come aveva scoperto l’America; a significare che l’Europa può dare nella cultura russa il riflesso della propria anima, ancora miracolosamente rimasta giovane nel monachesimo russo[i] e lì, per un arcano disegno della Provvidenza, preservata dalla profonda decadenza in cui invece oggi essa si trova. Ciò non significa affatto che, per ritrovare se stessa, l’Europa debba russificarsi, sarebbe un grave errore, significa piuttosto che, dalla filosofia e dalla cultura russa, dall’incontro con la sua sorella europea, l’Europa piò ritrovare la sua via, il senso e l’essenza del suo essere.
Il contributo fondamentale che il pensiero russo può darci sta nel suo debito con Platone, nel suo relazionarsi a Platone con la sensibilità tipica della cultura russa. Si badi bene, questo non è un contributo solamente filologico, quanto piuttosto una prospettiva, un modo di approcciare le cose che l’Europa in particolare e l’occidente, completamente materialista, ha perso. Mi riferisco in maniera specifica alla lettura che Pavel Florenkij fa di Platone e non solo, aprendo degli orizzonti interessantissimi per il discorso filosofico attuale. Di questo particolare aspetto del pensiero di Florenskij e dei pensatori russi in generale, se n’è accorto un fine studioso del Florenskij quale è Natalino Valentini. Questi, nel suo Saggio Introduttivo a La mistica e l’anima russa scrive: “L’intero percorso teoretico di Padre Pavel è nella sostanza una messa in questione radicale di ogni speculazione astratta, di ogni concettualismo o razionalismo, come ogni forma di scienza moderna centrata sula modello puramente descrittivo della realtà, piuttosto che sulla comprensione del suo significato”[ii]. Proprio in questo senso si è preferito parlare di “pensatori russi”, piuttosto che di “filosofi russi”; proprio per evitare che il significato che oggi la filosofia in Occidente ha acquisito impedisca di comprendere la diversa sfumatura, il diverso humus in cui è germinato il pensare russo che è, va ribadito, un pensare spirituale nella sua più profonda radice. È la dimensione dello spirito che la filosofia occidentale ha perduto e che va riconquistato al pensiero; è la dimensione della trascendenza verticale che dalla rivoluzione protestante e dall’illuminismo, con la conseguente secolarizzazione, si è andato sempre più perdendo in occidente. In fondo, fu l’apostolo Andrea che condusse Pietro da Gesù, com’è riportato dal Vangelo dell’Apostolo Giovanni: questo è il compito che la provvidenza ha assegnato alla Russia. Per il pensatore russo, di cui Pavel Florenskij è la vera matrice mistica, “il legame originario tra cultura e culto”[iii] è un legame ontologico ed inscindibile, vitale, è la parola giusta. Invece, in Europa, cosa accade?
- 1. Lo stato della crisi, tastando il polso il polso alla moribonda Europa
Il pensiero secolarizzato che pervade di sé l’Occidente, in ambito antropologico, ha ridotto l’uomo alle sue funzioni biologiche; ha abbassato l’uomo al livello dell’animale, facendo così propria la prospettiva humiana e alzato l’animale al livello dell’uomo, abbattendo le barriere tra le specie animali. Non si parla più di un’anima tantomeno dello spirito. Indubbiamente il processo ha radici lontane; è iniziato con Cartesio, ma per il nostro discorso questo è un elemento dato per scontato. La filosofia russa, direttamente e indirettamente, può ridare linfa al pensiero europeo; direttamente con i suoi autori, indirettamente con il suo approccio, la sua via (Odós, in greco). Qui sta la sua grande missione, qui il suo compito storico.
D’altra parte spetta all’Italia, culla della civiltà dell’Umanesimo e del Rinascimento, cuore dell’Europa cristiana, raccogliere questa sfida nella modernità, lottando titanicamente contro le forze della secolarizzazione che agiscono dentro e fuori la cattolicità europea. Augusto Del Noce ha perfettamente individuato la radice della crisi quando con chiarezza cristallina e forza tanto profetica quanto inascoltata. Ne L’Epoca della secolarizzazione[iv], pubblicato negli anni ’70 del secolo scorso, scriveva:
“Un giudizio storico che si formò in relazione ad un totalitarismo imperfetto rischia oggi di portare alla compiutezza del totalitarismo; compiutezza che non è possibile se non attraverso la correlazione tra l’eclissi pressoché totale della religione e un progresso tale della scienza da poter controllare i più riposti e i più privati angoli della vita individuale. Parlo di rischio, ma non nel senso di una semplice probabilità; questa eventualità è invece una certezza, se non interviene un fattore nuovo; e questo fattore nuovo può essere indicato con precisione: che la Chiesa Cattolica oltrepassi la sua crisi”[v] [corsivo nostro].
Dunque, una profonda crisi che i filosofi laici europei e nostrani non riescono a comprendere, proprio a causa delle radici immanenti e secolarizzate del loro pensiero; radici secolarizzate, che impediscono loro di cogliere l’aspetto trascendente e religioso del problema e, in primis, del pensiero stesso. Il pensare, infatti contiene in sé sempre una dimensione religiosa. Una profonda crisi, dunque, che ha radici principalmente religiose, le quali sono ben più antiche di quelle evidenziate da Del Noce nel ’70, ma che nella seconda metà del Novecento sono emerse in maniera inequivocabile. Ciò che per noi è qui interessante, al di là dell’analisi del testo delnociano, è che la radice della crisi va individuata in una crisi ermeneutica del pensiero cattolico intorno alla modernità; un errato giudizio che ha avuto conseguenze terribili per il pensiero teologico stesso.
Diamo ora una breve occhiata alle conseguenze di questa crisi, cominciando a chiederci che ne è della natura in una visione di tal genere. Lo facciamo a partire da una lettura filosofica di un prefatore odierno ad un saggio di Ortega y Gasset.
- 2. Sul concetto di natura, alcune considerazioni a margine
“Se Dio non esiste allora tutto è permesso”
(Fëdor M. Dostoevskij)
Nell’accingermi alla lettura della Meditazione sulla tecnica di Ortega y Gasset mi sono imbattuto nella Prefazione al testo di Luca Taddio, giovane e promettente docente di Estetica, dall’emblematico titolo: Tecnica e natura, un apparente conflitto nota introduttiva a Ortega y Gasset. Mi soffermo un attimo su alcuni punti di questa prefazione che trovo indicativi dell’intreccio tra tecnica, volontà di potenza ed erranza, che mi sembrano essere proprio i tratti caratteristici dell’ultra-modernità e che qui troviamo espressi, sia pure in forma implicita, tutti assieme. Mi soffermerò, dunque, su questo brano e, in particolare, su alcuni punti. Mi perdoni il paziente lettore se dovrò essere noioso, ma necesse est!
Il Taddio scrive: “L’identificare la spontaneità con la natura, contrapponendola all’artificiosità del prodotto della tecnica si fonda su una visione antropocentrica. La presunta immediatezza dell’una rispetto alla mediatezza dell’altra, ossia ciò che troviamo direttamente nella natura rispetto a ciò che è il risultato della nostra attività di produzione, sono distinzioni superficiali che non si inabissano verso il divenire in quanto tale delle cose artificiali o naturali che siano. Tale visione antropocentrica della natura ci fa dire ancora oggi che ci sono cose “contro - natura”. Può esserci qualcosa “contro” natura? Ciò che è possibile è anche naturale. Il fatto che esso si produca anche spontaneamente significa che la sua causa non risiede in una nostra azione, ma ciò non comporta un’assenza di causa. Se un fiore sboccia spontaneamente, oppure in una serra per mano dell’uomo, è un fatto contingente. Tale distinzione dipende dalla nostra prospettiva sulla natura e non dalla natura della cosa in quanto tale. Gli esempi si possono moltiplicare a piacere: non è meno naturale, in linea di principio, un bambino in provetta, un matrimonio omosessuale, la fecondazione assistita, l’eutanasia rispetto alla presunta spontaneità di questi eventi nel contesto definito naturale”[vi].
