La Controrivoluzione copernicana in filosofia*
* Capitolo 2 del Saggio: Massimiliano Mirto, La ragione oltre la ratio, Armando editore, Roma, 2007.
- La controrivoluzione copernicana.
Il nichilismo è l’altra faccia del soggettivismo moderno.
Il nichilismo afferma che “Dio è morto”. Il relativismo, il prospettivismo etico e teoretico sono le facce visibili del nichilismo. Da questo si deve partire, in modo particolare, dal loro padre: Nietzsche. Questi è indubbiamente il termine conclusivo di un lungo periodo della filosofia, iniziatosi con Cartesio, nel quale la realtà oggettiva viene ridotta alla volontà soggettiva.
Ma cominciamo da Kant. Questi introdusse il termine “Rivoluzione copernicana”[1] nella prefazione alla seconda edizione della Critica della Ragion Pura, intendendo con ciò operare, nel campo della metafisica ciò che i Greci nel campo delle matematiche, Galileo e Newton nel campo della fisica avevano già operato: fornire, cioè, la metafisica di un nuovo metodo che le permettesse di operare proficuamente. Come tutti sanno, il succo di tale rivolgimento fu da Kant stesso definito come un aggiustamento dell’oggetto sul soggetto e non viceversa. Noi ravvisiamo in questo già l’emergere del nichilismo che giungerà a compimento quando i cosiddetti maestri del sospetto porteranno la dissoluzione all’interno del soggetto e della coscienza. In che senso intendiamo ciò? Con quale ardire ci permettiamo di intaccare il mito e uno dei fondamenti del pensiero contemporaneo? Di lui si può dire ciò che Platone disse di Parmenide padre venerando e terribile; eppure, come Platone ci accingiamo ad operare un simile parricidio facendo nostro il moto con cui Aristotele prese le distanze da Platone stesso: Amicus Plato sed magis amica Veritas.
Ebbene, quando affermiamo che con Kant e precisamente con la sua rivoluzione copernicana si dà inizio al compimento del nichilismo intendiamo dire che proprio questo principio nuovo che avrebbe dovuto aprire il campo alla metafisica, ne imbriglia, invece, ogni possibilità conoscitiva. Quando Kant dice che suo scopo è limitare il campo della conoscenza possibile alla sola esperienza – di fatto portando a compimento il pensiero humiano e dando basi ontologiche a questo – impedisce alla metafisica ogni pretesa conoscitiva. Il fatto poi che conceda alla ragione il campo della pensabilità degli oggetti senza per questo conoscerli, e la possibilità di guidare l’azione pratica, mi sembra più un modo per liquidare la questione che per affrontarla dai fondamenti. Tanto più che la Ragione Pratica da una parte sembra un cieco che va a tentoni, non avendo più potere conoscitivo, e dall’altra, un prigioniero in catene che può andare solo dove l’intelletto le concede di andare. Una metafisica nei soli limiti dell’intelletto o della pura critica ha avuto la stessa sorte della religione, stretta anch’essa nei soli limiti della Ragione, e ridotta a morale senza principi né fondamenti metafisici. Altro che colomba che non può volare nel vuoto, qui la colomba è stata presa e messa in gabbia. Del resto, il concetto illuminista cui si rifà Kant, quando parla di autonomia della ragione non ha fatto che partorire quella triste parodia che fu la deificazione della Ragione operata dalla rivoluzione francese durante il periodo del terrore. Tanto Kant la esaltò, quanto noi la riteniamo esecrabile, nemmeno i due tentativi di ripristinare la metafisica, successivi a Kant, hanno avuto buon esito. Il primo, quello dell’idealismo di Ficthe ed Hegel, ha portato allo Stato etico e ai regimi totalitari; il secondo, quello di Schopenhauer e Nietzsche al nichilismo compiuto e alla “morte di Dio” con conseguente relativismo e nichilismo pratico. Non dubitiamo affatto della buona fede di Kant che consistette nel tentativo di definire il dominio dell’intelletto e quello della ragione, ma sta di fatto che con Kant l’unica metafisica possibile è la critica della ragione pura stessa e null’altro. In che senso, dicevamo, vediamo giungere a maturità il nichilismo con Kant? Essenzialmente in questo: Con la rivoluzione copernicana il mondo diventa oggetto della volontà del soggetto; anche se ciò accade per il solo aspetto fenomenico della rappresentazione, in quanto Kant riconosce cha la materia del sapere ci è data, sta di fatto che la conoscenza si riduce alla rappresentazione della cosa, sia pure come sintesi a priori del dato dell’esperienza e delle forme a priori, mentre la metafisica, ridotta a scienza del trascendentale, si limita alla conoscenza a priori delle forme stesse della sensibilità e dell’intelletto. Il pericolo nichilista insito nella filosofia di Kant, sta proprio nella riduzione del mondo alla volontà del soggetto, sia pure un soggetto trascendentale che non si risolve ancora nell’io empirico del relativismo etico – nichilista. Con questo ribaltamento, kant separa definitivamente l’essere della cosa dalla sua pensabilità, riducendo il pensare al semplice conoscere trascendentale; l’aver, poi, dato a questa nuova pensabilità delle strutture universali e necessarie, esemplificata nella sintesi a – priori, conferma ulteriormente quanto