E. Gilson: la neutralizzazione dell’esistenza in Kant

Nella Prefazione alla orami famosa II edizione della Critica della ragion pura Kant presenta se stesso come il “rivoluzionario”, egli ritiene che la scienza faccia progressi solo per mezzo di brusche rivoluzioni operate da un solo uomo: matematica (ma non si conosce il nome) Fisica (da Galileo a Newton) = definitiva, ovviamente in Newton. Resta la Metafisica, ci penserà lui, Kant il rivoluzionario. Questa terza rivoluzione nel medesimo senso delle 2 precedenti si fonda però sul principio per cui «lo spirito altro non trova nella natura se non quello che esso vi apporta»[i]. «Principio rivoluzionario – dice testualmente Gilson - in cui finalmente l’intelletto umano osava proclamare la sua più profonda aspirazione: creare il reale a sua immagine e somiglianza, al fine di potervisi compiacere, nella certezza assoluta di non incontravi mai nulla di estraneo alla propria essenza e di potere sempre ritrovarcisi»[ii].

Il poeta e filosofo tedesco Heine disse che in Kant c’è un coté Robespierre[iii]. Questa l’origine del kantismo. Kant convince i suoi successori che 1) la metafisica non è ancora scienza; 2) che lui la renderà tale; in più, va aggiunto che per Kant l’opera di Newton è definitiva, nel senso che la fisica di Newton è la fisica che ha raggiunto il più altro grado di sviluppo, sappiamo poi come sono andate le cose. Sembrava che Wolff c’avesse provato ma non aveva ottenuto nessun risultato valido.

Per Kant, le cui conoscenze di filosofia antica e medievale erano decisamente limitate, Wolff era la metafisica stessa. Identificando quindi il wolfismo con la metafisica tout court, per il konigseberghese lo scacco dell’uno coincideva con lo scacco dell’altra. Sappiamo che la Metafisica di Wolff non è in realtà nient’altro che una ontologia astratta, incentrata sull’entitas in generale, per la quale il mondo, l’anima e Dio non sono che altrettanti oggetti particolari, ai quali si applicavano le categorie ontologiche in cosmologia, pneumatologia e teologia, come in altrettante scienze particolari[iv]. La metafisica, quindi, per Kant apparteneva a quella scolastica superata dalla riforma baconiana e orami definitivamente obsoleta.

Attraverso Wolff, ci fa notare Gilson, (definito da Kant il maggiore dei dogmatici) e Suarez (definito da Wolff l’interprete più profondo del problema dell’essere). Kant, ignaro di tutto ciò, privo com’era dei rudimenti minimi di storia della filosofia, ereditava quella metafisica avicenniana dell’essenza comune, in cui l’esistenza sopravviveva all’essenza come una sorta di accidente ossia come un complementum possibilitatis[v].

Quando Kant dirà: «Hume mi ha svegliato dal sonno dogmatico» si riferirà a quel dogmatismo che niente a che fare con la metafisica aristotelico-tommasiana. Tale dogmatismo era una pura costruzione razionale a-priori; questo dogmatismo, che Kant aveva ereditato da Wolff, si scontrò con lo scetticismo di Hume. Fu la dimostrazione data da Hume del carattere non analitico del rapporto di causalità ad attrarre l’attenzione di Kant[vi].

Niente di più corretto perché il rapporto causa ed effetto non può essere pensato apriori dalla ragione. Qui la ragione urta con il mistero dell’esistenza. Il grosso limite nostro è che noi rileggiamo la nostra storia del pensiero a partire da Kant, senza tener conto dell’effettivo svolgimento dei fatti, cancellando al storia della filosofia medievale che p il fondamento comunque si voglia della modernità. L’opposizione tra l’empirismo di Hume e il dogmatismo di Wolff superava il problema della causalità, per invadere l’intera questione metafisica dell’esistenza dell’ente, e trova fondamento in questa affermazione di Hume: «tutti gli oggetti di studio della ragione umana possono dividersi naturalmente in due generi, ossia, relazioni tra idee e questioni di fatto»[vii]  1) geometria etc.; 2) il contrario di una questione di fatto rimane sempre possibile non si può mai dimostrare con evidenza che un rapporto di fatto sia necessario: il rapporto causa-effetto è un tipo di questioni di fatto. L’empirismo di Hume era in fondo una rivendicazione dei diritti dell’esistenza sacrificati da tanti metafisici. Infine e giustamente, aggiungerei, si nega che l’esistenza si possa dedurre da un concetto. Hume opponeva la sua filosofia all'ontologia di Wolff e Kant lo comprese bene. Fu questo empirismo, sempre presente nel criticismo kantiano, che fece sì che la sua filosofia fosse un idealismo critico e non un idealismo puro e semplice. Il 1755 fu anno della separazione di Kant da Wolff, questi accoglie la distinzione humiana tra relazioni tra idee e questioni di fatto.