Ho ritenuto necessario riportare tutto il brano per meglio evidenziarne le aporie irrisolte e, a mio parere, irrisolvibili. Il brano può esser diviso grossomodo in tre parti, caratterizzate da affermazioni tra loro concatenate ma non argomentate a sufficienza. (1) da: “L’identificare…” fino a “…antropocentrica”. In realtà, è proprio vero il contrario e ciò è presto detto: nel suo accadere “spontaneo”, ovvero secondo necessità e legge, la natura bruta, cioè quella non dotata di intelletto e volontà, non fa che realizzare la sua verità ontologica che consiste, appunto, nel suo divenire necessitato secondo legge, rispetto a quel fine che è posto dal Creatore. L’agire dell’uomo, invece no; questo è un agire teleologico, rispetto a cui egli è chiamato ad aderire liberamente e che può volere o non volere. L’agire dell’uomo, inoltre, in quanto agire conseguente ad una scelta, è frutto di una deliberazione cui consegue una elezione, come insegnano Aristotele nell’Etica nicomachea[vii] e San Tommaso nella Summa Theologiae[viii] Difatti; mentre il primo nell’Etica afferma che “la scelta deliberata non è cosa comune anche agli esseri sprovvisti di ragione, desiderio ed impulsività sì”[ix], riferendosi anche agli animali bruti; San Tommaso, nella Summa Teologica I/II[x] nella risposta alla Quaestio 1, art. 1, il cui oggetto era stabilire “se appartenga all’uomo agire per un fine”, afferma che “le azioni umane sono azioni proprie dell’uomo” e “l’uomo si differenzia dalle creature non razionali, perché è padrone dei propri atti”[xi]. Da ciò deriva che son propriamente umane quelle azioni che dipendono dalla volontà; ed è proprio in virtù dell’intelletto e della volontà che l’uomo è padrone dei suoi atti. Qui sta la profonda differenza tra l’agire spontaneo, ma sempre teso ad un fine, della natura e quello dell’uomo.
2) Punto ontologico. Tale punto che, a nostro avviso, risente dell’ontologia severiniana cui il prefatore di Ortega Y Gasset implicitamente si rifà, va da: “la presunta immediatezza…” fino a “… artificiali o naturali che siano”. Soltanto da una prospettiva di pensiero che concepisce l’essere come volontà e questa come volontà di potenza, la cui base ontologica consiste nel concepire l’essere come tecnica, ovvero come ciò che si fa, si può giungere ad affermare che l’agire della natura e l’agire dell’uomo sono sullo stesso piano. Tra l’altro, solo in una visione di questo tipo l’essere dell’ente è agguantato e alla mano. È questa la vera visione antropologica che discende dall’avere risolto il problema dell’essere dell’ente all’interno dell’orizzonte di quell’ente che si pone la domanda sull’essere dell’ente, ovvero solo facendo propria, completamente o in parte, la riduzione dell’ontologia all’antropologia fatta da Heidegger.
La visione onto-centrica di Aristotele e quella teocentrica di san Tommaso, invece, consentono un approccio all’ante di tutt’altro spessore. La visione teocentrica, quella che concepisce la natura come creatura, concepisce il divenire dell’ente come realizzazione della sua verità ontologica. Solo così il nichilista può cancellare la differenza tra l’agire dell’ente privo di libertà, cioè privo di libero arbitrio, e l’agire dell’ente dotato di libero arbitro. Aggiungo che qui andrebbe specificata la differenza tra libertà liberata, cioè nella grazia e libertà non liberata, impacciata ancora dal peccato e del loro rapporto con il lume della ragione naturale, ma rimando ad altro articolo tale differenza, scusandomi con il paziente lettore. Entrambe, natura in quanto creatura, sia se dotata di ragione sia se priva, sono nell’agire orientate ad un fine che coincide con la loro verità ontologica. Ed è questo schiacciamento annichilente che conduce ad annullare la differenza tra gli enti creati, la legge di natura, e l’essere spontaneo dell’agire della natura priva di intelletto e volontà. È ovvio che per l’autore della prefazione l’essere è la tecnica e, all’interno di questo tutto, la tecnica stabilisce cos’è la natura dell’ente e il suo divenire, la sua teleologia.
In più, quando il prefatore afferma che “tale distinzione - riferendosi alla spontaneità dell’agire naturale – dipende dalla nostra prospettiva sulla natura e non dalla natura della cosa in quanto tale” non ci spiega affatto come il pensiero potrebbe cogliere la natura della cosa se non pensandola; cioè, vien voglia di dire che, il pensiero potrebbe cogliere la natura dell’ente al di fuori del pensiero stesso, quasi in una unio mistica di tipo plotiniano con la natura dell’ente che non tenga conto del pensiero. Ma nemmeno in questo caso andrebbe bene, perché non appena avuta andrebbe pensata e, dunque, sarebbe sempre la natura dell’ente colta attraverso l’atto del pensare. Come si può cogliere la natura dell’ente se non pensandola?
Prima ancora aveva affermato: “ciò che è possibile è anche naturale”. Ma anche questa affermazione, da cui discendono una serie di affermazioni a grappolo, che “si possono moltiplicare a piacere”[xii] (grassetto nostro), la quale è profondamente nichilista e non tiene conto, né volendo potrebbe, della differenza tra gli enti dotati di libero arbitrio e quelli privi. Da qui, come già mostrato, discende la negazione della differenza tra naturale e artificiale. Sicuramente la lezione humiana è stata fatta propria dal prefatore, che in questo modo rende manifesto lo stato della crisi di cui sopra. Pura follia, a nostro avviso; di tale posizione si può dire ciò che Aristotele disse di Parmenide: “A livello di discorso, queste affermazioni sembrano quadrare, ma a livello di realtà, pensare così è prossimo alla follia”[xiii], E noi aggiungiamo: agire in base a ciò, cioè affermando che la realtà è proprio quella descritta dalla prefazione, in cui i diversi agire si equivalgono, definendo possibile e perciò naturale, fa di questo tempo il tempo della follia filosofica pienamente dispiegata.
Per concludere questa breve descrizione patologica, aggiungo: avvertiamo, senza dubbio, che l’Europa si sgretola, che ha smarrito se stessa, proprio ora che crede, o finge di credere, di essere all’apice del suo senso, di aver raggiunto la realizzazione del suo compito storico, proprio abbandonando la dimensione trascendente e trascendentale del Cristianesimo (intendendo trascendentale in senso tommasiano) e, perciò, la cifra della sua identità, che è il cristianesimo, come da sempre detto da Papa S. Giovanni Paolo II. Avendo perso il suo senso attraverso e per mezzo della secolarizzazione, essa ha perso anche il legame con le sue radici greco – romane. La multietnicità, di cui si fa portavoce la decadente Europa, non è il dialogo tra i popoli, ma la creazione di un non-popolo di paria semi-schiavi, di una moltitudine senza identità, ma con plaghe di identità – le nuove tribù primitive in cui degenera la civiltà nel modello antropologico post famiglia (poliamore, poligamia, gender) – anche etniche in conflitto tra loro, in perpetua stasis, come teorizzato dai marxisti post-leninisti. È la non-terra, cui mira il progetto della società aperta, dell’ultra liberismo che sfocia nel neosocialismo più feroce e di cui la UE è il modello, il motore e la quintessenza. Parrebbe che l’esito finale di questo processo di ingegneria sociale e, allo stesso tempo di ingegneria antropologica, fondata sulla Intelligenza artificiale, sui big data e sulla robotica, non abbia altro fine che quello di riprodurre, in modo ultramoderno, la stessa condizione della società schiavistica dell’Antico Egitto. Infatti, come allora la società era divista in caste, di uomini non uguali ontologicamente tra loro: Faraone, Casta sacerdotale, nobili scribi, guerrieri, mercanto artigiani, contadini e schiavi; così la Nouvelle Société potrebbe, dico potrebbe, essere divisa in: Potenti e ricchissimi uomini della finanza, Tecnoscienziati, intellettuali engagé o organici e asserviti al potere, uomini dell’informazione e, infine, schiavi sub umani, masse sradicate e senza identità, amorfe indefinite nel loro genere nella loro etnia e nella loro identità, in un coacervo di magmatica carne umana al servizio dei pochissimi nuovi Faraoni della finanza mondiale.