andiamo dicendo. È proprio da Kant che bisogna prendere le distanze, poiché il superamento del nichilismo consiste in un radicale ripensamento delle posizioni kantiane espresse soprattutto nella Critica della Ragion Pura. L’idealismo fichtiano ed hegeliano sono una conseguenza della filosofia kantiana, per cui si può dire della filosofia idealista ciò che Dostoevskij diceva di Gogol: “Siamo tutti usciti dal Cappotto di Gogol!”, riferendosi ad un noto racconto dello scrittore russo. Finché non si sarà sviscerata la filosofia kantiana e smontatane le pretese universali, le ombre del nichilismo appesteranno il pensiero Occidentale. Siamo, infatti, in pieno disaccordo con le tesi di Heidegger secondo cui l’oblio dell’essere inizia con la metafisica greca di Platone e di Aristotele ed in modo particolare con la Scolastica latina. C’era nel pensatore tedesco una certa antipatia per il mondo latino e per il cristianesimo in particolare, quasi che, come sottolinea Edith Stein, non riuscisse perdonarsi d’essere nato cristiano e facesse di tutto per ritornare al paganesimo primigenio delle terre tedesche, credendo di trovare in questo la sua ancora di salvezza. A conferma di quanto vada dicendo basta leggersi gli scritti di Heidegger intorno alla Metafisica, e a Kant, quelli sul poeta tedesco Holderlin, Essere e Tempo, nonché i suoi famosissimi Holzwege.
Non possiamo, quindi, minimamente rimanere entro l’eredità kantiana, a recitare ancora sul palcoscenico che con tanta cura egli edificò alla filosofia contemporanea, ma dobbiamo ritornare alle cose stesse, come auspicava Husserl, con uno sguardo purificato. Un compito immane ci aspetta, e non sappiamo nemmeno se riusciremo a compierlo, ma il nostro interesse primario è quello di aprire un nuovo sentiero alla filosofia, non interrotto né interrrompibile; perciò esortiamo i filosofi cristiani a non temere questi giganti del passato, ma a fare nostre le parole con cui Bacone si poneva dinanzi alla tradizione: I veri giganti siamo noi, che giudichiamo i mostri del passato.
In verità, questa riduzione del mondo all’Io inizia con il soggettivismo cartesiano. È con lui, infatti, che il significato del termine “soggetto” viene capovolto o, se si preferisce, subisce una rivoluzione. Prima di Cartesio il termine significava semplicemente: “ciò che soggiace a”, appunto “sub – iectum” da “sub – iacere”. Da Cartesio in poi, il termine assume in filosofia il significato che gli riconosciamo per lo più: ciò da cui dipende il mondo. Certo, il termine si è arricchito con Kant e si è completato con l’idealismo, ma la critica dissolutiva che ne fa Nietzsche è già insita nella posizione soggetto – oggetto inaugurata da Cartesio. Bisognerà aspettare l’idealismo perché la res cogitans di Cartesio diventi il Soggetto e la res extensa l’oggetto, ma il futuro ha già posto le sue radici nel presente. Sicuramente questi rimane ancora nell’orizzonte della scolastica contro cui pur combatteva, per molti aspetti del suo pensiero; eppure, è proprio da lui che inizia il tutto! D’altra parte, il filosofo francese si ritiene pienamente collegato alla tradizione della metafisica e, in più, rimasto alla fine del dubbio con il solo cogito, ha bisogno di Dio tanto per fede, quanto per trovare la via che dal solipsismo del cogito lo riporti al mondo, mondo per ora dissoltosi sotto i colpi del dubbio iperbolico. A parte il linguaggio per molti aspetti ancora legato alla tradizione da cui voleva separarsi, Cartesio pone le basi della filosofia moderna che in Kant e Nietzsche troverà pieno compimento: ora, finalmente (?) il mondo non è che oggetto, “ob-iectum” Gegen-stand”, di fronte al Soggetto. Qui è già in nuce la rivoluzione copernicana operata da Kant. Con il mondo ridotto a pura rappresentazione inizia la dissoluzione del soggetto; entrambi sono aspetti del nichilismo, entrambi sono già presenti in Cartesio e Kant. Quando Nietzsche, dopo l’affermazione della morte di Dio, ritiene che tutti i valori e i punti di riferimento siano venuti meno, proprio questo ha in mente. La sua affermazione “non esistono fatti, ma solo interpretazioni” (che ben esprime il nichilismo compiuto), non solo riduce il mondo ad in una pluralità di prospettive in lotta tra loro, dove solo la più potente si afferma (la più potente, cioè quella del superuomo), ma ha come portato la dissoluzione stessa del soggetto e della coscienza. Sebbene con questa affermazione egli abbia di mira il positivismo e la sua riduzione della realtà al solo fatto misurabile (e che cosa è il positivismo se non l’ultima versione di quel poderoso movimento inaugurato da Cartesio?), tale affermazione assume una valenza programmatica per lo stesso Nietzsche. Il suo nichilismo è la riaffermazione della potenza, il suo vitalismo un inno dionisiaco, una malia che pervade di sé la civiltà Occidentale. Il rimedio che egli cerca contro la decadenza dell’Occidente, il suo nichilismo attivo, è peggiore del male contro cui combatte con tutte le sue forze: il nichilismo passivo. Inoltre, vi sono molti errori nelle sue stesse analisi e alcune ingenuità che ne fanno un pensatore romantico.
