Enatos
Il cielo terso come una lavagna,
liscio come una coperta di lana
azzurra, affoga nella campagna
dietro la fila delle case. Zana
è l'ombra vuota e sola d’un nembo;
quasi serpe che striscia dalla tana
la scia del sole pallido e sghembo.
Al vento della sera che indugia,
alla Notte, che presto nel suo grembo
tutto abbraccia, quando è già ruggia
e tra le mani non resta che un segno
-eco di vita che se ne va in uggia -
a lei questo spirito consegno,
testamento d’ultimo sanfedista.
Tu qui, eppur così lontana, - legno
d’una croce antica – quanto dista
l'orizzonte che si frange nel sale,
canti suono di conchiglia frammista
alla brezza. La tua nenia che sale
dai flutti, rapita nel respiro
che asciuga, nell'onda che assale
la banchisa quando si pieg’ a ziro
sotto i colpi ciechi di Nettuno,
s'alza fiamma sanguigna da piro.
Ma non viene che voce di Nessuno
dalla rada dove solo il mare
si frantuma, si frantuma nel bruno,
sui massi che dormono come arae
sparge il suo sangue di schiuma
che scorre degli scogli nelle giare
quando nel borgo s’avventa la bruma
e i pescatori tirano le reti
dinanzi al gelo. Allora fuma
la legna dalle case dove cheti
tacciono i venti e i dolori
s'impastano al pane. Oh, riti vèti
che vita tinge coi suoi colori
tornanti antichi nella subìda,
tini dove l'uva pigia gli umori,
a voi rivolgo tutte le strida
che il solo verso non può contenere
quando esonda ciò che si annida
tra il limo del fiume e le nere
radici, tra le sterpaglie e le anse
dove gridano ancora le fiere.