A ragione Augusto Del Noce affermava, come già detto, ma vale la pena ripeterlo, che solo nel caso in cui “la Chiesa Cattolica supererà la sua crisi”[xiv] l’Europa ritroverà se stessa. Il compito che ci sta davanti è uno solo, ed è questo, ed è un contributo squisitamente socratico: scuotere l’Italia dal suo torpore, dal suo “sonno dogmatico”. Ma il paradosso profondo sta nel fatto che l’Europa è convinta di marciare verso la sua libertà compiuta; e con essa l’intero occidente. In realtà, ci stiamo avviando sempre di più verso un processo di asservimento e di svuotamento della libertà. La secolarizzazione, ovvero la convinzione che le cose del secolo, e con esse anche l’uomo, siano indipendenti dal Cristianesimo è il peccato originale della contemporaneità europea. Ma questo processo ha radici storiche profonde, che trovano nella rivoluzione protestante un loro momento fondante. Ritengo che sia proprio il contributo di pensatori come Dostoevskij, Berdjaev, Florenkij, Solovëv, Sergeij Bulgakov, solo per citare i più rappresentativi, a far emergere con chiarezza cristallina tale questione di fondo.
Qual è, dunque, il punto di rottura? Ovvero, qual è il discrimine che ci permette di capire a che punto è giunta la crisi radicale dell’Europa? “Crisi”, già, crisi. Il problema è che l’Europa, che si identifica oggi, con la sua modernità, si comprende solo a partire dal concetto di crisi, ritenendo che la crisi è divenuta il suo elemento costitutivo, la sua più intima essenza. La scrittrice francese Myriam Revault d’Allones, nel suo La crisi senza fine[xv] accenna, a suo modo, a questo elemento, ritenendo però, in linea con tutti i pensatori dell’ultramodernità, che la crisi sia essenziale e costitutiva della modernità stessa, che ne sia un suo tratto caratteristico e irrinunciabile. Ebbene, personalmente ritengo che la lezione dei pensatori russi e, in generale, della rinascita dello spirito religioso e soprattutto cristiano in Russia, oggi, possa essere esemplare per comprendere la situazione in cui si trova, invece, l’Europa. A noi qui, ora non interessa tanto cercare di capire se la scelta del ritorno alla religione in Russia abbia delle motivazioni eminentemente politiche e geopolitiche, ciò può essere indubbiamente vero, al punto che alcuni hanno paragonato il Presidente della Federazione Russa Vladimir Putin a Costantino il Grande, proprio in relazione alla valenza politica che può assumere il Cristianesimo in Russia, come collante civile della società e del popolo russo, dopo settanta ani di comunismo. Quello che qui ci interessa, invece, è proprio il confronto tra il radicamento del cristianesimo nel popolo russo, grazie all’attività della Chiesa e del monachesimo russo, che è la vera anima della Russia Cristiana e il disfacimento, apparentemente brillante, dell’Europa occidentale, per le quali, purtroppo, il multiculturalismo selvaggio è diventato un diktat o la realizzazione di una utopia irenica; ma, come tutti sanno, le utopie portano morte.
Per questo motivo tratteremo brevemente alcune figure, in particolare Pavel Florenskij, in un punto decisamente nevralgico: quello della religione e di Dio nell’ultramodernità, confrontandolo con alcuni pensatori occidentali, Del Noce in particolare.
- Il ritorno a Dio nell’ultramodernità: Pavel Florenskij
Dove si radica in Pavel Florenskij questo modo diverso di guardare le cose? Ce lo dice lui stesso, quando quasi confessandosi con il lettore dice:” Se la casa di San Sergio (La Lavra della Trinità che si trova a Serjev Posad) è il volto della Russia manifestatosi grazie a perizia d’arte somma, il suo fondatore ne è l’archetipo, l’archetipo di questa immagine della Russia, il protofenomeno della Russia”[xvi], perciò, continua più avanti il Nostro: “Se vogliamo conoscere e capire l’anima russa, non possiamo non concentrarci su questo Angelo della terra di Russia, Sergio[xvii]. Sin qui potrebbe sembrare un semplice discorso mistico o agiografico, ma in realtà la capacità di Florenskij di congiungere cultura e culto si coglie perfettamente nel seguito del discorso che sta facendo su San Sergio e sull’anima della Russia, un’anima che sa passare dalle vette della mistica alla profondità della filosofia. Infatti, non appena ha nominato il Santo Sergio, aggiunge: “tanto più che la concezione del popolo e della Chiesa sugli angeli custodi poco si discosta dai concetti della filosofia: dall’idea platonica, dalla forma aristotelica, o piuttosto dell’entelechia, dal concetto più tardo, per quanto travisato, di ideale quale essenza sovra-empirica e sovra-terrena da incarnare con il gesto creativo di un’esistenza, generando con ciò la cultura della vita”[xviii]. Ma l’anima della Russia è stata plasmata da questo santo mistico. Per questo motivo non si può comprendere la Russia se non si comprendere questo mistico monaco; “per capire la Russia bisogna capire la Lavra, e per penetrare l’essenza della Lavra bisogna osservarne con occhio attento il fondatore, riconosciuto come santo ancora in vita, il prodigioso starec e santo Sergio”[xix].
Questo approccio così diverso dal pensare secolarizzato dell’Europa, si manifesta non solo nel riconoscimento del profondo legame tra la Russia e Platone, ma del modo nuovo e sempre antico con cui viene riletto e collegato allo spirito dell’anima russa. In lui la trascendenza conserva piena cittadinanza nella riflessione filosofica; chi lo dice è non solo un filosofo, non solo un prete uxorato, ma un matematico, un fine matematico ed un vero scienziato, nonché un testimone della fede nel gelo e nella persecuzione del comunismo sovietico, morirà infatti martire in un Gulag nel 1936. Nella relazione[xx] che tenne il 17 settembre del 1908 preso l’Accademia Teologica di Mosca, alla presenza delle autorità ecclesiastiche, affrontò proprio questo tema. Parlando proprio di Platone definisce “sacri” i suoi dialoghi e continua dicendo che questi hanno: “sentore di qualcosa di misterico, sono pervasi da un’ossessione divina. Sono come l’odore dell’incenso alle pareti di chiese rimaste chiuse troppo a lungo” [xxi]. Dopo aver quanto l’idealismo sia l’elemento naturale della filosofia, il suo ossigeno, senza il quale essa appassirebbe e soffocherebbe, sue testuali parole, continua dicendo che la vera forza del platonismo sta tutta nel fatto che essa è radicata alla terra che l’ha prodotta e al popolo che l’ha gestata. “Quelle radici del platonismo con le quali esso istilla in sé l’umore, l’humus, di ciò in cui tutta l’umanità crede. Ed è proprio a questo radicamento al suolo che il platonismo deve la sua immortalità. Perché Platone non è frutto della filosofia di una scuola, bensì il fiorire dell’anima di un popolo, e fintanto che l’anima vivrà i suoi colori non appassiranno”[xxii]. Chi non è stato, almeno per un attimo, nella sua vita seguace di Platone, ci dice Florenskij. È questo modo di conoscere le cose conservandone l’aspetto creaturale, questo sguardo completo che il pensiero russo conserva ad essere la linfa vitale di cui ha bisogno oggi l’Europa. “La natura tutta ha un’anima, la natura tutta è viva, nel suo insieme e nelle sue componenti”[xxiii], ci ricorda il Nostro.
Ma se vogliamo cogliere il cuore della questione, che consiste in questo modo diverso di guardare le cose e che è il grande dono dell’anima russa e, allo stesso tempo fare tesoro, in quanto europei della lezione di Florenskij, circa il nostro relativismo e nichilismo, allora dobbiamo tenere presente quanto dice. In La colonna e il fondamento della verità[xxiv] con estrema chiarezza, quasi conscese la nostra malattia; e certamente la conosceva perché il veleno del nichilismo era penetrato anche in Russia e, come ha ben colto Dostoevskij, altro profeta, avrebbe presto portato alla morte della rivoluzione. Ebbene Florenskij nella IV Lettera, intitolata La luce della verità, ci dice: “se la ragione non partecipa dell’essere neanche l’essere partecipa della ragione, cioè esso è alogico, e allora è inventabile considerare illusoria ogni sorta di nichilismo, fino all’appassito e triste scetticismo. L’unico modo per uscire dal relativismo è riconoscere che la ragione partecipa dell’essere e che l’essere partecipa della razionalità”. Ma questo in un modo completamente diverso da come lo aveva pensato lo gnostico Hegel “se è così, se l’atto – continua Florenskij – del conoscere ha non solo valenza gnoseologica, ma anche ontologica, no solo ideale ma anche reale. La conoscenza è una uscita reale del conoscente da se stesso, oppure (le due cose si equivalgono) un reale ingresso del conoscente nel conosciuto, un’unione reale del conoscente e del conosciuto. Questa è la tesi fondamentale e caratteristica di tutta la filosofia russa e, in genere, orientale[xxv]. Infine, la riflessione sul peccato e sulla Geenna cui Padre Pavel, come lo chiama affettuosamente il Valentini, dedica due lunghi capitoli di questa sua opera magistrale[xxvi]ci fanno capire quanto sia avanti rispetto ai ciechi filosofi occidentali. In Europa, infatti, a quanto ne so, soltanto Augusto Del Noce ha nuovamente tematizzato questo concetto in filosofia ed in filosofia politica, il che non è poco. E l’Europa, invece? In quale stato versa? IL tema del peccato è tenuto in considerazione da Del Noce che attraverso questo spiraglio riesce a cogliere la profonda crisi in cui versa il pensiero occidentale e di cui si vanta fino a farne il suo tratto caratterizzante.