È all’interno della rivoluzione copernicana che è concepibile, e concepito, un modello di ermeneutica come esercizio del sospetto. Tanto è vero che Ricoeur concepisce l’esercizio della simbolizzazione, precedente alla decifrazione ermeneutica, come funzione che conferisce senso alla realtà. E quando questi si domanda perché definire simbolica questa funzione, egli stesso si risponde dicendo: “Innanzitutto per esprimere il carattere universale della rivoluzione copernicana che ha sostituito alla questione sulla realtà, quale può essere in sé, quella dell’obiettivazione ad opera della funzione di sintesi dello spirito”[2]. Soltanto all’interno di questa rivoluzione è concepibile lo sviluppo di tutta la filosofia contemporanea. Ma, il fatto che kant abbia costruito il palcoscenico per questa recita, dove da Kant in poi le varie filosofie hanno recitato la loro parte, dinanzi a quello stesso scenario, non implica che quel palco possa essere smantellato per vedere, finalmente, dietro di esso emergere le cose così come sono. Questa operazione di smantellamento, se così si può, dire, va fatta al più presto, perché lo scenario in versa la filosofia è oggi più che mai insopportabile.
“Il simbolico” continua Ricoeur “è l’universale mediazione dello spirito tra noi e il reale: il simbolico vuol esprimere prima do ogni altra cosa la non immediatezza della nostra apprensione della realtà”[3]e questo ci porta, finalmente nel cuore del problema: la riflessione intorno all’ermeneutica. Ricoeur , nel suo Saggio su Freud, dedica un capitolo al cosiddetto conflitto delle interpretazioni , ove si parla del conflitto esistente tra l’ermeneutica intesa come esercizio del sospetto, i cui padri sono Marx, Nietzsche e Freud, e l’ermeneutica intesa come restituzione del senso , e perciò esegesi, che ha i suoi padri, da una parte, nei Padri della Chiesa e negli scrittori ecclesiastici, e dall’altra, nella scuola ebraica che fa capo a Filone di Alessandria e in quella rabbinica che porterà alla formazione del Talmud sia nella versione gerosolimitana che in quella babilonese. E non come alcuni fanno nella vulgata, al conflitto di interpretazione esistente tra le vedute del mondo dei famosi quattro amici al bar. A queste due scuole, identificate da Ricoeur, ne aggiungiamo una terza, innestata sì sull’ermeneutica intesa come restituzione del senso, ma che tiene conto del Principio di partecipazione di cui parleremo in seguito. Veniamo però prima al conflitto vero e proprio, seguendo l’analisi fatta da Ricoeur che riprendiamo.