In Tentativo per introdurre in cosmologia il concetto di quantità negative K. Fa propria la posizione humiana, la distinzione tra relazioni tra idee e questioni di fatto; relazioni tra idee significa che se (B) consegue da (A) per identità perché (B) in (A) e lì ha il suo fondamento logico; invece, le questioni di fatto sono tali che si pone la questione di come qualcosa derivi da qualcos’altro non per identità. Relazioni tra idee vuol dire tra un concetto e l’altro; questioni di fatto tra un esistente e l'altro. Sulle questioni di fatto, ovviamente, l’ontologia di Wolff si arena. Come concepire, si chiede Kant, il rapporto tra essenza di Dio ed esistenza? Kant è sempre dentro il paradigma wolffiano. Questa è la prova decisiva a cui Kant sottopone il wolffismo. L’unico argomento possibile per una dimostrazione dell’esistenza di Dio è del 1763, ma Kant giunge alla conclusione che nemmeno qui è possibile dedurre l’esistenza dall’essenza, ovvero, l’esistenza non è un predicato logico di un concetto. Infatti, se pensiamo al concetto di Giulio Cesare, tutti i possibili lo determinano e nessuno può mancare, ma ciò non significa ancora che esista, nel puro possibile Giulio Cesare non esiste, l’esistenza, appunto, non è uno dei predicati del possibile (181). Una cosa, infatti, è dire: Giulio Cesare è romano, dove si predica qualcosa di qualcos’altro, altro è dire: Giulio Cesare è.

Il Giudizio di esistenza è una posizione assoluta in contrasto coi giudizi di relazione che costituiscono i semplici possibili, Kant tralascia il problema della natura stessa dell’esistenza. «Posso dire che, nell’esistenza vi è di più che nella pura possibilità?»[viii]  si chiede Gison parafando Kant? Per Kant occorre distinguere ciò che si pone da come lo si pone. Ciò che si pone è l’essenza che è il possibile preso con tutti i predicati che lo determinano, quindi Giulio Cesare possibile è Giulio Cesare reale. Il come equivale a dire che Giulio Cesare si trova posto, si aggiunge qualcosa al possibile e lo trova esistente[ix].