Se si esclude, infatti, il concetto di peccato dalla riflessione filosofica si esclude Dio, infatti, la condizione di peccato dell’uomo diviene la sua condizione naturale e il male, che è in lui, come conseguenza del peccato, viene proiettato fuori di lui, verso la società. Rousseau e Marx, che su questo tema hanno posizioni simili, sono un esempio lampante di questa concezione. Questa visione delle cose ha preso il sopravvento nella modernità, impedendo di elaborare intorno alla modernità un discorso più sereno e meno legato agli Aut-Aut. Del Noce e Florenskij sono due autori che, pur con percorsi doversi, si sono accorti di questo slittamento della modernità e ne hanno descritto con profondo acume la dinamica. L’eliminazione del concetto di peccato dall’antropologia filosofica, e non solo, premette poi di concepire il processo storico come un processo dio emancipazione. In realtà, così facendo il processo diviene, dal punto di vista pratico, via verso il liberalismo che predica la libertà come “liberazione da”. Se noi, infatti, guardiamo da questo punto di osservazione lo sviluppo storico della modernità, cogliamo la trama che sottende l’intero processo storico. In questo senso Dugin ha perfettamente ragione quando dice: “Nel liberalismo il soggetto era l’individuo, libero da ogni forma di identità collettiva e di appartenenza”[xxvii]. È proprio l’esclusione della condizione originaria di peccato dell’uomo, il rifiuto dello status naturae lapsae - tanto per intenderci – a generare il processo storico che porterà la civiltà occidentale e i suoi derivati verso l’ateismo. Ma la riflessione intorno alla condizione di peccato non è un argomento di sola pertinenza del discorso religioso, quanto di quello filosofico e religioso allo stesso tempo. Lo scadimento post-umano del tempo presente ha radici, dunque, profonde e antiche, legate al sorgere stesso della modernità. Lo stato di nuova innocenza, vantato dall’uomo all’inizio della modernità (e consistito anche nello spostamento del divino, al cui posto l’uomo ha posto se stesso), quello stato di innocenza che faceva essere la condizione mortale dell’uomo la sua condizione naturale, ha trovato nella tecnica il suo coronamento. D’altra parte, l’innegabilità dell’esistenza del male, di cui l’esperienza umana è piena e da tutti tangibile, eliminato il legame del male come sua conseguenza, ha poi spostato l’origine del male dall’uomo alla società. Le filosofie di Rousseau a Marx ne sono un chiaro esempio. Se, dunque, volessimo caratterizzare quest’epoca, con tutti i limiti che può comportare un’etichettatura, potremmo tranquillamente definirla l’epoca della “nuova innocenza”. il tratto caratteristico di quest’epoca, in cui ancora ci troviamo qui in Occidente, è proprio determinato da questo assunto, da questo assioma: nell’uomo non c’è peccato, cioè qualcosa che lo renda dipendente da un Salvatore, perché egli, per mezzo della tecnica, salverà se stesso e l’intera umanità. Questa è solo l’ultima forma che ha assunto l’utopia che, nel secolo scorso si presentava come utopia politica. Ecco allora emergere l’altro tratto caratteristico dell’uomo moderno: il suo rifiuto della dipendenza, qualunque essa sia, contro Dio, contro lo Stato, il genere, la sua stessa umanità; tale rifiuto è inteso come lotta per l’emancipazione[xxviii].
L’attuale tappa politica di questa illusione è l’irenismo; l’idea cioè che si possibile, anzi auspicabile, creare una società multietnica e multiculturale. Tornando al problema antropologico, che qui ora ci riguarda, non possiamo non notare che questo è il paradigma, (mi si lasci utilizzare questo paradigma kuhniano oramai entrato nel linguaggio comune di tutti) in cui si trova immersa oggi ogni manifestazione dell’umano, perfino quell’attività del pensiero, la più trascendente di tute quale è appunto la filosofia, avviene oggi senza riferimento alla Metafisica e dentro questo paradigma. Più ancora, avendo profondamente assorbito l’antimetafisica del nostro tempo, vera e propria mè-ontologia[xxix], essa, come volontà di potenza è divenuta antropologia. Tutto il processo storico della modernità, dalla invenzione dell’individuo, come sostituto della persona, si presenta come un processo verso la “liberazione-da”, verso l’emancipazione da ogni forma di vincolo e di dipendenza. L’ateismo e l’irreligione di oggi, assieme allo sviluppo della tecnica, ne sono il coronamento. Ma questo processo storico, che ha portato all’irreligione di non è il destino della modernità, come riteneva erroneamente Heidegger; esso piuttosto è un processo generato da una opzione originaria, per cui si nega in maniera irrazionale e filosoficamente ingiustificata la condizione di peccato dell’uomo, come ha perfettamente dimostrato A, Del Noce ne Il problema dell’ateismo[xxx]. Se Del Noce ha evidenziato quanto i mali del presente e le problematicità della modernità che da esso derivano, hanno la loro radice nel rifiuto della condizione di staus naturae lapsae , è stato Pavel Florenskij che ne ha studiato, dal punto di vista filosofico, la natura ontologica.
Che qui si stia trattando del tema ontologico su cui poggia l’intera essenza della modernità è indirettamente dimostrato dalla insistenza e ferocia verbale con cui Nietzsche, in diversi punti della sua opera, torna sul problema. Ci soffermeremo, in maniera particolare, su alcuni aforismi de La Gaia Scienza [xxxi] e sulla figura di Socrate in La Nascita della Tragedia. Nell’aforisma 135 de La Gaia Scienza Nietzsche si concentra sulla “origine del peccato”, tema apparentemente marginale e poco filosofico, eppure tanto importante per Nietzsche da dedicargli un intero aforisma. Il tema centrale è che il peccato è qualcosa di antiumano; la condizione dell’esistenza del peccato pone in essere la sudditanza dell’uomo nei confronti di Dio, un limite allo sviluppo della sua potenza del superamento della sua stessa umanità. Esso è una invenzione ebraica, dice Nietzsche, un qualcosa che distoglie l’uomo dalla sua condizione terrena, puramente terrena. Questo attacco a Dio è anche un attacco alla ragione umana, ragione che il filosofo di Rochën usa quando argomenta le su tesi, sia pure espresse in forma oracolare. L’attacco a Socrate sia nella Nascita della Tragedia[xxxii] sia nell’Aforisma 340 de La Gaia Scienza rappresentano l’attacco alla ragione che, in virtù del logos, domina le passioni. È con Socrate, infatti, che quel radicale cambiamento di paradigma della cultura greca che troverà in Platone e Aristotele il suo compimento. È Sempre Socrate che identifica l’uomo con la sua anime, ovvero con la sua psychè . l’attacco a Socrate è per Nietzsche l’attacco alla ragione umana ritenuta colpevole di voler ridurre la vita al concetto, Ma Nietzsche viene dopo Hegel e forse è qui la radice del suo fraintendimento, probabilmente ci sono in lui dei pre-giudizi e delle pre-comprensioni non tematizzate che gli impediscono di comprendere realmente come stanno le cose. Soffermiamoci un attimo su questo aforisma per comprenderne a fondo il senso e la portata. Da una prima lettura si coglie subito che in Nietzsche è come se rivivesse l’acredine di Aristofane per Socrate. Il testo nietzschiano si presenta come una riflessione sulla morte di Socrate, così come ci è stata tramandata da Platone nel Fedone. Il passo in questione è proprio l’ultima esclamazione di Socrate che, rivolto a Critone, dice: ‘O Kriton, efe, to Asklepio ofeìlomen alektryona”,e cioè: “O Critone, ricordati che siamo in debito di un gallo ad Asclepio”[xxxiii]. Ora, Asclepio è per i greci il dio della medicina cui è tenuto a a fare sacrificio il greco quando è guarito da una malattia. Se non si tiene conto dell’intera ricerca socratica e della filosofia platonica, che da essa discende, ha buon gioco Nietzsche; nel senso che effettivamente Socrate ritiene che la morte si auna liberazione dell’anima dal corpo, ma perché in quanto libera dai vincoli della corporeità potrà finalmente contemplare le idee, ovvero la verità che è immateriale. Certo, per Nietzsche la vita è tutta qui, nell’immanenza; ma così dicendo non dice nulla di nuovo, porta semplicemente a compimento una delle linee della modernità, quella appunto verso l’immanenza. Tema questa dell’innocenza del divenire. Ma il vitalismo nietzschiano, che pervade tutto il nostro tempo, è la negazione più assoluta della trascendenza. Il superuomo è, infatti, fedele alla terra e la sua dimensione sta nell’essere per il tramonto. In realtà, il messaggio del Fedone è ben altro e consiste nella II navigazione, che è il fondamento della ontologia platonica e del cambiamento di paradigma all’interno della filosofia greca che non intenderà più la physis come il tutto.