Per definire il primo senso del termine ermeneutica egli più che al Peri ErmhneiaS di Aristotele si rifà all’esegesi biblica, qui l’ermeneutica è definita come “la scienza delle regole dell’esegesi”[4] che si realizza nella comprensione del testo. Ricoeur vede in ciò un limite che, invece, per noi rappresenta la sua forza. Egli vede un limite in quanto per lui l’ermeneutica è la fase seconda di un’attività del soggetto che ha già conferito un senso alle cose, senso che queste prima dell’attività del soggetto non avevano. Non possiamo dargli torto visto che così facendo si ragione ancora all’interno dell’orizzonte disegnato da Kant con la rivoluzione copernicana. “Limite di questa definizione” egli dice “è il suo riferirsi ad un’autorità monarchica, collegiale o ecclesiastica che sia”[5]. E nell’orizzonte illuminista e neo-illuminista in cui si muove anche Ricoeur, purtroppo, questo fatto di primaria importanza è impensabile. Kant, in una famosa frase, definì l’illuminismo come l’uscita della ragione dallo stato di minorità, visto come eteronomia, verso la maturità, vista come autonomia. Ora, senza nulla togliere alla Ragione, anzi, volendo ridarle la sua giusta dignità, umiliata da oltre tre secoli di illuminismo, diciamo che una ragione chiusa alla trascendenza è una ragione disperata, una ragione senza futuro e senza più libertà: ovvero, una ragione morente, se non già morta, putrefatta, il cui lezzo pervade di sé ogni dove. Una Ragione così intesa è una Ragione senza più anelito alla Verità, e perciò non è più ragione; contro di essa, contro questo attacco mortale alla ragione deve levarsi la Ragione amante della Verità. “La Ragione in lotta”, come la definisce Jaspers, si leva “alta in un mondo di non-ragione per affrontare i continui pervertimenti che la tramutano in antiragione”[6] .
Ritornando all’argomento che stavamo trattando, a detta di Ricoeur, ci si trova dinanzi al bivio costituito da una interpretazione come restituzione del senso e una interpretazione intesa come esercizio del sospetto, demistificazione o liberazione dalle illusioni. Infatti, “da un lato l’ermeneutica è intesa come la manifestazione e la restaurazione di un senso che mi è indirizzato come un messaggio, un proclama, o, come talvolta si dice, un kerigma; dall’altro come una demistificazione, una riduzione delle illusioni”[7]. Perciò tra le due, il conflitto si presenta come un conflitto tra fede e malafede, tra fede e sospetto; la fede arricchita dalla mistagogia e il sospetto che alla fine scardina l’io stesso e che, come dice Sartre, lo rende produttore del nulla, mentre la fenomenologia diventa restituzione del senso, mediazione della Verità. Qui esiste il primato della res che è la parola, o meglio, la creatura che riflette, come in un coagulo, la parola creatrice con cui è stata chiamata da Dio dal nulla, e perciò, conserva in sé l’intenzione con cui il Creatore la creò, come sua stessa e intima natura.
Nell’ermeneutica, intesa come esercizio del sospetto, invece, ci si trova di fronte ad un processo definito liberatore, ma che liberatore non è affatto, tale processo mirerebbe a liberare(?) la coscienza dalla menzogna che l’attanaglia, per cui la coscienza è sempre falsa - coscienza. Senza dubbio Marx, Nietzsche e Freud sono i dominatori di questa concezione, gli altri, gli epigoni. Per loro non c’è nessun sacro (meglio sarebbe dire santo)[8] da interpretare, nessuna rivelazione da comprendere, nessun cielo cui guardare. Giustamente nota Ricoeur che queste tre scuole del sospetto “hanno in comune la contestazione del primato dell’oggetto”[9]. Ed è ovvio, perché tutti e tre recitano sul palcoscenico costruito dal filosofo di Konigsberg; gli è che più che di oggetto bisogna riparlare di res, anzi di creatura nel caso di uomo e natura, poiché l’oggetto è in relazione al soggetto e da questi riceve se non l’essere almeno il senso.
La controrivoluzione copernicana consiste in questo: riconoscere alle cose la loro intenzionalità data come coagulo della parola con cui, per mezzo di cui e per cui, furono create. Questo ci porta non solo a rifiutare completamente un’ermeneutica come esercizio del sospetto, ma anche a rivedere, aggiustandola, la vecchia e antica concezione dell’ermeneutica come restituzione del senso. È vero ciò che dice Ricoeur quando afferma che “Cartesio trionfa del dubbio sulla cosa con l’evidenza della coscienza”, mentre i tre maestri del sospetto “del dubbio sulla coscienza trionfano per mezzo di un’esegesi del senso”[10] che però, in quest’ultimo caso, non porta affatto ad un nuovo mondo di verità, porta, invece, al nulla. Cosa intende dire Ricoeur con l’espressione a loro riferita “a partire da loro, la comprensione è un’ermeneutica”[11] se non che la comprensione è storicizzata, cioè, ci si trova di fronte ad un indebolimento dell’essere? L’errore sta nel fatto che il senso della cosa da interpretare è già dato e non è posto lì dalla coscienza che, liberata dalle illusioni, troverebbe finalmente se stessa. È già dato e scritto nella cosa stessa. Mi si può obiettare che un simile discorso lo si potrebbe accettare solamente per ciò che è già creato da Dio (ammesso che la contestazione venga da chi ammette che Dio esiste), ma per ciò che l’uomo fa liberamente questo discorso non regge. Una simile contestazione non tiene conto del significato vero e profondo della libertà, che non consiste nel costruire eterne copie della Torre di Babele, ma nell’essere custode del creato, soprattutto nelle sue opere. In questo sta il destino, inteso come destinazione data da Dio all’uomo, realizzazione della quale richiede la libertà partecipante dell’uomo. Quando l’uomo conferisce senso alle cose che fa e al suo mondo, può conferirgli un senso vero, (che rientra nel disegno di Dio sul creato) se quel senso è l’interpretazione completante le cose di quella destinazione che Dio ha già dato loro; o, altrimenti, se il senso che dà è contrario al disegno divino, tale conferimento di senso diviene il gioco delle maschere nichiliste che tutto relativizzano. Compito dell’ermeneutica è quello di attualizzare completandone il senso, quel senso che è già dato, riconoscerlo e applicarlo alle mutate condizioni storiche. Qui sta la storicità del comprendere che non deve rendere impossibile il comprendere la storicità: “L’eterno si fa presenza solo nella comprensione storica. La storicità è essenzialmente l’unità della temporalità e dell’eternità”[12] insegna Jaspers. Su questo tema ritorneremo tra breve.