Ora che si parla del reale è lo stesso soggetto che si trova posto, con tutte le sue determinazioni che lo costituivano come possibile; ma ciò che l’esistenza aggiunge al possibile è il soggetto stesso, nient’altro. Kant a questo punto, soddisfatto di se stesso si ferma, «dichiarando di non avere nessuna intenzione di confermare le sue tesi confutando le opinioni contrarie»[x] .  Ma la determinazione di esistenza di Kant è originale rispetto a Wolff, ma ahimè per lui non è’ nuova, però. Ritorna alla dottrina scotista che faceva dell’esistenza un modus dell’essenza, quel modo che la pone in un colpo solo nel reale assieme a tutte le sue determinazioni. Kant non è originale, dunque, e ciò perché Kant non ha mai studiato né Platone né Aristotele, né tanto meno Tommaso, difetto questo di molti filosofi tedeschi e non solo che non conoscono per niente la filosofia medievale. Per il filosofo di Konigsberg essere originale significava insegnare qualcosa di diverso da Wolff, tant’è. Nuova e aberrante questa definizione dell’esistenza di Kant rispetto a quella di Wolff [xi]. Kant ora la confronta con quelle di Wolff e dei wolffiani Baumgarten e Crusius, Wolff insegna che l’esistenza è un completamento della possibilità, niente di più vago, se non si sa in anticipo che cosa si può concepire di una cosa, oltre alla sua possibilità, non lo sapremo dalla spiegazione Baumgarten definisce l’esistenza come la completa determinazione dell’oggetto che completa l’essenza, ma l’essenza di un possibile include la determinazione completa di tutti i suoi predicati. E sappiamo che Kant avrebbe risposto che l’esistenza non è una relazione che si aggiunge ad altre relazioni. Se Crusius vede nel «qualche tempo» e nel «qualche parte» sufficienti indizi dell’esistenza, Kant direbbe che tali indizi appartengono all’essenza di ogni individuo possibile[xii]. Il Nostro però senza saperlo, dopo la lettura di Hume, trova di originale nella sua dottrina, il principio fondamentale di Avicenna per cui l’analisi di un concetto di qualsiasi essenza finita non permette mai di scoprirvi l’esistenza. Il dato che non si può dedurre apriori nella Critica della ragion pura è la sensibilità, non tutta la sensibilità, non la forma ma la materia del sensibile, che rappresenta in Kant lo stadio Hume, La ragion pura sarà lo stadio Wolff[xiii]. Tra Hume e Wolff Kant introduce il piano dell’intelletto, inteso come apriori trascendentale, concetto che si chiarirà definitivamente nella Critica della ragion pura. Ora, porre gli oggetti come tali è porre in esistenza. E l’idealismo critico di Kant, in quanto comporta un momento empirico, include un realismo minimo, che lo protegge contro l’idealismo assoluto[xiv]; ma l’idealismo di Kant, per quanto «idealismo critico», rimane pur sempre un idealismo. L’idealismo critico, così inteso dal filosofo tedesco, include pertanto un realismo dell’esistenza, di cui di cui si può dire a ragione che è un realismo ingenuo, come lo definisce giustamente Etienne Gilson[xv]. Ed è proprio su questo auto fraintendimento che Kant rifiuta l’idealismo dogmatico di Berkeley, per il quale il mondo materiale non esiste ma anche l’idealismo problematico di Cartesio per il quale l’esistenza del mondo esterno è un problema.