- Tipi ultramoderni, ovvero tipi umani nell’ultra-modernità
- A. Il Signor Goljadkin
Una nota introduttiva
Ma i pensatori russi, possono anche farci comprendere lo stato della nostra malattia. In questo senso le pagine di Dostoevskij sono profetiche e magistrali. Qui ne scegliamo e commentiamo solo alcune, per la necessaria brevità “Epoca dell’erranza”, così Heidegger definisce la nostra epoca, ma erranza è errore, deviazione dal tragitto, tragitto che S. Tommaso d’Aquino definiva: “verità ontologica” dell’ente; e Gabriel Marcel, che ha compreso perfettamente la posta in gioco, definisce l’uomo, Homo Viator[xxxiv]. Erranza è opposto di Pellegrinaggio, e significa deviazione dal tragitto, perdita del telos, del fine naturale che, l’ente, in quanto ens creatum, è chiamato a realizzare nell’arco della sua esistenza. Ovvero, che il venir meno del pensiero dell’essere è anche un venir meno all’ascolto dell’essere. Ascoltando il logos non me è saggio convenire che tutto è uno afferma Eraclito e ancora: Di questo logos gli uomini non hanno intelligenza né prima di averlo ascoltato né dopo… il punto di partenza determina sempre il senso della comprensione; la situazione di partenza, (quella che Husserl nelle Ideen[xxxv] chiama le opinioni intenzionali permanenti e Gadamer la pre-comprensione o i pre-giudizi, la situazione di partenza, dicevamo, può compromettere la comprensione) può compromettere la retta comprensione del messaggio e, addirittura, può diventare la conferma del nostro stero pre-giudizio. Perché dico questo? Lo dico per il semplice fatto che, sebbene il nostro essere sia un essere in una determinata situazione, non tutte le nostre prospettive dono equivalenti. Esiste un vedere che non è un vero vedere; ed un comprendere che non è un vero comprendere. L’errore esiste e non è solo logico, ma anche ontologico. Per capire meglio questo punto ci si può rifare a S. Tommaso. Nella dottrina dei “Trascendentali”, quando parla della verità dell’ente, il Nostro non la intende soltanto, con Aristotele, attinente al pensiero e, dunque, di pertinenza logica; egli la concepisce come pertinente anche all’ambito ontologico. Questa è la prima vera conseguenza dell’assunzione in filosofia della dottrina della creazione ex nihilo, rispetto alla Metafisica greca, per la quale ex nihilo nihil fit. “Omne ens est verum, quia omne ens est ens creatum et est adequatio ad intellectum Dei "[xxxvi]. Ogni ente è vero perché è adeguarsi della cosa all’intelletto creatore di Dio. Tutto ciò sta a significare che ogni ente, in quanto creato, è vocato ad essere fedele alla sua essenza; e ciò in virtù del fatto che in ogni ente creato essenza ed esistenza non coincidono; ovvero, ogni ente non è tutto e pienamente se stesso nel momento in cui è. Questo discorso vale per tutti gli enti costituiti di materia e forma, non perciò per i puri spiriti finiti. Ora, alcuni enti naturalmente conservano la loro verità ontologica., anche se la realtà naturale è macchiata dal peccato, altri, quelli cioè dotati di libero arbitrio, creati cioè apposta liberi da Dio, sono stati da Lui chiamati a rispondere liberamente alla loro verità ontologica, che costituisce l’essere del loro essere; verità che potenzialmente è in loro. Da qui l’origine del peccato e del male; peccato che spesso è sdoppiamento, alienazione, separazione da se stesso e dalla sua stessa radice, come nel caso del Signor Goljadkin.
- A. L’alienato Signor Goljadkin
Nessuno meglio di Dostoevskij ha descritto l’erranza della modernità, anticipando il vuoto di senso dell’ultramodernità, nella quale siamo immersi, ormai dall’inizio del secolo. La sua è una vera e propria fenomenologia dell’esperienza diabolica. Attraverso le sue opere egli indaga i diversi piani in cui, e attraverso cui, questo diabolico – frutto della perdita del telos del nostro stesso esistere, cioè di Dio – si manifesta, come follia e sdoppiamento ne Il sosia, in cui, tra l’altro, viene descritta l’alienazione dell’uomo, il suo diventare parte dell’apparato burocratico, della macchina moderna dello Stato; come ybris del superuomo in Delitto e castigo; come declinazione sociale e politica di quella stessa ybris ne I demoni; come uccisione del padre, metafora del parricidio del nostro tempo, ne I fratelli Karamazov. Ci soffermeremo brevemente su queste opere, nelle quali si manifesta questa profonda frattura che caratterizza l’ultramodernità[xxxvii]. Dostoevskij, descrivendo i caos che allora stava nascendo in Russia, che pure era con Pietro I entrata nella modernità, ha descritto la profonda crisi del mondo moderno, nato e compresosi come “emancipazione” e “frattura”. Nota con grande acume una studiosa francese “la perdita della Trascendenza che dava al mondo umano i suoi punti di riferimento finali e inespugnabili comporta una crisi del significato e dei valori dell’esistenza in generale. La modernità è pervasa dalla crisi e, per dirlo ancora più brutalmente, la modernità stessa è un concetto di crisi”[xxxviii].
Il signor Goljadkin, Jakov Petrovič Goljadkin, così si chiama il protagonista de Il sosia[xxxix], è il più gogoliano dei personaggi di Dostoevskij; come Gogol è di un’ironia feroce nei confronti dei suoi personaggi, così qui Dostoevskij lo è con il suo eroe, il povero impiegato “consigliere titolare”, quartultimo della tabella dei ranghi introdotta nel 1722 dallo zar Pietro il grande. Un tratto emerge con chiarezza, fin dalle prime battute di questo poema pietroburghese, come recita il sottotitolo del romanzo e cioè: il protagonista è solo, tremendamente solo, schiacciato dal suo ruolo, tramite il quale immagina di potersi riscattare ma che, in realtà, lo imprigiona, perché egli è la sua funzione, un vuoto guscio di noce, nulla più. “Io ho dei nemici, Krestian Ivanocič, ho dei perfidi nemici che hanno giurato di prendermi…” dice al suo medico. Ma non è in grado di dare un nome a questi suoi nemici, perché sono nemici impersonali, sono le forze dell’apparato che lo assorbono e lo divorano. Questa solitudine, che viene descritta da Dostoevskij non con tinte tragiche ma grottesche, sarà l’acido in cui si scioglierà la sua anima, lo specchio infranto attraverso cui il personaggio si sdoppierà, fino alla follia. I suoi giorni si aprono e chiudono nell’orizzonte dei tentativi di affermazione e dei conseguenti fallimenti, tutti giocati sul voler essere, ma il Signor Goljadkin non ha essere: è solo il suo ufficio, che diviene la proiezione delle forze che lo assorbano, lo smembrano come Dioniso con le menadi, ma in lui non c’è rinascita, ma soltanto un finale ancora più grottesco, finale in cui un barlume di coscienza della sua condizione, accompagna il viaggio di Goljadkin verso il manicomio. Un barlume di coscienza accompagnato da “un grido” non certo dalla parola; una coscienza che si presenta solo come presentimento e che si raccoglie tutta in quel gesto disperato, descritto con uno schizzo da Dostoevskij: “il nostro eroe gettò un grido e si afferrò il capo”. È, forse, un Nietzsche ante litteram? Può darsi.