“L’uomo che sospetta compie in senso inverso il lavoro di falsificazione dell’uomo che gioca d’astuzia”[13]. All’origine ci fu l’astuzia, dunque. Quale? Quella di dare alle cose un senso diverso da quello che esse già possedevano in quanto creature. Alla fine, la malafede e la falsa coscienza, tolto quello pseudo – senso dato, non trovano che il nulla, quel nulla che come nichilismo loro stesse hanno posto: una scimmiottatura della vera ermeneutica. Il problema è che questi cosiddetti maestri del sospetto non allargano affatto il campo della coscienza, come credono o vogliono credere, e come erroneamente crede lo stesso Ricoeur, ma obnubilano del tutto schiavizzandola alla malia della loro pseudo - filosofia, o non-filosofia, come la chiama giustamente Jaspers. La lezione di Spinoza, secondo cui “dapprima ci scopriamo, comprendendo la nostra schiavitù, ci troviamo liberi nella necessità compresa”[14] cui si rifà il filosofo francese, non produce affatto la liberazione, ma un’illusione di liberazione e, in più è semplicemente una tesi neo - gnostica. Il sapere che si è in prigione non libera affatto dalla prigione, né la Ragione, per quanto esperta, può liberarsi da sola. Rimarremmo, altrimenti, ancora sul palcoscenico costruito da Kant, senza aver preso coscienza che la vita è altrove. Perché questo accada è necessario che qualcuno ci liberi.
Mi viene in mente il passo degli Atti degli Apostoli in cui si narra la cattura e la liberazione di Pietro. Riporto il passo:
Erode Antipa “Fattolo catturare lo gettò in prigione consegnandolo in custodia a quattro picchetti di quattro soldati ciascuno, col proposito di farlo comparire davanti al popolo dopo la pasqua. Pietro dunque era tenuto in prigione, mentre una preghiera saliva incessantemente a Dio dalla Chiesa per lui. E in quella notte, quando poi erode stava per farlo comparire davanti al popolo, Pietro piantonato da due soldati e legato con due catene stava dormendo, mentre davanti alla porta le sentinelle custodivano il carcere. Ed ecco gli si presentò un angelo del signore e una luce sfolgorò nella cella. Egli toccò il fianco di Pietro, lo destò e gli disse: ‘Alzati, in fret5ta!’ E le catene gli caddero dalle mani. E l’angelo a lui: ‘ Mettiti la cintura e legati i sandali. E così fece. L’angelo disse: ‘Avvolgi il mantello, e seguimi!’ Pietro uscì e prese a seguirlo, ma non si era ancora accorto che era realtà ciò che stava succedendo per opera dell’angelo: credeva infatti di avere una visione” (At 12, 4 – 9).
Pietro fu piantonato da quattro picchetti di quattro soldati ognuno, simbolo dei quattro punti cardinali. Pensavano infatti, che i suoi fratelli avrebbero tentato di liberarlo, ma la Chiesa si rivolse a Dio e questi mandò dall’Alto del suo Trono un Angelo a liberarlo, segno che la vera libertà, quella che porta l’uomo fuori dal carcere delle sue illusioni, viene solo da Dio. Filosoficamente ciò significa che solo una Ragione aperta la divino può cambiare la storia dell’uomo, altrimenti non ne viene che morte e nulla.