Per Kant non esiste affatto il problema dell’esistenza delle cose esterna che per lui è certa tanto quanto il cogito per Cartesio. Infatti, “che ogni conoscenza incominci con l’esperienza, no vi è certo alcun dubbio”, tuona Kant nella Introduzione alla Critica della Ragion pura[xvi]. Ma il dato in cosa consiste alla fine? Si chiede provocatoriamente Gilson. Non appena, infatti, si pone questa domanda si assiste in Kant a quel processo dialettico con cui il Nostro si sforzerà di limitare, contenere e canalizzare quell’esplosione di esistenza che, se seguisse il suo corso, minaccerebbe l’intero edificio critico fino alle conseguenze estreme di Hume. Mi spiego. Lo scetticismo humiano derivava dalla condizione anarchica del punto di partenza del suo sistema: il dato della realtà nuda e cruda cui si rifiutava di riconoscere un ordine oggettivo. Kant il riformatore, o meglio il rivoluzionario, decide di imitare in metafisica la matematica e la fisica, ovvero di fondare sulle necessità interne del pensiero la conoscenza che abbiamo della realtà[xvii]; per questo motivo la Critica di Kant, pur poggiando sul realismo, è idealista fino alle midolla. Il programma di Kant, infatti, è di non lasciarsi tiranneggiare dalla natura che senza l’Io penso sarebbe priva di intellegibilità, l’Io penso è appunto questo nuovo demiurgo legislatore della natura. Qui emerge veramente il tono di Kant il rivoluzionario: la ragione impone la natura la sua intellegibilità l’Io penso kantiano è il vero demiurgo: citata in tribunale oramai l'esistenza non può far altro che obbedire al giudice; ma la legge è una sola per l’esistenza: adeguarsi a tutte le leggi che lo spirito umano le impone. Infatti, se la realtà è posta da Kant con un’evidenza immediata è perché la sua esteriorità ci è interiore[xviii]. Lo SPAZIO e il TEMPO sono forme apriori della sensibilità. L’esistente quindi è solo e solamente «per noi» non «in sé», in sé è poco più che nulla. Ed è qui che io vedo l’insorgere del nichilismo, in questa conseguenza logica della rivoluzione copernicana operata da Kant in filosofia, qui si cela l’irrompere del nichilismo, o meglio, il suo ritorno dopo essere stato sconfitto da Socrate, nella filosofia moderna e poi contemporanea. Il non può esserci nulla di reale fuorché nella percezione, significa due cose 1) l’idealismo di Kant rimane decisamente un idealismo mascherato da pseudo-realismo; 2) che la realtà do per sé è priva di un ordine oggettivo che le vien dalla creazione, essa è caos e l’intelletto è il nuovo nous anassagoreo. Per Kant quindi l’essenza del reale implica che sia percepito e nient’altro. Reale per lui significa reale percepito; i corpi sono reali solo attraverso le nostre rappresentazioni, ovvero essi sono degli Erscheinungen, cioè delle apparenze più che fenomeni il cui l’essere è l’apparire, e Schopenhauer comprese benissimo questo aspetto di Kant, rimanendo indubbiamente il più kantiano tra quei filosofi che ne hanno rivendicato l’eredità, mostrandoci l’altra faccia del kantismo da cui poi è venuto fuori Nietzsche. Questo tema non pè stato ancora approfondito a sufficienza nella storia della filosofia e certamente un tal lavoro andrebbe fatto, per far emergere tutte le implicanze e le connessioni tra Kant e il nichilismo. Quindi per Kant basta apparire per essere, gli oggetti ci sono dati perché noi ne abbiamo coscienza nella percezione, conclude de Gilson[xix]. Il realismo di Kant, allora, è un realismo immediato in quanto è un idealismo profondo. Eppure c’è la “cosa in sé” che non è nello spazio eppure esiste che, come cosa in sé, per noi non può essere oggetto e non essendo un oggetto non è per noi reale. Qui l’esistenza è data per essere subito imbrigliata nelle forme apriori della sensibilità e nelle categorie dell’intelletto, “Punto” che coincide con l’intuizione empirica che gli permette di dire che la materia delle nostre intuizioni spaziali è qualcosa di dato e non finzione dello spirito[xx], per cui l’«x» intuito si confonde con la sensazione che ne abbiamo[xxi]. Il dato c’è per non pensare a vuoto, ma l’esistenza del dato è imbrigliata, congelata, il Gemüuth ha il dato finalmente e felice ne fa quello che vuole. Ora però, sottolinea giustamente Etienne Gilson, perché l’esistenza sia conosciuta occorre che un giudizio la ponga come ora questo giudizio c’è ed appartiene alla categoria della modalità[xxii]. Ai tre giudizi corrispondono tre categorie[xxiii], e per quello che andiamo dicendo quello «della esistenza - non esistenza; ora l’esistenza è una delle categorie della modalità dei concetti, quella che corrisponde alla modalità assertoria dei giudizi, ovvero al caso in cui la relazione significata dalla copula è posta come reale. In cosa consiste la realtà affermata da questi giudizi? Il reale è il dato che si offre al pensiero nella sensazione, come orami abbiamo imparato dal linguaggio kantiano, si pone quindi come Postulato del pensiero empirico in generale nello Schematismo trascendentale[xxiv] «ciò che concorda con le condizioni materiali dell’esperienza è reale»[xxv]. La realtà, così intesa da Kant, è comunque un oggetto di pensiero e null’altro. Infatti, la possibilità di una cosa è l’accordo tra il suo concetto e le condizioni formali dell’esperienza, così la realtà di una cosa è l’accordo tra il suo concetto e le condizioni materiali dell’esperienza. L’esistenza, continua Gilson, qui non è più la modalità di una cosa, ma solo quella di un giudizio dell’intelletto. L’idealismo critico di Kant, in definitiva, è un tentativo di aggirare l’ostacolo che l’esistenza oppone all’intelletto, conclude magistralmente il filosofo francese[xxvi]. Esso è stato lo sforzo più consistente fatto da un filosofo allo scopo di neutralizzare l’esistenza senza negarla e perciò l’esistenza, nell’ambito della Ragione pura, vi è chiesta come condizione di ogni conoscenza reale, ma che, sempre presente, non vi incide in nulla, infatti, la cosa in sé di Kant è richiesta come presupposto della Critica, affinché siano possibili le conoscenze reali. Ed è questo irriducibile fa sì che i concetti non siano vuoti; quel medesimo dato implica la presenza di ciò che ci appare con Erscheinung (fenomeno), ossia di ciò che come fondamento reale del fenomeno è la cosa in sé. Tutto quello che si sa della cosa in sé è che esiste, ma questo è un postulato bello e buono, potremmo definirlo il postulato fondamentale della Ragion pura. In una tal dottrina, dove ciascun corpo è un in-sé-esistente (colto a mo’ di intuizione come fenomeno) il solo contributo dell’in-sé alla struttura del fenomeno è far sì che esso ci sia, è qui che io vedo l’origine del nichilismo moderno, in questo atteggiamento kantiano che consiste nel ritenere caos la natura senza le forme apriori della sensibilità e dell’intelletto. Le proprietà di cui si costituisce l’intuizione appartengono al fenomeno, come vien detto nella Estetica Trascendentale da Kant stesso.[xxvii] Tutto l’esser fenomenico della cosa è prodotto dall’attività conoscitiva del soggetto, dunque, l’esistenza c’è, ma tutto avviene felicemente per la conoscenza sensibile, come se non ve ne fosse. L’oggetto della scienza kantiana esiste, ma nulla muterebbe perla scienza qualora, per il capriccio di qualche genio diciamo così maligno, il suo oggetto cessasse di esistere[xxviii], ovvero: la cosa in sé non interviene minimamente nella struttura della nostra conoscenza. Kant ha sempre mantenuto un dato, ma lo ha concertato tutto quanto in un punto in qualche modo invisibile che è il fatto bruto dell’esistenza e a partire da quel punto, il pensiero può dispiegarsi a suo agio, in un reale che l’apriori della sensibilità offre come una materia resa perfettamente adatta alle categorie dell’intelletto. Il che significa che l’esperienza stessa è opera dello spirito umano, le stesse leggi cui obbediscono i fenomeni son quelle che lo spirito impone loro, dunque l’intelletto è quelle leggi (idealismo e nichilismo strisciante). Afferma Kant: «L’intelletto non attinge le sue leggi apriori dalla natura, ma le prescrive ad essa»[xxix] (190). Se grazie all’intelletto la natura e l’esperienza sono possibili, né la natura né l’esperienza sono impermeabili all’intelletto che conferisce loro l’essere.