Infatti, il signor Goljadkin si sdoppia, si allontana da sé si aliena nel suo doppio Jakov Petrovič, mostra la sua alienazione che si fa presente come alter ego, come altro da sé, a lui stesso irriconoscibile; ma la sua alienazione è la nostra stessa alienazione, il nostro stesso sdoppiamento, che l’Apparato assorbe in sé, perché l’Apparato prima disgrega e poi assorbe. In questo senso, il progresso coincide con l’efficienza dell’Apparato con il raggiungimento del pieno regime della macchina stessa: l’Intelligenza artificiale, il cyborg, e l’assorbimento dell’uomo nella iper-natura virtuale, generata dalla onnipresenza della tecnica. Nel Signor Goljadkin è anticipata la nostra condizione nell’ultramodernità, dove ultramodernità intendiamo quel processo che caratterizza il nostro tempo; tempo in cui “al massimo dell’alienazione, dice chiaramente Augusto Del Noce[xl], “corrisponde la scomparsa del concetto di rivoluzione”: dove alla rivoluzione si stupisce la lotta per la modernità. Ecco come tutte le forze, cosiddette progressiste, coincidono con lo smisurato sviluppo della tecnica, cortocircuitando politicamente sinistra e capitale, in un abbraccio mortale con la destra liberista.
Di quest’epoca, inconsapevolmente, il povero Signor Goljadkin è la maschera, spogliata da ogni finzione. Ma in che senso, il personaggio dostoevskijano è l’uomo alienato del nostro tempo? Nel senso che egli semplicemente è la corteccia vuota, il pezzo dell’ingranaggio che, quando tenta di essere se stesso (ma chi è in fondo il Signor Goljadkin?) ovvero di vivere, è impacciato, fuori posto, ridicolo (ah con quale maestria Dostoevskij ci sa descrivere tutto questo!), perennemente altrove. Essere, come voler essere se stesso, e dover essere son lo “io” e il “tu” di questo poema gogoliano, perfettamente incastonato nella spettrale san Pietroburgo. Questo fa del Signor Goljadkin un uomo del nostro tempo; questo nostro tempo, in cui la perversità dell’Apparato assorbe financo la mente e non più solo il nostro corpo. Tempo della spersonalizzazione, della riduzione dell’uomo all’erranza nella follia, quando si tenta di scire dall’ingranaggio dello stesso Apparato. La condizione di Jakov Petrovič Goljadkin è lo spettro della nostra condizione e ciò perché proprio verso questa condizione ski dirige la nostra civiltà. L’Apparato, novello Moloch, divora e uccide, svuota, spersonalizza e sostituisce alla persona l’identità funzionale.
B. Raskolnikov, ovvero del Superuomo
Con Dostoevskij ci troviamo immediatamente dinanzi ad un paradosso, è uno scrittore, un vero gigante del pensiero; ma, in realtà, è un vero filosofo, non nel senso che abbia elaborato un sistema filosofico, ma nel senso che egli affronta in maniera tipologica quelli che sono i problemi fondamentali che l’uomo si è sempre posto. Nessuno, infatti, come lui ha sondato gli abissi della libertà umana vivendoli e narrandoli dall’interno. I suoi personaggi sono idee, idee che camminano, come ha ben evidenziato Berdjaev, ed in questo, per certi aspetti, somiglia a Kierkegaard e a Nietzsche; non a caso viene ritenuto essere l’iniziatore della corrente russa dell’esistenzialismo. Ma anche questo, in realtà, non è che un accomodamento di storiografia filosofica, Dostoevskij, infatti, è molto più di tutto ciò.
Volendo, dunque, limitarci solamente ad uno studio di alcuni aspetti filosofici del suo pensiero su trovano temi che vanno dall’etica alla metafisica, dalla religione al sociale, dal Cristianesimo alla politica; e non mancano spunti davvero interessanti per questi ultimi tempi apocalittici che sitiamo vivendo. Indubbiamente, come ha perfettamente descritto Berdjaev, il cuore profondo della filosofia di Dostoevskij è il tema della libertà, la libertà cristiana. Sì, il vero obiettivo di questo gigante della letteratura russa e del pensiero mondiale è stato descrivere cosa accade all’uomo quando si separa da Cristo, i suoi personaggi sono l’equivalente della descrizione fenomenologica di quello cha accade all’uomo quando si separa da Dio, separandosi da Cristo. In lui c’è un cristocentrismo che posiamo trovare solo nella grande tradizione mistica cristiana Ortodossa e Cattolica e, per quanto riguarda i mistici della Chiesa Cattolica basti citare S. Francesco, Sante Teresa d’Avila, S. Giovanni della Croce, i santi monaci ortodossi, cui sicuramente si è ispirato.
Si è detto che Dostoevskij è lo scrittore meno russo tra i russi perché in lui traspare più che lo spirito russo la decadenza moderna, ma ciò non è esatto né corretto. Berdjaev scrive nel suo La concezione di Dostoevskij[xli]: “Dostoevskij è russo fino in fondo, come uomo e come scrittore. Non si può immaginarlo fuori dalla Russia. Da lui si può conoscere l’anima russa. Egli stesso ne è un enigma, e ne racchiude in sé tutte le contraddizioni. Da Dostoevskij gli uomini dell’Occidente conoscono la Russia”. Non solo, ma Dostoevskij ha sentito, anticipato e descritto, la tempesta che si stava per avventare sulla Russia e poi sul mondo; in ciò è stato veramente profetico. Molto si è scritto su di lui e molti ha scritto in maniera eccellente su di lui, chi analizzando la psicologia dei personaggi dei suoi romanzi, chi appiccicando il metodo freudiano ai suoi scritti quale criterio ermeneutico, chi quello sociologico o politico, nulla di tutto ciò coglie, a nostro modesto parere, il senso profondo del pensiero di Dostoevskij. Non è nostra intenzione stilare una galleria dei personaggi dostoevskijani allo scopo di far emergere da lì il suo pensiero e, quindi, il nucleo della sua filosofia; nostra intenzione è, invece, esporre ciò che ci parso essere l’unità profonda di tutta la sua opera, il suo centro catalizzatore.
Non si può non tener presente che qui non ci si trova dinanzi ad un sistema concettuale, ma dinanzi all’uomo stesso che agisce nell’orizzonte della sua libertà. Certo, non si può, né si deve, prescindere dall’opera ma l’approccio alla sua opera non sarà da parte nostra di tipo letterario, piuttosto filosofico. Tra gli uomini del sottosuolo, il giovane Raskolnikov è il più bilioso, forse, quello che più di ogni altro è “cattivo e malato”, come dice di sé il protagonista delle Memorie del sottosuolo. Anche l’afoso clima dell’estate pietroburghese contribuisce ad esaltare lo stato eccitato, eccentrico, patrologico dello studente universitario. Il suo stambugio è l’anti-crisalide che partorisce non la farfalla ma il pazzo superuomo, il folle assassino di Dio; poiché, da Caino in poi, “chi uccide un uomo uccide il mondo intero” come recita l’adagio. Seguiamo Dostoevskij nella descrizione della malattia, del delirio di onnipotenza che colpisce l’uomo quando cancella Dio dalla sua vita.
“All’inizio di un luglio caldissimo, sul far della sera, un giovane uscì dallo stambugio che aveva in affitto nel vicolo S., scese in strada e lentamente, quasi esitando, si avviò verso il ponte K.”[xlii].
Così inizia il romanzo, la storia di questo giovane superuomo che tanto affascinò Nietzsche, al punto da far sì che il filosofo tedesco, giunto ormai sulla soglia dell’abisso della sua follia, nella gelida Torino, si immedesimava …. (scena del cavallo bastonato, racconto dell’ubriacone). Afa, e ombre, tenebre e arsura, fanno da sottofondo, da scenario, ai primi passi del Nostro. Ma non è tutto, in questo romanzo, in cui nulla è lasciato al caso, l’incontro o, meglio, l’essersi trovato presente, l’aver ascoltato il dialogo tra lo studente e il giovane ufficiale, in quella “trattoriuccia di infimo ordine”[xliii], (плохенький трактиришко, recita il testo russo), dov’era entrato dopo aver impegnato l’anello di Dunečka presso la vecchia usuraia, è la manifestazione dell’azione tragica che in lui, nella sua mente alienata, ancora non aveva preso forma. Val la pena di citare per intero questa pagina del romanzo che, ritengo essere di importanza fondamentale per le implicazioni filosofiche che contiene. Ecco il testo:
"… sai che ti dico? Io quella maledetta vecchia l’ucciderei e la deruberei e, te l’assicuro, senza il minimo rimorso”, aveva detto lo studente accalorandosi.