Accanto alle due ermeneutiche in conflitto, ci pare possa essercene una terza, non individuata da Ricoeur e nemmeno frutto di una sintesi dialettica tra le due (ci riteniamo vaccinati da tale concezione dialettica della storia), quanto semplicemente innesto nuovo sulla tradizione antica. Possiamo utilizzare quale paradigma esplicativo la Chiesa stessa e la parola delle Sacre Scritture che Origene definisce “quasi una perenne incarnazione del Logos”. Si tratta di un paradigma che successivamente, durante la nostra analisi, approfondiremo meglio, ma per ora atteniamoci ad una esposizione stringata; la terza via, in fondo, tiene conto del significato autentico e della prassi ecclesiale dell’esegesi biblica, infatti, l’interpretazione della parola possiede anche una valenza esistenziale, cioè pratica, poiché essa è destinata, sia nel cristianesimo che nel giudaismo, anche se in modo diverso, ad informare di sé la vita del credente. Accanto al senso escatologico che la parola contiene, alla promessa che porta con sé della venuta del Messia instauratore di un’era messianica, accanto al compimento delle promesse fatte ai profeti, per il cristianesimo di tale promessa già realizzatasi in Cristo (anche se non ancora definitivamente instaurata), essa conserva, diremmo proprio in virtù di questo compimento, una dirompenza capace di illuminare la vita di ogni uomo che viene nel mondo
Quella valenza personale della parola di Dio, per cui si può dire che tutta la sacra Scrittura è stata scritta per me che scrivo e per te che leggi, la rende veramente la “lampada per i miei passi” di cui parla il salmista. Fermo restando quanto dice l’apostolo che “nessuna scrittura profetica va soggetta a privata spiegazione, perché non da volontà umana fu recata mai una profezia, ma mossi dallo Spirito santo parlarono quegli uomini da parte di Dio” (2Pt 1,20s.), rimane il fatto che un salmo, o un suo versetto, un passo dell’Esodo o una parola profetica, letta all’interno della tradizione può diventare una parola detta a me, che illumina la mia vita e la riscalda, qui, adesso, sia che sia un giudeo, sia che sia un cristiano e voglio dire di più, sia che sia un non credente.
Questo il paradigma teologico. Ora, come tradurlo in chiave filosofica? Quali le sue implicazioni nella filosofia? Bisogna partire innanzitutto da una considerazione di tipo storico. Noi ci troviamo di fronte ad una svolta, ad una di quelle rotazioni della storia che segnano l’inizio di una nuova era; per meglio comprendere ciò che sta accadendo è necessario guardare allo sviluppo storico della nostra civiltà.
Dalla caduta dell’impero romano fino all’Umanesimo, la cultura Occidentale è stata salvata, conservata, alimentata dai Chierici. Essi hanno fornito i quadri dirigenti a ciò che rimaneva in piedi dello Stato romano in Europa durante le invasioni barbariche, contribuendo alla formazione della nuova civiltà che stava nascendo dalle ceneri del mondo antico, e fino alla fine dell’Alto medioevo non hanno avuto rivali. Senza di essi, non solo non vi sarebbe stata più traccia del mondo antico, ma nemmeno la civiltà europea sarebbe stata ciò che è. Un esempio è stata la rinascenza carolingia e l’esperienza della Scolastica. Poiché sono i chierici che conservano ed alimentano la cultura, e poiché la società alto medioevale è centrata intorno alla figura del monaco e del chierico, la cultura di questo tempo e la filosofia rispecchiano le tematiche ed i problemi del mondo clericale: le questioni inerenti la fede. la filosofia è ancilla Theologiae, cioè propedeutica allo studio dei dogmi. La società è societas christiana, retta dai due poteri, o conformata ad essi, secondo la teoria delle due spade. Gli argomenti trattati dalla filosofia, perciò, sono argomenti strettamente collegati alle problematiche inerenti la fede e l’applicazione dei dati della fede alla vita. La tensione escatologica, che si esprime anche nel millenarismo, proietta l’intera società verso la venuta del Messia. La filosofia è retta qui dal principio ermeneutico della restituzione del senso.
Anche nel Basso Medioevo, sia pure nelle mutate condizioni storiche e sociali, determinate dalle crociate, dalla rinascita delle città e dalla rispettiva affermazione del ceto mercantile, questo primato rimane. E rimane anche durante l’Umanesimo e Rinascimento fino alla riforma, ma più ancora, fino alla Rivoluzione scientifica del Seicento e dell’Illuminismo. L’impulso dato dal ceto mercantile alla filosofia, alla cultura e alle arti è orientato all’esaltazione della vita activa a discapito di quella contemplativa. A differenza della nobiltà, il ceto mercantile chiede e pretende cultura, ed è sotto la sua spinta che nell’età moderna si avrà il passaggio al nuovo paradigma interpretativo.
Il principio ermeneutico di questo primo periodo, che assimila a sé tutta l’antichità sia greco – romana che giudaica, è monarchico e tale è l’ermeneutica che ne viene fuori; questo, anche se ne è il limite, non è affatto un elemento negativo.
