“La prospettiva rovesciata” di Pavel A. Florenskij
Nel 2020, terribile anno del covid, la Adelphi ha pubblicato un brillante saggio di Pavel Florenskij intitolato La prospettiva rovesciata. Al testo fa da appendice un breve scritto di Adriano Dell’Asta. Va innanzitutto detto che il libretto – perché tale si presenta - è importante, non solo e non tanto, per l’originale e fondato invito a “r0vesciare la prospettiva” in campo artistico (poi capiremo meglio cosa il Nostro intenda con ciò) ma soprattutto per la sua valenza teoretica. Questa valenza che si inscrive perfettamente nelle critiche alla presunzione, tutta europea, di essere il “centro del mondo”, direbbe il Principe Nikolaj S. Trubeckoij. Critica che i pensatori russi, slavofili prima ed euroasiatisti poi, hanno sempre mosso alla decadente Europa, già dall’Ottocento.
Il libro, del quale qui si invita ad una disincantata e sincera “rilettura”, è diviso in due parti: una storica e l’altra teoretica. Tesi centrale del lavoro di Florenskij è di dimostrare e mostrare che la prospettiva non è la legge universale della rappresentazione pittorica ma risponde solo alle leggi della soggettività eurocentrica da un lato e alla riduzione del mondo al soggetto, trascendentale prima e individuale poi. Da questo punto di vista, è un testo difficile da leggere, non perché di difficile comprensione, anzi, ma di difficile accettazione da parte nostra; e ciò per via di quei nostri cattivi pre-giudizi non ancora tematizzati che ci accompagnano in quanto europei, cresciuti sempre assolutizzando i dati della nostra civiltà. Dunque, di difficile lettura per via delle “resistenze ermeneutiche” che il lettore sprovveduto potrebbe mettere in atto. Per questo motivo, Florenskij fa precedere la parte teoretica da una parte storica. La prima cosa interessante da notare è che le citazioni con cui il pensatore russo scardina il nostro “cattivo pregiudizio” sono prese in gran parte da Auctores occidentali: Vitruvio, il De Architettura libri decem; Tolomeo e il suo trattato di Geografia; Cantor, con le sue Ricerche sulla storia della matematica. Qui per citarne solo alcuni. La presentazione di Giotto, come uno dei primi pittori della reductio ad naturam del creato stesso, con la predita del teocentrismo e inizia l’autoaffermazione dell’io, è uno degli aspetti interessanti della ricerca del filosofo russo. Quando accade questo “allora inizia anche il tentativo di sostituire la realtà, che nel frattempo è stata avvolta dall’oscurità e dalla nebbia, con delle copie e dei fantasmi; al posto della teurgia si pone poi un’arte illusionistica, e al posto dell’azione divina si pone il teatro”.[1]
Se nella parte storica l’obiettivo di p. Pavel è mostrare da un punto di vista prettamente storico, con tanto di esempi alla mano, che la prospettiva non era diventata il modo di descrivere il reale delle civiltà antiche non per ignoranza ma per scelta; era conosciuta anche da antiche civiltà, veniva applicata alla scenografia teatrale e dunque alla finzione scenica[2]. Nella parte teoretica, invece, il pensatore russo dimostra, rifacendosi in maniera davvero brillante alle ultime ricerche in campo matematico del Novecento, che la prospettiva classica (chiamiamola così per intenderci) non rende ragione della realtà, pur pretendendo di esserne l’unica “reale” e perciò “fedele” rappresentazione. Suo difetto precipuo è il “naturalismo”, ovvero la pretesa che la rappresentazione prospettica sia la rappresentazione della realtà meglio aderente ad essa. Sul naturalismo Florenskij ha le idee molto chiare. Scrive infatti: “il naturalismo, inteso come verosimiglianza esteriore, come imitazione della realtà, come fabbricazione di doppioni delle cose, come fantasma del mondo, non solo non è necessario, come diceva Goethe a proposito del suo amato cagnolino e della sua raffigurazione, ma è anche semplicemente impossibile”[3]. Il rigore delle dimostrazioni matematiche, formule alla mano, è davvero impressionante; impressionante perché viene dimostrato che la rappresentazione prospettica del mondo è uno degli innumerevoli modi possibili per stabilire una corrispondenza tra la cosa e la rappresentazione ma, al tempo stesso, estremamente limitato e limitante, vincolato, ristretto ad un solo aspetto della realtà: quello matematizzabile.
La valenza teoretica sta, oltre che nel brillante appartato matematico teorico messo in atto da Florenskij per argomentare la sua tesi, anche dalla lezione a guardarci in maniera nuova.
Alla rappresentazione prospettica va preferita, invece, la rappresentazione simbolica, ché meglio risponde alle esigenze artistiche di espressione del vissuto oltre che del percepito e matematicamente ridotto a partire dalla prospettiva soggettiva. La proposta florenskijana di ripensamento del nostro modo di raffigurare il mondo, come invito a guardarci con occhi fraterni, quali sono quelli che ci rivolge comunque la cultura russa – anche quando ci critica, viene da una constatazione fondamentale e cioè che “il principio della prospettiva, che è caratteristico di una coscienza degradata, fa la sua comparsa proprio quando viene meno la solidità religiosa della concezione del mondo e quando la sacra metafisica della coscienza comune del popolo viene corrosa dall’opinione individuale del singolo con il suo singolare punto di vista, che oltre tutto è il suo singolare punto di vista in quel dato momento preciso”.[4] E non è proprio l’invenzione dell’individuo ciò di cui andava più fiero l’Umanesimo? Una rappresentazione che a voler essere naturale, ma frutto della separazione della natura dallo spirito, non comprende il profondo legame tra le cose che sono in quanto create. “Al punto che normalizzare matematicamente i metodi di rappresentazione del mondo è un obiettivo follemente presuntuoso”[5], testuali parole di Florenskij. La prospettiva sfigura e uccide, in un certo senso la forma, forma che l’artista vuole in verità rappresentare. “Nel momento in cui la concezione religiosa del medioevo si secolarizza l0azione puramente religiosa degenera nella semi teatralità dei misteri e l’icona decade nella cosiddetta pittura religiosa, dove sempre più spesso il soggetto religioso diventa un pretesto per la raffigurazione dei corpi e dei paesaggi. da Firenze si propaga un’0inda di secolarizzazione; e a Firenze i discepoli di Giotto scoprirono e diffusero i principi della pittura naturalistica come modello artistico”.[6]
La prospettiva rovesciata corrisponde ad una vera e propria controrivoluzione copernicana, (tanto per rifarci all’immagine kantiana) in cui l’accento si sposta dal soggetto alla cosa. Non era forse Husserl a sintetizzare nel famoso motto “Zu den Sachen selbst”, cioè verso le cose stesse, la sua ricerca filosofica?
La prospettiva rovesciata è dunque un invito a riguardare le nostre radici classiche (greco – romane e medievali) come lezioni validissime e non primitive, per meglio guardare le altre civiltà che popolano questo nostro piccolo mondo. Questo saggio, dunque, è davvero un piccolo gioiello del quale raccomando a tutti la lettura, lettura che produce una vera crescita interiore e una profonda maturazione intellettuale.