Di nuovo l’ufficiale era scoppiato a ridere, mentre Raskolnikov trasaliva. Com’era strano tutto ciò!
“Senti, voglio farti una domanda seria,” aveva aggiunto lo studente, infervorandosi sempre di più. “Certo, io stavo scherzando, ma pensa un po’: da un lato, una vecchietta insulsa, assurda, miserabile, cattiva, malata, che non è utile a nessuno, anzi, è dannosa a molti, che non sa lei stessa perché vive, e che comunque presto morirà. Capisci? Eh?”.
“Capisco, capisco,” aveva risposto l’ufficiale, fissando attentamente il suo infervorato compagno.
“E adesso sentimi bene. Dall’altro lato, abbiamo energie giovani, fresche, che vanno in malora, così senza nessun appoggio, a migliaia; e questo succede dappertutto! Cento, mille opere e iniziative buone si potrebbero avviare e realizzare con i soldi della vecchia, che invece li ha destinati ad un monastero! Centinaia, forse migliaia di esistenze indirizzate sul giusto cammino; decine di famiglie salvate dalla miseria, dalla disgregazione, dalla corruzione, dalle malattie veneree, e tutto coil suo denaro. Ammazzala, prendi i suoi soldi e poi, con essi, mettiti al servizio dell’umanità e della causa comune: non credi che un piccolo delitto sarebbe compensato, in questo modo, da migliaia di buone azioni?
Per una sola vita, migliaia di vite salvate dal marciume e dalla rovina. Una sola morte, e cento in cambio: ma questa è matematica! Che cosa conta, sulla bilancia collettiva, la vita di quella vecchia tisica, stupida? Non più della vita di un pidocchio, di uno scarafaggio, anzi meno, perché la vecchia è dannosa. Rovina la vita agli altri…”[xliv]
Questa pagina può essere definita il Prologo dell’anti-vangelo del superuomo. Infatti, il manifesto del superuomo recita: “Per una sola vita”, la vita della vecchia usuraia da uccidere, “migliaia di vite salvate dal marciume e della rovina”. Qui viene espresso il senso dell’anti-sacrificio anti-cristico, ovvero quello di uccidere un essere, ritenuto indegno di vivere e poi con il ricavato fare del bene all’umanità; già, proprio così, fare del bene all’umanità. Oh, sì! Com’ha ben espresso Solov'ëv[xlv] l’anticristo sarà un filantropo ed un benefattore. E, ancora, fa dire Dostoevskij allo studente nella bettola: “ma questa è matematica”. Ecco l’essenza vera della civiltà della tecnica, di cui il liberalismo e il socialismo sono solo le facce di una stessa medaglia; e il liberismo e il comunismo solo gli esecutori fedeli. Ecco, la riduzione della qualità alla quantità, tanto sognata e teorizzata da Engels, con il suo “Diamat”. Tutto ciò non deve stupire, la vera triade è Lenin, Stalin e Ford[xlvi]. Il taylorismo era, infatti, il sogno di Lenin e di Stalin, non solo del capitalismo, ma anche del comunismo; l’idea della riduzione dell’uomo alla macchina, della progettazione e pianificazione scientifica dell’uomo, l’idea del potere delle macchine di trasformare l’uomo e l’universo, di fonderli assieme armonicamente, sono tipici delle due teorie economiche. Il mondo come una fabbrica e l’uomo stesso, ridotto a merce e meccanismo, proprio da quel marxismo che avrebbe dovuto salvarlo e che, oggi, come materialismo senza dialettica e senza sintesi, è diventato la filosofia della borghesia vincente tinta di rosso liberal. Ma Dostoevskij, vero profeta russo che parla a tutta l’umanità, lo aveva, in un certo senso, presagito e descritto già nella patologia di Raskolnikov.
Il delirio della modernità, come luogo della negazione della “trascendenza verticale”, si fonda si due concetti: 1) emancipazione e riduzione della persona ad individuo; 2) cancellazione della condizione di peccato dell’uomo, della sua caduta iniziale e sostituzione dell’uomo a Dio. Tutto ciò comporta lo schiacciamento del concetto di “libertà” su quello di “liberazione”. Su questo principio si basa il prossimo passaggio della nostra civiltà: liberazione dal proprio corpo e, tramite la tecnologia informatica e robotica, unione tra umano e macchina nell’info-spazio cibernetico. Tra l’altro, nell’orizzonte della tecnica, in questo tipo di società dove la condizione inziale dell’uomo è l’innocenza, come “innocenza del divenire”, ovvero tempo privo di colpa, al posto della condizione inziale della nostra storia umana come condizione di caduta e di peccato, viene meno la distinzione, e dunque il limite, tra ciò che è secondo natura e ciò che è contro-natura. “Eh, mio caro “, dice lo studente nel passo del romanzo su citato, “la natura si può correggere e dirigere”, ed è vero, ma dove e come? verso quale telos? Sta tutto qui il problema. (…) “Che cosa conta, sulla bilancia collettiva, la vita di quella vecchietta tisica, stupida e malvagia?
E così, questo prototipo dello Übermensch ante litteram è il nichilista progressista per il quale la morte di un uomo non conta niente se poi, da quella morte, si può iniziare un processo di azioni il cui fine sarà il bene dell’umanità. Cos’è, infatti, la morte della “vecchia” usuraia per il “giovane” Raskolnikov? Qui c’è un tema antropologico che, finora, non mi pare sia mai stato trattato dagli studiosi di Dostoevskij: quello, appunto, dello scarto generazionale. In fondo, è proprio lo spirito del progresso che ha trasformato l’antico in vecchio.
In questo romanzo, Dostoevskij affronta il tema dal punto di vista antropologico; sarà ne I demoni che lo stesso tema verrà affrontato da un punto di vista sociale e politico. L’usuraia, questa sarebbe la sua colpa peggiore, è anche vecchia; è, dunque, simbolo della sclerosi, di ciò che si è fossilizzato, di ciò che deve essere abbattuto e superato, se si vuole costruire una nuova umanità. Raskolnikov compie il male, ma è in lotta con se stesso, in lui permane un barlume di umanità. È solo, separato dal suo popolo. Ecco un elemento no ancora sufficientemente sottolineato. Il narodničestvo (народничество) dostoevskijano qui emerge con estrema chiarezza, un populismo religioso che permea tutta la sua opera; un narodničestvo religioso che, per essere pienamente compreso, va collegato al potere salvifico del suolo russo, della Santa madre Russia. Qualcosa di simile al motto di Bellarmino: “Extra Ecclesia nulla salus”, determinato dal differente rapporto tra Sacerdozio ed Imperium che c’è tra Oriente e Occidente e, in particolar modo, da come questo si è sviluppato in Russia.
Raskolnikov, dunque, si è separato, sua sponte, dal popolo russo che è la Chiesa russa (includendo ovviamente in esso anche il sacerdozio). Dostoevskij non a caso ce lo presenta, fin dall’inizio, in questo modo, solo nel suo stambugio. Ma Raskolnikov, il cui nome esprime con chiarezza il suo essere separato (Raskol, e letteralmente Raskolnikov раскольников significa scismatici, separato dal popolo, nel suo significato appunto religioso), possiede in sé ancora una scintilla di bene, di luce: la sua coscienza che lo tormenterà sin dall’inizio e che sarà il suo inflessibile e incorruttibile accusatore fino a condirlo alla confessione del suo crimine e, così, ad iniziare il cammino di redenzione che lo ricongiungerà con la sua terra e con il suo popolo. La sua coscienza non è ancora completamente morta, può redimersi, la grazia in lui può ancora agire; il peccato, riconosciuto come tale, può essere espiato. E tutto ciò grazie anche al legame affettivo familiare, ancora potente, della madre e della sorella, qualcosa di vivo rimane in lui.
Insomma, Raskolnikov è un uomo russo in quanto uomo ontologicamente pre-ultramoderno, in lui la ultramodernità, intesa come epoca della morte di Dio pienamente compiuta, non agisce ancora pienamente su di lui, non così con i protagonisti de I demoni che anticipano quelli della generazione del ’17. Egli, ripetiamo, può cioè iniziare un cammino di conversione, che è anche cammino di riconciliazione con la terra, con l’humus da cui viene, un cammino verso Oriente, è questo infatti, il senso del suo esilio in Siberia.