L’età moderna e contemporanea che ha in Kant il suo punto cruciale è caratterizzata dalla secolarizzazione e dall’affermarsi dell’ermeneutica come esercizio del sospetto. I due fenomeni sono concomitanti e si alimentano a vicenda. Da un punto di vista storico quest’epoca si chiude con la fine della guerra fredda e con l’attentato alle torri gemelle che apre la nuova era.
Questa nuova era, che si vorrebbe l’era dell’avvento del nichilismo, meglio sarebbe dire del nichilismo compiuto, è l’era, invece, di una nuova grande battaglia di idee, che vede gli spiriti migliori ergersi contro il nichilismo, anzi è la nuova evangelizzazione che si erge contro il nichilismo e genera uomini nuovi. Questa nuova evangelizzazione, promossa dalla Chiesa, che mira a ridare all’Europa il suo ruolo e il suo posto nella storia, già in opera dalla fine del Concilio Vaticano II, crea un nuovo modello di Chiesa e di società, che reagisce al nichilismo compiuto e, conseguentemente a ciò, crea un nuovo principio ermeneutico che definiamo: Principio di partecipazione o Principio della monarchia partecipata. Prima però di esporre questo ultimo punto, ritengo necessario riaffermare il ruolo centrale dell’Europa, ruolo che le viene dal suo destino incancellabile.
In una conferenza tenuta a Vienna nel maggio del 1935, quando già le ombre sinistre del nuovo mostro minacciavano la stessa Europa e il mondo intero, Edmund Husserl, conscio della crisi in cui versava la filosofia e soprattutto l’umanità europea, riaffermava con forza, e oggi diremmo con lungimiranza titanica, la sua missione di civiltà e il suo irrinunciabile destino. Ed è ammirevole, che a differenza di altri filosofi collusi col potere malefico del nazismo e che poi nel dopoguerra si sono rifatti una verginità, Husserl, prima ancora che il mostro potesse ghermirlo perché ebreo (sorte da cui fu liberato dall’imminente morte), aveva tracciato la via del riscatto dell’Europa in questo nostro millennio, gonfio di nichilismo e di odio, verso Dio e verso se stesso. Di Husserl condividiamo l’impianto di fondo, ma ci differenziamo circa l’esito delle sue analisi e dal compito affidato alla filosofia, quello cioè di scienza universale. non che essa non sia tale anche per noi, ci domandiamo, però, se oggi non sia giunto il momento di superare la scissione che ha caratterizzato l’età moderna e contemporanea della nostra civiltà e che si sintetizza nel termine secolarizzazione. Non ci pare, come altri vorrebbero farci credere, che la filosofia del primo millennio sia un incidente di percorso, ci riteniamo liberi dal pregiudizio umanista per cui bisognava tornare all’antichità ed imitare gli antichi in ogni cosa. Riteniamo, invece, che oggi si possa giungere ad una filosofia che fa sua sia la tradizione medievale che quella moderna e contemporanea. Non abbiamo, infatti, nessuna intenzione di rinunciare alla filosofia moderna e contemporanea, riteniamo però che si possa criticarne i fondamenti senza incorrere in nessuna scomunica laica. Inoltre, siamo convinti che si possa continuare sulla linea intravista da Schelling e tracciata con chiarezza da Edith Stein circa l’urgenza di una filosofia religiosa, tanto più che la nuova evangelizzazione sta già preparando una nuova Europa cristiana, anche se la storia sembra mostrare un volto completamente diverso.