 

 

 

 



[i] Etienne Gilson, L’essere e l’essenza, Editrice Massimo, Milano, 2007, p 174.

[ii] Etienne Gilson, cit. p. 174.

[iii] Etienne Gilson, cit. p. 174.

[iv] Etienne Gilson, cit. p. 176.

[v] Etienne Gilson, cit. p. 177.

[vi] Etienne Gilson, cit. p. 177.

[vii] Etienne Gilson, cit. p. 178.

[viii] Etienne Gilson, cit. p. 182.

[ix] Etienne Gilson, cit. p. 182.

[x] Etienne Gilson, cit. p. 183.

[xi]Cfr.  Etienne Gilson, cit. p. 183.

[xii] Etienne Gilson, cit. p. 184.

[xiii] Etienne Gilson, cit. p. 185.

[xiv] Etienne Gilson, cit. p. 185.

[xv] Etienne Gilson, cit. p. 186.

[xvi] Immanuel Kant, Critica della ragion pura, trad. it. Giorgio Colli, Milano, Adelphi, 2004, 27.

[xvii] Etienne Gilson, cit. p. 186.

[xviii] Etienne Gilson, cit. p. 187.

[xix] Etienne Gilson, cit. p. 188.

[xx] Cfr. I. Kant, cit. pp. 49; 74.

[xxi] Etienne Gilson, cit. p. 189.

[xxii] Etienne Gilson, cit. p. 189.

[xxiii] Cfr I. Kat, cit, pp. 125; 133.

[xxiv] Cfr I. Kat, cit, pp. 234 – 236; e in maniera particolare p. 289 – 295.

[xxv] Cfr I. Kat, cit, p. 289, il 2° postulato.

[xxvi] Etienne Gilson, cit. p. 190.

[xxvii] Cfr I. Kat, cit, pp. 49 - 73

[xxviii] Cfr. Etienne Gilson, cit. p. 190.

[xxix] Cfr. Etienne Gilson, cit. p. 190.