Bibliografia minima consultata
- ARISTOTELE, Etica nicomachea, BUR, Rizzoli, Milano, 1998
- BERDJAEV Nikolaj, La concezione di Dostoevskij, Einaudi, Torino, 2002
- DEL NOCE, Augusto, Il problema dell’ateismo, Il Mulino, Bologna, 1964 IV ed. 1990
- DEL NOCE, Augusto, L’epoca della secolarizzazione, Aragno, Torino, 2015
- DOSTOEVSKIJ Fëdor M., Delitto e castigo, Einaudi, Torino, 1994
- DOSTOEVSKIJ Fëdor M., Il Sosia, Mondadori, Milano, 2008
- DUGIN Alexandr G, La Quarta teoria politica, Nuova Europa, Milano 2017,
- FIGES Orlando, La danza di Natasha, Einaudi, Torino, 2008
- FLORENSKIJ Pavel, La mistica e l’anima russa, San Paolo, Cinisello Balsamo, 2006
- FLORENSKIJ Pavel, La colonna e il fondamento, Mimesis, Milano – Udine, 2012
- FLORENSKIJ Pavel, Le radici universali dell’idealismo, SE, Milano, 2013
- HUSSERL Edmund, Idee per una fenomenologia filosofica e una filosofia fenomenologica, Einaudi, Torino, 2002
- MARCEL Gabriel, Homo viator, Borla, Roma, 1980
- NIETZSCHE, Friedrich, La nascita della tragedia, Adelphi, Milano, 2003
- NIETZSCHE, Friedrich, La gaia scienza, Adelphi, Milano,1984
- ORTGA Y GASSET Josè. Meditazioni sulla tecnica, Mimesis, Milano, 2011
- PLATONE, Fedone, BUR, Rizzoli, Milano, 1999
- REVAULT d’ALLONES Myriam, La crisi senza fine, Obarrao, Milano 2014
- SOLOVËV Vladimir, I tre dialoghi e il Racconto dell’anticristo, Fazi editore, Roma, 2017
- TOMMASO D’AQUINO, De Veritate, Bompiani, Milano, 2005, a cura di Fernando Fiorentino
- TOMMASO D’AQUINO, Summa Theologiae I/II, a cura di Umberto Galeazzi, BUR, Rizzoli, Milano, 2010
[i] FLORENSKIJ Pavel, La mistica e l’anima russa, San Paolo, Cinisello Balsamo, 2006.
[ii] VALENTINI Natalino, Saggio Introduttivo in Pavel Florenskij, cit, p. 23.
[iii] VALENTINI Natalino, Saggio Introduttivo in Pavel Florenskij, cit, p. 22.
[iv] DEL NOCE, Augusto, L’epoca della secolarizzazione, Aragno, Torino, 2015. Cfr. pp. 37 -77.
[v] DEL NOCE, Augusto, L’epoca della secolarizzazione, Cit. p. 71.
[vi] TADDIO Luca, Tecnica e Natura un apparente conflitto, Prefazione a ORTGA Y GASSET Josè. Meditazioni sulla tecnica, Mimesis, Milano, 2011, p. 22.
[vii] ARISTOTELE, Etica nicomachea, BUR, Rizzoli, Milano, 1998.
[viii] ARISTOTELE, Etica nicomachea, BUR, Rizzoli, Milano, 1998 cit. III, 4 - 6 pp. 197 – 211..
[ix] ARISTOETELE, Etica Nicomachea, cit. III ,4, 10, p. 224-5.
[x] S. TOMMASO D’AQUINO, SUMMA THEOLGIAE I/II, a cura di Umberto Galeazzi, BUR, Rizzoli, Milano, 2010, cfr. q. 1, art. 1 – 8, pp. 162 -205.
[xi] S. TOMMASO D’AQUINO, SUMMA THEOLGIAE I/II, Cit. I/II cit. q. 1 art. 1, pp. 174 – 177.
[xii] TADDIO Luca, Prefazione, cit. p. 22,
[xiii] Aristotele, De Generatione. Et Corruptione. 1, 8, 325 a, citato in Parmenide Poema sulla natura, a cura di Giovanni Cerri, Fabbri, BUR, Rizzoli, Milano, 2004, p. 15.
[xiv] DEL NOCE Augusto, cit. p. 71.
[xv] REVAULT d’ALLONES Myriam, La crisi senza fine, Obarrao, Milano 2014.
[xvi] FLORENSKIJ Pavel, cit. p.135.
[xvii] FLORENSKIJ Pavel, cit. p.136.
[xviii] idem, cit. p.136.
[xix] idem, cit. p.136.
[xx] FLORENSKIJ Pavel, Le radici universali dell’idealismo, SE, Milano, 2013, a cura di Natalino Valentini.
[xxi] FLORENSKIJ Pavel, cit. 15 s.
[xxii] Idem, p. 19.
[xxiii] Idem, p. 28.
[xxiv] FLORENSKIJ Pavel, La colonna e il fondamento, Mimesis, Milano – Udine, 2012.
[xxv] FLORENSKIJ Pavel, cit, p. 109, grassetto nostro.
[xxvi] FLORENSKIJ Pavel, cfr. pp. 177 - 204.
[xxvii] DUGIN Alexandr G, La Quarta teoria politica, Nuova Europa, Milano 2017, 11.
[xxviii] Quanto A. MacIntyre abbia, invece, colto nella dipendenza uno dei tratti caratteristici dell’essere dell’uomo emerge dal titolo di un suo lavoro: Animale razionale dipendente.
[xxix] Per Mè – ontologia, termine utilizzato anche da Dugin, si intende la negazione ultima dell’essere cui è giunta la filosofia contemporanea da Nietzsche in poi; essa è comunque una riflessione che si fonda sulla contraddizione della negazione dell’ente, come ens crestum, e quindi dotato di statuto, ragione, essere, per sostituire ad esso la creazione dell’essere dal pensiero, ora non più universale, ma del pensiero divenuto volontà di potenza.
[xxx] DEL NOCE, Augusto, Il problema dell’ateismo, Il Mulino, Bologna, 1964 IV ed. 1990.
[xxxi] NIETZSCHE, Friedrich, La gaia scienza, Adelphi, Milano,1984, p.201.
[xxxii] NIETZSCHE, Friedrich, La nascita della tragedia, Adelphi, Milano, 2003, cit. par 11 e seg., pp 75 - 111.
[xxxiii] PLATONE, Fedone, BUR, Rizzoli, Milano, 1999. A cura di A. Lami, cit. 118, a, 5 P. 386 – 7.
[xxxiv] MARCEL Gabriel, Homo viator, Borla, Roma, 1980.
[xxxv] HUSSERL Edmund, Idee per una fenomenologia filosofica e una filosofia fenomenologica, Einaudi, Torino, 2002.
[xxxvi] S. TOMMASO D’AQUINO, De Veritate, Bompiani, Milano, 2005, a cura di Fernando Fiorentino, q. 1, art. 1.
[xxxvii] Ho preferito scegliere il termine ultramodernità al posto di postmodernità per definire il nostro tempo, in quanto il postmoderno sembrerebbe essere un qualcosa di diverso dalla modernità; in realtà, questo nostro tempo è caratterizzato dal venire alla luce, in maniera completa e definitiva, proprio dell’essenza stessa della modernità.
[xxxviii] REVAULT d’ALLONES Myriam, cit., p 43.
[xxxix] DOSTOEVSKIJ, Fëdor, M., Il Sosia, Mondadori, Milano, 2008.
[xl] DEL NOCE Augusto, Il problema dell’ateismo, Cit., p 314.
[xli] BERDJAEV Nikolaj, La concezione di Dostoevskij, Einaudi, Torino, 2002, cit. p. 124.
[xlii] DOSTOEVSKIJ Fëdor M., Delitto e castigo, Parte I, cap. I
[xliii] Ibidem Parte I, cap VI
[xliv] ibidem
[xlv] Cfr. SOLOVËV Vladimir, I tre dialoghi e il Racconto dell’anticristo, Fazi editore, Roma, 2017, p. 158.
[xlvi] Cfr. FIGES Orlando, La danza di Natasha, Einaudi, Torino, 2008, pp. 395 – 397 e Tzvetan Todorov, L’arte nella tempesta, Garzanti, Milano, 2017, pp. 14 – 22.