Husserl, dunque. E così facendo diamo una risposta alla domanda posta da Husserl stesso se esista o meno una teleologia, un destino, una missione propria dell’umanità europea. “Questa indagine rivelerà una sorprendente teleologia propria soltanto dell’Europa, una teleologia strettamente connessa alla nascita della filosofia e delle sue ramificazioni, alle scienze dell’antica Grecia”[15].ma di quale Europa si parla? Conveniamo con il filosofo di Gottinga che in un senso spirituale riteniamo nell’Europa i dominions inglesi, gli Stati Uniti etc.”[16] intendendo anche il Sud America: Oggi, diremmo Occidente. Nonostante le guerre, le inimicizie Husserl coglieva una particolare affinità spirituale che determina la coscienza di una appartenenza[17] e che, aggiungiamo, ha nel giudeo -cristianesimo e nel mondo greco – romano le sue radici. Questa coscienza di appartenenza determina la coscienza di una finalità, di un destino, come dicevamo. Questa specificità europea consiste nella filosofia, dice Husserl, e noi aggiungiamo nella rivelazione biblica. la filosofia che nasce dai greci non è assimilabile né alle filosofie orientali, né a nessuna cultura o forma di pensiero della civiltà umana, poiché solo presso i greci essa diviene episteme, libera da ogni interesse pratico che le filosofie altre conservano.” soltanto presso i greci questo interesse (…) assume la forma, essenzialmente nuova, di un atteggiamento puramente ‘teoretico’”[18] . l’origine di questo atteggiamento nuovo fu la “meraviglia”, ecco cosa c’era all’origine della filosofia: la meraviglia e lo stupore. “L’uomo è preso dalla passione per una considerazione ed una conoscenza del mondo che si tacca da tutti gli interessi pratici e che (…) non persegue e non produce altro che teorie”[19]. Qui sta l’unicità naturale dell’umanità europea su cui si innesta la rivelazione biblica. fin qui il nostro cammino coincide con quello husserliano. Tutti sano che Husserl ravvisa la crisi dell’umanità europea nel tradimento delle scienze nei confronti del mondo della vita che pur le aveva generate e le sosteneva e nel loro scadimento nell’ossessione dell’obiettivismo. Noi sosteniamo che l’Europa per uscire dalla crisi in cui è caduta, crisi che noi chiamiamo “nichilismo compiuto”, debba guardare avanti, attraverso la sua storia e debba farlo con coraggio. Qui scoprirà unite e in una nuova sintesi le sue antiche matrici: il pensiero greco e il diritto romano, da una parte, e la rivelazione biblica, giudeo – cristiana dal l’altra. Siamo fiduciosi e facciamo nostre le parole di Husserl quando affermava che “quella crisi europea di cui oggi tanto si parla, e che è documentata da innumerevoli sintomi dissoluzione, non è un oscuro destino, non è una situazione impenetrabile; essa diventa comprensibile e trasparente sullo sfondo di quella teleologia della storia europea che la filosofia è in grado di illuminare”[20]. La crisi è la crisi del razionalismo come la definì Husserl, crisi della ragione, quindi, ed è consistita nell’abbandono della sua intima relazione con la fede che l’ha colpita dall’Illuminismo in poi. E perché non si possa dire con Petrarca “Povera e nuda vai filosofia”, essa deve essere aperta al mistero che è Dio e la sua parola.
Non possiamo non far nostre le parole con cui Husserl concludeva quella mirabile e profetica conferenza, tanto da farne il nostro motto: “Ma la crisi dell’esistenza europea ha solo due sbocchi: il tramonto dell’Europa, nell’estraniazione rispetto al senso razionale della propria vita, la caduta nell’ostilità allo spirito e nella barbarie, oppure la rinascita dell’Europa dallo spirito della filosofia, attraverso un eroismo della ragione capace di superare” [21] il nichilismo (concludiamo noi), sostituendo questo termine al naturalismo, visto da Husserl come elemento originario della crisi. Certo, l’Europa è stanca, come diceva Husserl, notando già allora questa tonalità fondamentale del nostro tempo; ma, egli stesso ora ci esorta in quanto filosofi e uomini di idee: “combattiamo contro questo pericolo estremo, in quanto “buoni europei” in quella vigorosa disposizione di animo che non teme nemmeno una lotta destinata ad durare in eterno; allora dall’incendio distruttore dell’incredulità, dal fuoco soffocato della disperazione per la missione dell’Occidente, dalla cenere della grande stanchezza rinascerà la fenice di una nuova spiritualità, il primo annuncio di un grande e remoto futuro dell’umanità”[22]. Questa stanchezza è il sintomo della malattia del nostro tempo: il nichilismo ed il relativismo che sono di moda nella nostra civiltà; contro di esso si leva la nostra battaglia.
[1] Cfr. CRP, p. 20.
[2] DI, p. 22s.
[3] DI, p. 23.
[4] DI, p. 38.
[5] DI, p. 38.
[6] VuW, p. 63.
[7] DI, p. 41.
[8] La differenza tra sacro e santo è stata ben chiarita da Emanuel Levinas nel suo scritto Dal sacro al santo cui rimandiamo. Qui diciamo solamente che il concetto di sacro, strettamente collegato al suo opposto esecrabile, definisce ciò che è l’oggetto di una garanzia soprannaturale, santo invece definisce ciò che separato dalla morte come Dio è separato dalla morte, anzi come Dio ha vinto la morte.
[9] DI, p. 48.
[10] DI, p. 47s.
[11] DI, p. 48.
[12] VuW, p. 46.
[13] DI, p. 48.
[14] DI, p. 50.
[15] E. Husserl, La Crisi dell’umanità europea e la filosofia. Conferenza tenuta il 7 ed il 10 maggio del 1935 al Kulturbund di Vienna, in Krisis, citato, p. 331s. d’ora in poi CUEF.
[16] CUEF, p. 332.
[17] Cfr. CUEF, p. 332.
[18] CUEF, p. 338.
[19] CUEF, p.343.
[20] CUEF, p.337.
[21] CUEF, p. 358.
[22] CUEF, p.358.